Nikolàj Semёnovič Leskòv - Lo scacciadiavolo
Tra i racconti di questo grande narratore russo (1831-1895) ce ne sono certamente altri che meritano più di questo la definizione di fantastico. Ma il ritmo di sarabanda infernale che anima questa novella, la trasfigurazione che agli occhi d’un giovane assumono gli avvenimenti d’una notte per lo straordinario potere della vitalità d’un ricco peccatore, la rapidità trascinante con cui una storia che sembrava di dannazione si trasforma in storia di pentimento e di salvezza, pur sempre come spinta dallo stesso slancio, m’hanno convinto ad appuntare qui la mia scelta.
Come sempre in Leskòv, è la voce del narratore che fa il racconto; e questo è uno dei casi in cui questa voce riesce a raggiungerci anche attraverso una traduzione.
I È questa una cerimonia che si può vedere soltanto a Mosca e per di più solo avendo speciale fortuna e protezioni.
Io ho veduto la cerimonia dal principio alla fine grazie ad un felice concatenamento di circostanze, e voglio descriverla per i veri conoscitori ed amatori del serio e del maestoso secondo il gusto nazionale.
Sebbene per uno dei lombi io sia nobile, per l’altro son vicino al popolo; mia madre veniva dalla classe dei mercanti. Apparteneva ad una famiglia ricca, ma se n’era scappata per amor di mio padre. Il defunto era stato veramente in gamba per quanto riguarda il genere femminile e aveva ottenuto sempre tutto ciò che gli piaceva. Così gli andò bene anche con mia madre, ma per questa abilità i vecchi suoceri non gli diedero nulla, oltre, si capisce, il guardaroba, il letto e la benedizione divina, tutte cose che furono ricevute insieme al perdono e alla benedizione paterna incrollabile per l’eternità. I miei vecchietti vivevano ad Orёl, in bisogno ma superbamente, senza chiedere nulla ai ricchi parenti materni, anzi non avendo con essi nessuna relazione. Però, quando venne per me il momento di entrare all’università, mia madre mi disse: «Va’ a trovare lo zio Il’jà Fedòséevič, e salutalo da parte mia. Questa non è umiliazione, i vecchi parenti bisogna rispettarli; egli è mio fratello, per di più un uomo timorato di Dio ed ha un certo peso a Mosca… A tutti i ricevimenti solenni dà sempre il pane e il sale… sta avanti a tutti col piatto o con una immagine sacra… è ricevuto anche dal governatore generale e dal metropolita… Non potrà insegnarti che bene».
Sebbene io a quell’epoca, avendo studiato il catechismo di Filarete, non credessi in Dio, amavo tuttavia mia madre, e pensai così tra di me: Ecco è già quasi un anno che sono a Mosca e ancora non ho rispettato la volontà della mamma; vado subito da zio Il’jà Fedòséevič e guardo un po’ che cosa mi può insegnare.
Per abitudine presa dall’infanzia io avevo molto rispetto per i vecchi specialmente per quelli che sono noti perfino al metropolita e al governatore.
Mi alzai, mi spazzolai ben bene ed andai dallo zio Il’jà Fedòséevič.
II Potevano essere le sei della sera, l’aria era calda, morbida e un po’ umida, in una parola, piacevolissima.
La casa dello zio è nota – una delle prime case di Mosca – la conoscono tutti.
Solo io non c’ero mai stato e non avevo mai visto lo zio, nemmeno da lontano.
Ci vado però franco franco, ragionando tra me: mi riceve, bene; non mi riceve, meglio.
Entro nel cortile; all’ingresso c’è una vettura con due cavalli-leoni, neri come corvi, con le criniere lunghe e arruffate e il pelo luccicante come raso di valore.
Io salii la scala e dissi: «Così e così: io sono il nipote, lo studente, vi prego di annunziarmi a Il’jà Fedòséevič».
Mi si risponde: «Ecco, adesso viene lui stesso. Va a passeggio».
Appare una figura molto semplice, russa, ma abbastanza maestosa; gli occhi hanno qualcosa di simile a quelli della mamma, ma l’espressione è diversa: è quel che si dice un uomo ben piantato.
Mi presentai a lui; egli ascoltò in silenzio, mi diede pian piano la mano e disse: «Siedi, andiamo».
Io volevo rifiutare, ma chissà perché il rifiuto non venne fuori e mi sedetti.
