Che era questa benedetta marcia su Roma? Le idee non erano chiare. La stampa, presso che unanime, spiegava trattarsi di una marcia ideale: un‘espressione figurata che significava ascesa spirituale, conquista morale. Lo stesso Mussolini non aveva idee molto precise. Egli, in una intervista celebre dell’11 agosto, aveva detto: «Questa marcia su Roma è strategicamente possibile, attraverso le tre grandi direttrici: costiera adriatica, costiera tirrenica e valle del Tevere». Il che, come ognuno può controllare sulla carta, è un bel pasticcio. Ma, per quanto questo piano strategico fosse piuttosto confuso, chiariva tuttavia trattarsi di una vera e propria marcia, materialmente da farsi con le gambe.
«Nessuno mi toglie dalla testa» concluse infine l‘onorevole Facta «che l’espressione va interpretata come una figura retorica».
I fascisti intanto fissarono per il 24 ottobre un congresso nazionale e una grande adunata a Napoli. Non era questa la mobilitazione? Il 29 settembre Mussolini, da Roma, aveva annunziato: «La marcia su Roma è deciso che si farà».
Non v’erano dubbi. La marcia era una marcia e non un simbolo.
L‘onorevole Facta cominciò a impensierirsi eccezionalmente. Ma ebbe presto un’ispirazione geniale ed escogitò un piano che, se fosse riuscito, avrebbe fatto di Gabriele d’Annunzio il più originale dei dittatori di tutti i tempi: passati, presenti e futuri.
Il piano era costruito tutto sul dissidio fra Mussolini e D‘Annunzio. Era risaputo che i due si odiavano a morte. In pubblico si incensavano scambievolmente, ma in privato si combattevano con ferocia. Perché l’uno e l’altro si contendevano il governo d’Italia. Tempi d’oro.
Il concetto originario della «marcia su Roma» era di D’Annunzio. Durante il suo principato di Fiume, era stato il suo pensiero fisso. Sopprimere il Parlamento ed impiccare l’onorevole Nitti era stato il suo grande sogno letterario-politico. Una dittatura di poeti e di artisti doveva coronare l’impresa: una specie di repubblica di Montmartre. Disgraziatamente, Fiume era caduta. Ma dalle sue rovine era sorto il fascismo.
E il fascismo aveva carpito all‘esercito dannunziano usi, costumi, canti, parate e molti gregari. Il «Duce» erigeva la sua fortuna sulle sciagure del «Comandante» (così si faceva chiamare il poeta-soldato). Sdegnato, D’Annunzio aveva definito il fascismo «schiavismo». I rapporti erano così tesi che Mussolini e il Poeta avevano ciascuno una scorta di armati costantemente in agguato. «Dei due» si diceva «regnerà quegli che assassinerà l’altro».
Nessuno mi toglie dalla testa
NOTA: Questo memoriale antifascista fu pubblicato dall’autore in esilio a Parigi dapprima nel 1931 per un pubblico internazionale, quindi nel 1933 in lingua italiana (col significativo sottotitolo Fascismo visto da vicino) dalla casa editrice parigina Critica.
Crediti
Quotes per Emilio Lussu
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