L’inutile disputa attorno a Heidegger non ha alcun senso filosofico proprio, è solo sintomatica di una debolezza del pensiero attuale che, non riuscendo a trovare una nuova energia, torna ossessivamente sulle proprie origini, sulla purezza dei suoi punti di riferimento, e rivive dolorosamente, in questa fine di secolo, la sua scena primaria dell’inizio del secolo. Più in generale, il caso di Heidegger è sintomatico del revival collettivo che ha invaso questa società nel momento del bilancio secolare: revival del fascismo, del nazismo, dello sterminio – anche in questo c’è la tentazione di restituire la scena storica primaria, di imbiancare i cadaveri e di saldare i conti, e nello stesso tempo c’è il fascino perverso del ritorno alle fonti della violenza, l’allucinazione collettiva della verità storica del Male. Quanto dev’essere debole la nostra attuale immaginazione, e quanto grande l’indifferenza alla nostra propria situazione e al nostro proprio pensiero perché ci sia bisogno di una taumaturgia così regressiva.
Si accusa Heidegger di essere stato nazista. Non importa d’altronde che lo si accusi o che lo si voglia discolpare: tutti, da una parte e dall’altra, cadono nella medesima trappola di un pensiero basso, di un pensiero snervato che non ha neppure più la fierezza dei propri punti di riferimento, men che meno l’energia per superarli, e che consuma quel po’ che gliene resta nei processi, nei rammarichi, nelle giustificazioni, nelle verifiche storiche. Autodifesa della filosofia che guarda di traverso l’ambiguità dei suoi maestri (o che addirittura li calpesta in quanto maestri), autodifesa di tutta una società che, non avendo potuto dar vita a un’altra storia, si vede costretta a rimescolare la storia precedente per dare la prova della propria esistenza, o anche dei suoi crimini. Ma cos’è questa prova? È perché siamo scomparsi oggi politicamente, storicamente (è questo il nostro problema) che vogliamo provare il fatto di essere morti tra il 1940 e il 1945, a Auschwitz o a Hiroshima – questa almeno è una storia forte. Esattamente come gli armeni si affannano a provare che sono stati massacrati nel 1917, prova inaccessibile, inutile, ma in qualche modo vitale. È perché la filosofia, oggi è scomparsa (è il suo problema: come si fa a vivere nello stato di sparizione?) che essa deve provare di essere stata definitivamente compromessa con Heidegger, o resa afasica da Auschwitz. Tutto questo rappresenta il ricorso storico disperato a una verità postuma, a una discolpa postuma – e ciò in un momento in cui, appunto, non c’è più abbastanza verità per arrivare a una verifica qualunque, in un momento in cui, appunto, non c’è più abbastanza filosofia per fondare una qualunque relazione tra la teoria e la pratica e in cui, appunto, non c’è più abbastanza storia per istruire una prova storica qualunque di ciò che è avvenuto.
Ci si dimentica un po’ troppo del fatto che tutta la nostra realtà è passata attraverso i media, compresi gli eventi tragici del passato. Ciò vuol dire che è troppo tardi per verificarli e comprenderli storicamente perché quello che caratterizza precisamente la nostra epoca, la nostra fine di secolo, è il fatto che gli strumenti di una tale intelligibilità sono scomparsi. Bisognava comprendere la storia fintanto che c’era della storia. Heidegger bisognava denunciarlo (o difenderlo) finché era ancora il momento: un processo può essere istruito soltanto quando c’è un procedimento che ne consegue. Ora è troppo tardi, siamo stati riversati a altro, come si è visto bene quando hanno dato Olocausto alla televisione, o Shoah. Queste cose non sono state capite quando ne avevamo i mezzi; ormai non saranno capite più. Non lo saranno più perché nozioni così fondamentali come quelle di responsabilità, di causa oggettiva, di senso (o di non-senso) della storia, sono scomparse o stanno scomparendo. Gli effetti di coscienza morale, di coscienza collettiva, sono interamente effetti mediatici, e si può capire dall’accanimento terapeutico col quale si tenta di resuscitarla, questa coscienza, quanto poco fiato le resti ancora.
