I lettori di romanzi polizieschi -che siamo in molti nel mondo- sappiamo che il piacere dell’enigma non sta nel sapere chi è l’assassino, ma nel navigare attraverso l’arcipelago di indizi e depistaggi fino a scoprirlo nel momento esatto in cui l’autore lo ha previsto. La spiegazione non è così banale come sembra e ha molto a che fare con l’etica della lettura.
Saltare pagine per decifrare il finale prima del tempo è una debolezza morale che la propria coscienza si affretta a punire. Il cinema poliziesco sembra essere un passo avanti: lo spettatore preferisce essere reso complice fin dall’inizio piuttosto che essere sorpreso all’ultimo minuto con la rivelazione del mistero. Cioè: più che trovare il morto e chi lo ha ucciso, ciò che lo spettatore apprezza è essere condotto per mano nei labirinti della trama per partecipare alla scoperta del segreto.
Ebbene: la prima versione inedita di Cronaca di una morte annunciata apparteneva a quest’ultima stirpe, quindi la morte del protagonista rimaneva in dubbio fino alla fine. Si trattava infatti del crudo e semplice resoconto dell’omicidio di un amico molto caro della mia infanzia, avvenuto nel 1951, quando facevo i miei primi passi da giornalista all’El Heraldo di Barranquilla. Mia madre mi supplicò allora di non pubblicarlo per rispetto alla famiglia della vittima. Ma ventisette anni dopo -quando finalmente decisi di pubblicarlo come libro- molti dei protagonisti maggiori erano già morti e le nuove generazioni non avevano notizie del dramma. Fu allora che decisi -non so perché- che la morte fosse rivelata nel primo capitolo affinché il lettore fosse intrappolato nell’intrigo e continuasse a leggere tranquillamente pagina dopo pagina, e possibilmente riga per riga, non per sapere se era stato ucciso ma come era stato ucciso.
L’aggiunta fu di soli tre parole alla fine del primo capitolo: Già l’hanno ucciso. Tuttavia, esse da sole cambiarono completamente la prospettiva del libro che credevo già terminato, e dovetti riscriverlo nella sua forma definitiva, non come reportage ma come un romanzo compatto in prima persona, ma che non era più vissuto bensì ricordato da un cronista senza nome che era stato testimone oculare e inoltre aveva condotto l’inchiesta sul crimine dopo ventisette anni di oblio.
Fu una di quelle ispirazioni inesplicabili che spesso sono provvidenziali nella vita di uno scrittore. Il cambio di genere, naturalmente, mi obbligò a cambiare la struttura lineare e il realismo immediato e pressante del reportage. Mi rivelò il problema della responsabilità collettiva e della morale interna di un dramma tremendo accaduto tra adolescenti la cui perplessità -forse- non fu mai compresa dai loro anziani. Capì, infine, che io stesso non ero più lo stesso dopo tanti anni trascorsi sotto i ponti. Ho fatto bene? Sono convinto di sì: la prima versione, poiché già scritta, sarebbe stata un disastro senza la chimica della nostalgia e gli eccessi della poesia.
Non il chi, ma il come
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