«Al parco!» ordinò egli.
I leoni attaccarono la corsa così che solo la parte di dietro della vettura scricchiolò, e come se dovessero andar fuori città, si misero a correre velocemente.
Sediamo e non diciamo una parola; solo io vedo come lo zio calca sempre più sulla fronte il cilindro e sulla sua faccia c’è un certo cipiglio come succede quando ci si annoia.
Guarda di qua, di là e solo una volta mi getta uno sguardo e così senza niente altro dice: «Non è una vita, questa».
Io non seppi che rispondere e tacqui.
E di nuovo andiamo, andiamo: dove diavolo mi porta costui? E comincio a fantasticare di essere cascato in qualche pasticcio.
Ma lo zio sembrò improvvisamente aver presa una decisione e cominciò a dare ordini al cocchiere, uno dopo l’altro: «A destra, a sinistra. Da Jar. Ferma!» Vedo che dal restaurant una folla di camerieri ci si precipita incontro, e dàgli tutti quanti a inchinarsi avanti allo zio, ma egli non si muove dalla vettura e ordina che si chiami il padrone.
Corrono. Appare un francese – anch’egli con grande riguardo – e lo zio non si muove; appoggia contro i denti il pomo d’osso del bastone e dice: «Quanta gente c’è?» «Una trentina di persone» risponde il francese «e tre sale particolari occupate».
«Via tutti».
«Benissimo».
«Adesso sono le sette» dice, guardando l’orologio, lo zio; «alle otto ritorno.
Sarà pronto?
» «No» risponde «alle otto è difficile… molti hanno già ordinato… ma alle nove, in tutto il restaurant non ci sarà più un estraneo».
«Bene».
«Che cosa bisogna preparare?» «Si capisce, i mori».
«E poi?» «L’orchestra».
«Una sola?» «No, due è meglio».
«Debbo mandare a chiamare Rjàbyka?» «Si capisce».
«Delle signore francesi?» «Non ce n’è bisogno!» «E la cantina?» «Tutta quanta».
«E di cucina?» «Qua la carta».
Gli porgono la carta della giornata.
Lo zio a quanto pare non ci capì nulla, o forse non volle darsi la pena di decifrare, picchiò sulla carta col bastone e disse: «Tutto questo per cento persone».
E arrotola la carta e se la mette in tasca.
Il francese è allegro e imbarazzato.
«Io» dice «non posso preparare per cento persone, ci sono delle pietanze molto care, di cui in tutti i restaurant non ci sono che cinque o sei porzioni».
«Ma io come posso assortire i miei ospiti? Ognuno deve avere quello che desidera. Hai capito?» «Ho capito».
«Se no, caro mio, neppure Rjàbyka agisce. Andiamo!» Lasciammo il padrone del restaurant coi suoi camerieri sulla porta e corremmo via.
Ormai avevo capito chiaramente che avevo sbagliato binario e volevo prender congedo, ma lo zio non mi ascoltava. Egli era molto preoccupato.
Andiamo ed egli ferma ora questo, ora quello.
«Alle nove da Jar» dice breve ad ognuno lo zio.
E le persone alle quali egli si rivolge sono tutti vecchi rispettabili e tutti si levano il cappello e tutti egualmente rispondono breve allo zio: «Tuoi ospiti, tuoi ospiti, Il’jà Fedòséevič».
Non mi ricordo quanti ne fermammo in questo modo, ma credo almeno una ventina; non appena furono le nove eccoci di nuovo da Jar. Una vera folla di servi ci si precipitò incontro ed eccoli che prendono lo zio sotto il braccio e il francese in persona sulla scala con la salvietta gli toglie la polvere dai pantaloni.
«Tutto sgombro?» domanda lo zio.
«C’è soltanto un generale» dice; «ha fatto tardi, ha pregato insistentemente di poter finire nella stanza separata».
«Via, via subito!» «Ma finisce presto».
«Non voglio, gli ho dato abbastanza tempo: che vada a finir di mangiare sull’erba».
Non so come sarebbe finita questa storia, ma in quel momento il generale con due signore uscì dal restaurant, si sedettero in carrozza e andarono via; intanto, uno dopo l’altro, cominciarono ad affluire gli ospiti che lo zio aveva invitato nel parco.
