La dottrina della metempsicosi si allontana dalla verità solo in quanto pospone nel futuro ciò che già preesiste, dato che lascia vivere la mia intima interiorità in altri esseri soltanto dopo la mia morte; invero ciò accade invece già in vita, e la morte si limita a eliminare l’inganno che mi impedisce di rendermene conto: esattamente come l’immagine proiettata sulla parete da una lanterna magica non ci appare finché non si è spenta la luce che illumina la stanza – nonostante tale immagine già preesista; ovvero, con una metafora più nobile, come l’innumerevole schiera delle stelle risplende ognora su di noi, ma non ci appare finché quell’unico sole terrestre, a noi vicino, non è tramontato.
Allo stesso modo, la mia esistenza individuale, per quanto sia simile a quella luce e, dal mio punto di vista, illumini ogni cosa, dev’essere considerata in fondo soltanto un ostacolo posto fra me e la conoscenza del mio esistere in altri, anzi, in tutti gli esseri. E poiché ogni individuo vivente che si cimenti con la conoscenza soccombe dinanzi a questo ostacolo, è proprio l’individuazione a indurre costantemente la volontà di vita all’illusione e all’errore circa la propria essenza: la Māyā degli Indù. La morte confuta ed elimina questo errore. Nell’attimo della morte ci rendiamo conto che un mero inganno aveva limitato la nostra essenza alla nostra persona particolare.
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