Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia dell’io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire, e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l’elemento eterno che è in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire; «come il pugnale non può uccidere il pensiero», così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io, che sta a fondamento della disperazione, il cui «verme non muore, il cui fuoco non si spegne».

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