III Il restaurant era sgombro, pulito, libero del tutto. Solo in una delle sale c’era un colosso, che venne incontro allo zio in silenzio, e senza dire nemmeno una parola, gli tolse dalle mani il bastone e lo nascose chissà dove.
Lo zio lasciò il bastone senza la più piccola opposizione e nello stesso tempo diede al gigante il portafoglio e il portamonete.
Questo semigrigio massiccio gigante era quel tale Rjàbyka che era stato nominato nel ristorante durante l’incomprensibile ordinazione dello zio. Di professione egli era maestro di scuola, ma qui evidentemente si trovava per qualche speciale incarico. Egli doveva essere qui indispensabile come gli zingari, l’orchestra e tutto il personale che era apparso in un momento al completo. Soltanto non capivo in che cosa consistesse la parte del maestro, ma era ancora presto per la mia inesperienza.
Il ristorante chiassosamente illuminato lavorava; la musica rimbombava, gli zingari saltavano di qua e di là e si fermavano a mangiar qualche cosa al buffet, lo zio passava in rivista le stanze, il giardino, le grotte e le gallerie. Egli guardava dappertutto se non ci fossero estranei, e accanto a lui continuamente andava il maestro; però quando tornarono nel salone principale, dove era riunita tutta la compagnia, una grande differenza si notava tra loro; il giro aveva agito diversamente su di loro; il maestro era in gambe come era andato, ma lo zio era ubriaco fradicio.
Non so come questo fosse potuto accadere così rapidamente, ma egli era di un umore eccellente; si sedette al posto d’onore e cominciò la baraonda.
Le porte furono sbarrate con la prescrizione che nessuno potesse entrare e che nessuno di noi potesse uscire nel mondo.
Ci separava dal mondo un abisso, l’abisso di tutto il vino bevuto, di tutte le vivande mangiate, ma soprattutto l’abisso della gozzoviglia, non voglio dire laida, ma selvaggia, furiosa, quale io non sono in grado di descrivere. E d’altra parte questo non mi si può neppure chiedere perché, vedendomi qui incatenato, separato da tutto il resto del mondo, io stesso mi smarrii del tutto e mi affrettai ad ubriacarmi. È per questo che io non descriverò come passò quella notte, perché descrivere tutto ciò non è dato alla mia persona; io mi ricordo due soli episodi notevoli della battaglia e il finale, ma è proprio in essi che è racchiuso lo spaventevole.
IV Fu annunciato un certo Ivàn Stepànovič, che, come si seppe poi, era un fabbricante e commerciante molto importante di Mosca.
Subentrò una pausa.
«È stato già detto che non si deve far entrare nessuno» rispose lo zio.
«Prega insistentemente».
«Se ne vada dove è stato finora».
Il cameriere uscì, ma tornò di nuovo timidamente.
«Ivàn Stepànovič» dice «mi ha detto di dire che egli vi prega molto molto».
«Non abbiamo bisogno di lui, non voglio».
Gli altri dicono: «Facciamogli pagare una multa».
«No, cacciatelo, non voglio la sua multa».
Ma il cameriere ricompare e riferisce ancora più timidamente: «È pronto» dice «a qualsiasi multa. Dice che per la sua età è molto, molto triste essere escluso dalla compagnia».
Lo zio si alzò con gli occhi fiammeggianti, ma nello stesso momento si intromise tra lui e il cameriere Rjàbyka; con la mano sinistra, acchiappandolo come un pulcino con le dita, egli buttò via il cameriere, e con la destra fece di nuovo sedere lo zio.
Tra gli ospiti si sentirono delle voci in favore di Ivàn Stepànovic; pregavano che lo si lasciasse entrare, facendogli pagare cento rubli di multa a favore dei musicanti.
«È uno dei nostri, è vecchio, è un timorato di Dio; dove può andare a finire adesso? È capace di fare uno scandalo davanti al pubblico minuto. Bisogna aver compassione di lui».
Lo zio cedette e disse: «Se non si deve fare a modo mio, non si deve fare neppure a modo vostro, ma come vuol Dio. Si faccia pure entrare Ivàn Stepànovic, ma egli deve suonare i timpani».
Il servo chiacchierone uscì e ritornò subito.
«Dice che preferirebbe gli si facesse pagare una multa».
«Al diavolo! Se non vuol suonare il tamburo, non lo vogliamo: se ne vada dove gli pare».
