Si sa che, alla fine dello Zarathustra, al momento del «segno», allorché «das Zeichen kommt», Nietzsche distingue, nella massima vicinanza, in una strana rassomiglianza e in un’estrema complicità, alla vigilia dell’ultima separazione, del grande Meriggio, l’uomo superiore («höherer Mensch») e il superuomo (Ubermensch
). Il primo è abbandonato alla sua afflizione con un ultimo movimento di pietà. L’ultimo – che non è l’ultimo uomo – si risveglia e si mette in cammino, senza volgersi indietro verso ciò che lascia dietro di sé. Egli brucia il suo testo e cancella le tracce dei suoi passi. Allora il suo riso proromperà verso un ritorno che non avrà più la forma della ripetizione metafisica dell’umanismo e nemmeno, senza dubbio, «al di là della metafisica», quella del memoriale o della custodia del senso dell’essere, quella della casa e della verità dell’essere. Egli danzerà, fuori dalla casa, quell’«aktive Vergesslichkeit», quell’«oblio attivo» e quella festa crudele (grausam) di cui parla la Genealogia della morale. Nessun dubbio che Nietzsche abbia fatto appello ad un oblio attivo dell’essere: esso non avrebbe avuto la forma metafisica che gli imputa Heidegger. Dobbiamo, con Heidegger, leggere Nietzsche come l’ultimo dei grandi metafisici? Dobbiamo al contrario intendere la questione della verità dell’essere come l’ultimo sonnolento sussulto dell’uomo superiore? Dobbiamo intendere la vigilia [veille
] come la guardia montata nei pressi della casa o come il risveglio [éveil
] al giorno che viene, del quale siamo alla vigilia? C’è un’economia della vigilia? Noi siamo forse tra queste due vigilie che sono anche due fini dell’uomo. Ma noi chi?
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