Per cento storie morte restano però una o due storie vive. Queste le evoco con precauzione, qualche volta, non troppo spesso, per timore di consumarle. Ne pesco una, rivedo lo scenario, i personaggi, gli atteggiamenti.
D’un tratto mi fermo: ho sentito una sdrucitura, ho visto spuntare una parola sotto la trama delle sensazioni. Indovino che questa parola finirà ben presto per prendere il posto di molte immagini che amo.
Allora mi fermo di colpo, mi metto subito a pensare ad altro; non voglio stancare i miei ricordi. Invano: la prossima volta che li evocherò una buona parte di essi sarà congelata.
Abbozzo un vago movimento per alzarmi, per andare a prendere le mie fotografie di Meknès, nella cassa che ho spinto sotto il tavolo.
A che pro? Questi afrodisiaci non hanno più alcun effetto sulla mia memoria. L’altro giorno sotto una cartella ho trovato una piccola fotografia sbiadita. Una donna sorridente vicino a una vasca. Ho contemplato un momento questa persona senza riconoscerla. Poi, sul rovescio, ho letto: «Anny, Portsmouth, 7 aprile 1927».
Mai come oggi ho provato così forte la sensazione d’essere senza dimensioni segrete, limitato al mio corpo, ai pensieri lievi che da esso affiorano come bolle.
Costruisco i miei ricordi col mio presente.
Sono respinto, abbandonato nel presente.
Il passato tento invano di raggiungerlo: non posso sfuggire a me stesso.
Non posso sfuggire a me stesso
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