Dopo un po’ di tempo Ivàn Stepànovic non resistette più e mandò a dire che accettava di battere i timpani.
«Fatelo entrare».
Entra un uomo considerevolmente alto e di aspetto rispettabile: l’espressione severa, gli occhi smorti, la schiena curva, e la barba arruffata e verdastra.
Vuol scherzare e salutare, ma lo respingono.
«Dopo, dopo, tutto questo dopo» gli grida lo zio; «adesso suona il tamburo».
«Suona il tamburo!» si intromettono gli altri.
«Musica! I timpani».
L’orchestra comincia una marcia rimbombante, il vecchio ben piantato prende i mazzapicchi di legno e comincia a battere sui timpani portando ed anche non portando il tempo.
Chiasso e grida infernali, tutti sono contenti e gridano: «Più forte!» Ivàn Stepànovič si sforza di battere più forte.
«Più forte, più forte, ancora più forte».
Il vecchio tambureggia con tutta la sua forza come il Principe nero in Freiligrath, e finalmente è raggiunto lo scopo; il tamburo ha un crak spaventoso, la pelle scoppia, tutti ridono, il chiasso diventa addirittura inconcepibile e Ivàn Stepànovič deve pagare il tamburo sfondato, una multa di cinquecento rubli a favore dei musicanti.
Egli paga, si asciuga il sudore, si mette a sedere e mentre tutti bevono alla sua salute, nota, e con non poco spavento, suo nipote fra gli ospiti.
Di nuovo riso, di nuovo chiasso, fino a che io perdo coscienza. Nei rari momenti chiari io vedo come gli zingari continuano a ballare e come lo zio, seduto, dondola le gambe; poi come egli si alza davanti a qualcuno, ma qui fra essi appare Rjàbyka e quello vola via e lo zio si siede di nuovo, e davanti a lui sul tavolo si trovano due forchette.
io adesso capisco la parte di Rjàbyka.
Ma ecco dalla finestra penetra il frescore del mattino moscovita, io riprendo coscienza, ma come soltanto per dubitare del mio raziocinio. C’era una battaglia e il taglio d’un bosco; si sentiva il rimbombo, lo schiantare degli enormi alberi esotici che crollavano, e dietro di essi si pigiava un mucchio di certe cupe figure, e qui, presso le radici, scintillavano delle terribili scuri e mio zio abbatteva gli alberi e con lui il vecchio Ivàn Stepànovič… Semplicemente un quadro medioevale.
Le zingare, che si nascondevano nella grotta dietro gli alberi, dovevano essere prese prigioniere; gli zingari non le difendevano e le lasciavano alla loro propria energia. Non si capiva quel che era scherzo e quel che era serio; per l’aria volavano piatti, sedie e pietre dalla grotta e quelli si facevano sempre più strada nella foresta; più di tutti coraggiosi si mostravano Ivàn Stepànovič e mio zio.
Finalmente la fortezza fu presa; le zingare furono afferrate, abbracciate e baciate; ognuna si nascose nel busto un foglio da cento rubli e tutto fu finito… Sì, ad un tratto tutto fu tranquillo… tutto finì. Nessuno era venuto a disturbare, ma tutti ne avevano abbastanza. Si sentiva come senza tutto questo la vita non è vita; era tuttavia tempo di finirla.
Tutti ne avevano abbastanza e tutti erano contenti. Forse aveva importanza anche quel che aveva detto il maestro, che per lui era tempo di andare a scuola, ma del resto poco importa; la notte di Valpurga era finita e la vita ricominciava.
Il pubblico non salutò, non si congedò, ma semplicemente sparì; l’orchestra e gli zingari non c’erano già più. Il ristorante offriva il quadro della più piena devastazione; non una tenda, non uno specchio erano interi, perfino il grande lampadario centrale era a terra in pezzi e i prismi di cristallo si sbriciolavano sotto i piedi dei servi che andavano di qua e di là stanchi morti. Mio zio sedeva in mezzo al divano e beveva del kvas; di tratto in tratto sembrava ricordarsi qualche cosa e dimenava le gambe. Accanto a lui c’era Rjàbyka che aveva sempre fretta di andare a scuola.
Porsero loro il conto, un conto che in poche parole abbracciava tutto.
