Ogni centro è la sede della verità

Le città quadrangolari, reticolari (Los Angeles, per esempio) producono, così si dice, un disagio profondo: esse feriscono in noi un senso cenestesico della città, il quale esige che ogni spazio urbano abbia un centro in cui andare, da cui tornare, un luogo compatto da sognare e in rapporto al quale dirigersi e allontanarsi, in una parola, inventarsi. Per molteplici ragioni (storiche, economiche, religiose, militari) l’Occidente ha fin troppo ben compreso questa legge: tutte le sue città sono concentriche; ma, conformemente al movimento stesso della metafisica occidentale, per la quale ogni centro è la sede della verità, il centro delle nostre città è sempre pieno: luogo contrassegnato, è lì che si raccolgono e si condensano i valori della civiltà: la spiritualità (con le chiese), il potere (con gli uffici), il denaro (con le banche), le merci (con i grandi magazzini), la parola (con le «agorà»: caffè e passeggiate). Andare in centro vuol dire incontrare la «verità» sociale, partecipare alla pienezza superba della «realtà».

La città di cui parlo (Tokyo) presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua, abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè, letteralmente, da non si sa chi. Quotidianamente, con la loro andatura rapida, energica, spedita come la traiettoria di un proiettile, i taxi evitano questo cerchio la cui cima bassa, forma visibile dell’invisibile, nasconde il «nulla» sacro. Una delle due città più potenti del mondo moderno è dunque costruita intorno ad un anello opaco di muraglie, d’acque, di tetti e di alberi, il cui centro stesso non è altro che un’idea evaporata, che sussiste non per irradiare qualche potere, ma per offrire a tutto il movimento urbano il sostegno del proprio vuoto centrale, obbligando la circolazione a una deviazione perpetua. In questo modo, a quel che si dice, l’immaginario si dispiega circolarmente, per corsi e ricorsi, intorno a un soggetto vuoto.

Crediti
 Roland Barthes
 L'impero dei segni
 Pinterest • Jack Vettriano  • 




Quotes per Roland Barthes

Lo haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutt'a un tratto la sua forma esatta.

Il testo di godimento è assolutamente intransitivo. Pure, la perversione non basta a definire il godimento; è l'estremo della perversione a definirlo: estremo sempre spostato, estremo vuoto, mobile, imprevedibile. Questo estremo garantisce il godimento: una perversione media si carica ben presto di un gioco di mentalità subalterne: prestigio, ostentazione, rivalità, discorso, parate.

La giustizia è un'operazione di bilancia: e la bilancia può pesare l'identico con l'identico.

«Sono innamorato? Sì, poiché aspetto». L'altro invece non aspetta mai. Talvolta ho voglia di giocare a quello che non aspetta; allora cerco di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell'innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta.

Ti amo è, senza sfumature. Rimuove le spiegazioni, le strutture, gli scrupoli.