Non sapremo mai se il nazismo, i lager, Hiroshima, erano intelleggibili o no; non siamo più nello stesso universo mentale. Reversibilità della vittima e del boia, diffrazione e dissoluzione della responsabilità, queste sono le virtù del nostro meraviglioso interfaccia. Non abbiamo più la forza dell’oblio, la nostra amnesia è quella delle immagini. Chi decreterà l’amnistia, dato che tutti sono colpevoli? Quanto all’autopsia, nessuno crede più alla veridicità anatomica dei fatti: lavoriamo su dei modelli. Quant’anche i fatti fossero lì, lampanti sotto i nostri occhi, non potrebbero implicare né la prova né la convinzione. È così che a forza di scrutare il nazismo, le camere a gas, ecc., per analizzarli, essi sono diventati sempre meno intelleggibili e abbiamo finito logicamente per porre questa domanda inverosimile: ‹‹Ma in fondo, tutto ciò è esistito veramente?››. Forse questa domanda è insopportabile, ma la cosa interessante è ciò che la rende logicamente possibile. E ciò che la rende possibile è la sostituzione mediatica degli eventi, delle idee, della storia, che fa sì che più li si scruterà, meglio se ne distingueranno i dettagli per afferrarne le cause, più essi cesseranno di esistere, più essi cesseranno di essere esistiti.
Confusione sull’identità delle cose a forza di istruirle, di memorizzarle. Indifferenza della memoria, indifferenza alla storia uguale agli sforzi stessi che facciamo per oggettivarla. Un giorno ci si domanderà se lo stesso Heidegger è esistito. Il paradosso faurissoniano può sembrare odioso (e lo è nella sua pretesa storica di negare l’esistenza delle camere a gas) ma per altri versi esso traduce esattamente il movimento di tutta una cultura – l’impasse di una fine di secolo allucinata, affascinata dall’orrore delle sue origini, per la quale l’oblio è impossibile e la cui sola via d’uscita consiste nella negazione. Ad ogni modo, se la prova è inutile, dato che non vi è più alcun discorso storico per istruire il processo, anche la punizione è impossibile. Auschwitz e lo sterminio sono inespiabili. Non c’è ancora equivalenza possibile nel castigo, e l’irrealtà del castigo comporta l’irrealtà dei fatti. Quello che stiamo vivendo è tutt’altra cosa. Ciò che sta succedendo collettivamente, confusamente, attraverso tutti i processi e tutte le polemiche, è il passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico, è la ricostruzione mitica, e mediatica, di tutti questi eventi. E in un certo senso questa conversione mitica è la sola operazione che possa non già discolparci moralmente, ma assolverci fantasmaticamente da questo crimine originario. Perché ciò sia possibile, tuttavia, perché addirittura un crimine divenga mito, occorre che si metta fine alla sua realtà storica. Altrimenti tutte queste cose, il fascismo, i lager, lo sterminio, poiché sono stati e restano tuttora per noi storicamente insolubili, siamo costretti a ripeterle eternamente come una scena primaria. Non sono le nostalgie fasciste il vero pericolo; quello che è pericoloso e derisorio è questa riattualizzazione patologica di un passato di cui tutti, sia chi nega sia chi difende la realtà delle camere a gas, sia i detrattori sia i difensori di Heidegger, costituiscono gli attori simultanei e quasi complici, è questa allucinazione collettiva che riconduce a quell’epoca tutto l’immaginario assente del nostro tempo, tutta la posta di violenza e di realtà oggi illusoria, in una specie di compulsione a riviverla e di profondo senso di colpa per non esserci stati. Tutto ciò traduce una abreazione disperata nei confronti del fatto che questi eventi ci stanno sfuggendo sul piano reale. L’affare Heidegger, il processo Barbie e così via sono le convulsioni derisorie di questa perdita di realtà, la nostra di oggi, di cui le affermazioni di Faurisson sono la traduzione cinica nel passato. Non è esistito significa semplicemente che noi non esistiamo neanche più abbastanza per mantenere una memoria e che non ci resta altro, per sentirci vivere, che gli strumenti dell’allucinazione.
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