Rjàbyka lo lesse attentamente e chiese cinquecento rubli di sconto. Con lui discussero poco e fecero la somma: si trattava di diciassettemila rubli; dopo averlo guardato ancora Rjàbyka dichiarò che così andava bene. Lo zio pronunciò due sole sillabe: «Paga», si mise il cappello e mi fece segno di seguirlo.
Io con terrore mi accorsi che egli non aveva dimenticato niente e che mi era impossibile nascondermi. Egli mi infondeva un terrore straordinario, ed io non riuscivo ad immaginarmi come sarei rimasto solo con lui a quattr’occhi.
Mi aveva preso con sé per combinazione, non mi aveva ancora detto due parole ragionevoli ed ecco che mi trascinava dietro di sé, senza che mi riuscisse di sfuggirgli. Che cosa mi sarebbe accaduto? Mi passò subito tutta l’ubriacatura. Adesso avevo semplicemente paura di questa strana belva selvaggia, con la sua inverosimile fantasia e i suoi terribili accessi.
Intanto s’andava via; nell’anticamera fummo circondati dalla folla dei servi.
Lo zio ordinò: «Cinque ad ognuno», e Rjàbyka pagò; un po’ meno furono pagati i portieri, i guardiani, le guardie, i gendarmi, ché tutti quanti ci avevano prestato i loro servizi. Tutti furono soddisfatti. Ma nel complesso fu una bella somma; e per di più fuori nel parco si affollavano ancora, per quanto l’occhio poteva vedere, i cocchieri. Era una fila interminabile; tutti aspettavano noi; aspettavano «bàtjuška Il’jà Fedòséevič» se «per caso sua eccellenza avesse bisogno di loro».
Furono contati ed ognuno ricevette tre rubli.
Lo zio ed io salimmo nella nostra carrozza, e Rjàbyka porse allo zio il portafoglio.
Il’jà Fedòséevic cavò dal portafoglio un biglietto da cento rubli e lo porse a Rjàbyka.
Questi si rigirò il biglietto fra le mani e disse bruscamente: «È poco».
Lo zio aggiunse due biglietti da venticinque rubli.
«È troppo poco ancora; non c’è stato nessuno scandalo». Lo zio gli porse ancora un biglietto da venticinque ed allora il maestro gli porse il bastone e si congedò.
V Restammo noi due soli, a quattr’occhi, e ritornammo di corsa a Mosca, mentre dietro di noi con strilli e strepito veniva a rotta di collo tutta la schiera delle carrozze. Io non capivo che cosa volessero da noi, ma lo zio capì. Era veramente una cosa rivoltante; volevano scroccargli ancora del denaro, e con l’aria di tributare uno speciale onore a Il’jà Fedòséevic esponevano la sua dignità allo scherno di tutti.
Mosca era davanti a noi, aperta ai nostri sguardi, tutta, nella magnifica luce del mattino, nel leggero fumo dei camini, avvolta nel calmo scampanìo delle campane invitanti alla preghiera.
A destra e a sinistra della barriera si stendevano dei magazzini di merci. Lo zio fece fermare davanti al primo di essi, indicò un barile che stava sulla soglia e domandò: «È miele?» «Miele».
«Quanto costa il barile?» «Noi vendiamo solo al minuto a libbre».
«Vendi all’ingrosso: calcola quanto vien tutto».
Non riesco a ricordarmi quanto ci fu chiesto. Mi pare settanta o ottanta rubli.
Lo zio buttò il denaro al negoziante.
Intanto il corteo delle carrozze ci aveva raggiunto.
«Mi volete bene, miei cari vetturini?» «E come no… siamo sempre ai vostri servizi».
«Mi siete devoti?» «Anima e corpo».
«Levate le ruote alle carrozze».
I cocchieri rimasero indecisi.
«Presto, presto!» comanda lo zio.
Una ventina di essi, più svelti degli altri, saltano su a cassetta, prendono i cacciavite e cominciano a smontare le ruote.
«Benissimo» dice lo zio «e adesso ungete le ruote col miele».
