Di recente ho tenuto una conferenza in un’università dove uno studente mi ha detto che era una vera vergogna che gli uomini nigeriani fossero violenti come il personaggio del padre nel mio romanzo. Io gli ho risposto che avevo appena letto un romanzo intitolato American Psycho e che era una vera vergogna che i giovani americani fossero dei serial killer.
Ora, è ovvio che la mia risposta era dettata da una lieve irritazione, ma a me non sarebbe mai venuto in mente di pensare che solo perché ho letto un romanzo in cui uno dei personaggi è un serial killer, questo sia in qualche modo rappresentativo di tutti gli americani. E non perché io sia una persona migliore di quello studente, ma perché, grazie al potere culturale ed economico dell’America, avevo molteplici storie dell’America. Avevo letto Tyler, Updike, Steinbeck e Gaitskill. Non avevo un’unica storia dell’America.
Quando ho letto, qualche anno fa, che ci si aspetta che gli scrittori abbiano avuto un’infanzia molto triste per poter avere successo, ho cominciato a pensare come inventare cose orribili che avrebbero potuto farmi i miei genitori. Ma la verità è che ho avuto un’infanzia molto felice, piena di risate e di amore, in una famiglia molto unita.
Ma ho anche avuto nonni morti nei campi profughi. Mio cugino Polle è morto per non aver ricevuto cure sanitarie adeguate. Uno dei miei più cari amici, Okoloma, ha perso la vita in un incidente aereo perché i camion dei nostri pompieri erano rimasti senz’acqua. Sono cresciuta sotto regimi militari repressivi che non davano alcun valore all’istruzione, tanto che a volte i miei genitori non ricevevano lo stipendio. Cosí, da bambina, ho visto la marmellata sparire dalla tavola della colazione, poi è scomparsa la margarina, poi il pane è diventato troppo caro, e poi il latte è stato razionato. E soprattutto, le nostre vite sono state invase da una specie di normalizzata paura politica.
Tutte queste storie hanno fatto di me quella che sono. Ma insistere solo sulle storie negative significherebbe appiattire la mia esperienza, trascurando le molte altre storie che mi hanno formato. L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia.
Non avevo un’unica storia dell’America
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