Non volevo fare un film sulla fragilità del sistema scolastico, ho preso spunto da un’esperienza vissuta da studente, analoga a quella del film. Ho raccontato il tentativo di ciascun personaggio di manipolare il dramma altrui per raggiungere uno scopo personale. Un comportamento molto diffuso in politica, anche se il mio non è un film politico.
Si dice che la fine sia nell’inizio, si dice infatti, ma il punto, è essere quell’inizio per essere allo stesso modo immancabilmente nella fine. E il giovane regista sloveno Rok Biček, vincitore della Settimana della Critica a Venezia 2013, al suo esordio con Class Enemy riesce a catturare consapevolmente l’attenzione, mettendoci la propria, per sfociare insieme nel silenzio, nessuna musica nei titoli di coda, se ne esce decisamente colpiti, non dalla visione di un film o da un qualche ricordo, ma da un vero e proprio vissuto.
Il tutto è già presente e proviene da un passato, per raccogliersi nel suo svolgimento, in una classe di un liceo sloveno, ma che potrebbe essere benissimo, una qualsiasi classe di un liceo in Europa.
In questo microcosmo sociale, tutto scorre normalmente, tenuto insieme dall’ipocrisia, fin quando non vi giunge un nuovo elemento, il professore di tedesco, che con la sua fermezza, diventa quello specchio che si è sempre evitato e con cui prima o poi si deve fare i conti.
Il regista mai di parte, con maestria, sovrappone schemi predefiniti adolescenziali e filosofia, mai spiccia o di facili risposte.
Studiare non significa sapere. Volere non significa potere.
Con questa frase di Cankar inizia la lezione di tedesco, perché sia chiaro: nulla si può dare per scontato e tutto può essere, per cui, l’animo umano striato di contraddizioni, diventa indefinibile. Niente è come crediamo, resta il fenomeno con il brulicare delle più svariate interpretazioni e le conseguenze di queste. Resta il suicidio di una studentessa, dopo un dialogo con il professore, che l’ha messa davanti all’evidenza della sua bravura nel suonare il piano, e della sua indecisione, insicurezza e fragilità.
Ecco allora, che il suicidio diventa presa di posizione, denunciando così la fragilità degli altri e l’ipocrisia di un sistema di cose. L’elaborazione del lutto, dapprima una serie di schermaglie, dove il professore diventa il capro espiatorio, si fa poi, una presa di coscienza e un rendersi effettivamente conto che: La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive. Thomas Mann, i cui figli, Michael e Klaus, si erano tolti la vita.
Sembra che a salvarci la vita, sia chi ci asseconda, lasciando tutto com’è, e invece, è chi ci scuote e ci infastidisce a restituirci una vita o una morte, ma che almeno sia la propria.
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