«Bàtjuška!» «Ungete!» «Della roba così buona… È meglio mettersela in bocca!» «Ungete!» Senza insistere nel suo desiderio, lo zio risalì nella carrozza e via di galoppo. I cocchieri rimasero così tutti con le ruote levate dalle carrozze, accanto al miele, col quale però si guardarono certo bene dall’ungere le ruote; probabilmente se lo divisero fra di loro o lo rivendettero al negoziante. In ogni modo ci eravamo liberati di loro e ci dirigemmo verso i bagni. Qui io m’aspettavo il Giudizio Universale; me ne stavo seduto né morto né vivo nella vasca di marmo, mentre lo zio era sdraiato in terra, ma non semplicemente, in posa comune, quanto piuttosto in una posa apocalittica Tutta la massa del suo corpo posava sulla punta delle dita delle mani e dei piedi. Il corpo rosso tremava su questi punti d’appoggio sotto la fredda doccia ed egli rugliava e ringhiava come un orso che cerca di togliersi qualcosa che gli fa male. Questo durò una mezz’ora; egli continuò a tremare come una gelatina su un tavolo che si muove, tino a che ad un tratto saltò su, si fece portare del kvas; allora ci rivestimmo e ci recammo al Kuzneckij most’ dal francese.
Qui ci facemmo tutti e due spuntare un po’ i capelli, arricciare e pettinare, e a piedi ritornammo in città nel negozio.
Con me nessuna chiacchiera, ma non mi mollava. Solo una volta disse: «Aspetta, non tutto assieme, se c’è qualcosa che non capisci, lo capirai con gli anni».
Nel negozio disse prima di tutto la preghiera del mattino, poi guardò che tutto fosse in ordine e si sedette allo scrittoio.
Il vaso all’esterno era pulito, ma all’interno c’era del sudiciume ancora che chiedeva purificazione. Io me ne accorsi e cessai d’aver paura. La cosa m’interessava, volevo vedere come si sarebbe giustificato: con continenza o aspettando la grazia del Signore? Verso le dieci cominciò a non poter più resistere nella bottega; aspettava che venisse il vicino per andare in tre a bere il tè, quando si beve in tre costa ben cinque copeche di meno. Il vicino non venne; era morto d’un colpo apoplettico.
Lo zio si fece il segno della croce e disse: «Tutti moriremo».
Questo non lo agitò, nonostante che insieme al vicino per quarant’anni di seguito fosse andato a bere il tè.
Chiamammo il vicino dell’altra parte, ci riunimmo, facemmo uno spuntino ma sempre senza bere bevande alcooliche. Tutto il giorno io rimasi con lui, in bottega o in giro, ma verso sera egli mandò a prendere la vettura e ci recammo al monastero della Madonna Tutta-esaltata.
Lì anche lo conoscevano tutti e lo accolsero con lo stesso riguardo come da Jar.
«Voglio inginocchiarmi davanti alla Madonna Tutta-esaltata e piangere i miei peccati. E questo qui ve lo raccomando, è un mio nipote, il figlio di mia sorella».
«Prego, prego» dicono le monache «prego, da chi la Madonna dovrebbe gradire una preghiera di pentimento se non da voi che siete stato sempre il più grande benefattore del suo monastero? E proprio adesso è il momento della grazia: si sta dicendo la messa della sera».
«Aspettiamo che finisca: io preferisco quando non c’è nessuno; vi prego di far fare il crepuscolo in chiesa».
Fu fatto il crepuscolo; furono spente tutte le candele ad eccezione di una o due lampade e della grande lampada centrale a vetri verdi davanti all’immagine della Madonna.
Lo zio non cadde, ma si precipitò in ginocchio, poi picchiò con la fronte il pavimento, singhiozzò e si irrigidì.
Io insieme a due monache stavo in un angolo scuro, dietro la porta. Passò una lunga pausa. Lo zio era sempre lì senza alzar gli occhi e senza emettere alcun suono. A me sembrò si fosse addormentato e lo dissi anche ad una delle monache. La suora che ne sapeva più di me pensò un poco, poi scosse la testa, protesse la fiamma con la mano curva e scivolò leggermente fino al peccatore in penitenza. Gli girò intorno pian piano sulla punta dei piedi, ritornò indietro agitata e sussurrò: «Agisce… e con contraccolpo!» «Da che cosa lo notate?» Essa si piegò in avanti, e facendomi un segno disse: «Guardate direttamente attraverso la fiamma, dove sono le sue gambe».
«Vedo».
«Guardate che lotta!» Io guardo più fisso e, veramente, noto qualche movimento: lo zio giace pieno di devozione nella sua posizione di preghiera, e ai suoi piedi sembra che si muovano due gatti che si battono l’uno contro l’altro e adesso ha il sopravvento l’uno, adesso l’altro.
«Sorella» dico «di dove son venuti quei gatti?» «Ma vi sembra soltanto che siano gatti; non sono gatti, è la tentazione; vedete: egli con lo spirito si solleva in una fiamma al cielo e con le gambe si agita ancora nell’inferno».
Vedo che veramente lo zio con le gambe balla la danza che ha ballato la sera prima; ma veramente con lo spirito egli arde in una fiamma verso il cielo? Ed egli, come se mi rispondesse, all’improvviso sospirò ed esclamò: «Io non mi alzo fino a che non mi avrai perdonato. Tu sola sei santa ma noi siamo tutti dannati» e singhiozzò forte.
Singhiozzò così pietosamente che tutti e tre anche noi scoppiammo in pianto: «Signore, esaudisci la sua preghiera».
E non ci eravamo accorti che egli ci era già accanto quando con una voce beata mi disse: «Andiamo, sbrighiamoci».
Le monache lo interrogano: «Avete avuto la grazia di vedere il riflesso?» «No» risponde «il riflesso non l’ho veduto, ma ecco… ecco quel che ho avuto».
Strinse i pugni e li sollevò lentamente come quando si solleva un bambino.
«Sollevato?» «».
Le monache si fecero il segno della croce ed io con loro; lo zio spiegò: «Adesso» dice «sono stato perdonato. Proprio dall’alto, dalla cupola si è stesa una mano, mi ha afferrato per i capelli e mi ha rimesso in piedi…» Ed ecco che egli non è più dannato, è felice.
Egli trattò regalmente il convento dove era riuscito ad avere per sé questo miracolo e di nuovo si sentì vivo e rimandò a mia madre tutta la sua dote; quanto a me mi condusse alla buona fede popolare.
Da allora io compresi il gusto del popolo di cadere e risollevarsi… Questo si chiama scacciadiavolo perché caccia via il diavolo dei cattivi pensieri.
Solo che, ripeto, questo si può vedere soltanto a Mosca, e avendo una speciale fortuna e per grande protezione dei più rispettabili vegliardi.

Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  čertogon, 1879
  Il fantastico quotidiano
 Pinterest •   • 



Citazioni correlate

  • Perché mi ostino a definirmi filosofo benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai venne meno la mia fedeltà. Per più di cinquant'anni l'ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e reticenze, ho visto esaltazioni e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull'altare e poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l'ho studiato più che quello di duci e condottieri. Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma come si può imitare l'Idea, ahimè). Sono invecchiato lì dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio dei miei contemporanei.
     Manlio Sgalambro    Del pensare breve

  • Si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente di essere un poco. Si odia se stessi. Le qualità più interessanti e fertili di ciascuno, sono quelle che ciascuno più odia in sé e negli altri.
    Perché nell'odio c'è tutto: amore, invidia, ignoranza, mistero e ansia di conoscere e possedere. L'odio fa soffrire. Vincere l'odio è fare un passo nella conoscenza e padronanza di sé, è giustificarsi e quindi cessare di soffrire.
     Cesare Pavese    Il mestiere di vivere

  • Chi crede non s'imbatterà mai in un miracolo. Di giorno non si vedono stelle.
     Franz Kafka  

  • Man mano che invecchio sento crescere la mia ostilità verso qualsiasi religione, anche moderata. Cosa significa avere fede, se non credere in ciò che non ha fondamento? C'è chi tenta di conciliare scienza e religione dicendo che appartengono a sfere diverse e non si escludono a vicenda. Non è vero: le credenze religiose sono spiegazioni del mondo. Ma intellettualmente infantili.
     Ian McEwan  

  • La prima di color di cui novelle
    tu vuo' saper mi disse quelli [Virgilio] allotta,
    fu imperadrice di molte favelle.
    A vizio di lussuria fu sì rotta,
    che lìbito fé licito in sua legge
    per tòrre il biasimo in che era condotta.
    Ell'è Semiramis, di cui si legge
    che succedette a Nino e fu sua sposa:
    tenne la terra che 'l Soldan corregge.
    L' altra è colei [Didone] che s' ancise amorosa
    e ruppe fede al cener di Sicheo;
    poi è Cleopatràs lussurïosa.
     Dante Alighieri  

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