Paradossi letterari nel Quijote
Triste e glaciale immortalità quella che conferiscono le effemeridi, i dizionari e le statue; intima e calda quella di coloro che perdurano nelle memorie, nel commercio umano, legate ad aneddoti preferiti e a sentenze felici. Alberto Gerchunoff fu un grande scrittore, ma la sua fama trascende quella di un semplice uomo di lettere. Senza volerlo e forse senza saperlo, incarnò un tipo più antico: quello dei maestri che vedevano nella parola scritta un sostituto della parola parlata, non un oggetto intrinsecamente sacro.

Pitagora disprezzava la scrittura; Platone usava il dialogo per ovviare agli inconvenienti del libro, che non risponde alle domande che gli si fanno; Clemente di Alessandria opinava che scrivere in un libro tutte le cose era come mettere una spada nelle mani di un bambino; l’adagio latino Verba volant, scripta manent, in cui ora si vede un’esortazione a fissare con la penna i pensieri, si disse per prevenire il pericolo dei testimoni scritti. A questi esempi non sarebbe difficile aggiungerne altri, ebrei o gentili, e nulla ho detto del più alto di tutti i maestri arabi, che parlava per parabole e che, una volta, come se non sapesse che la gente voleva lapidare una donna, scrisse alcune parole sulla terra, che nessuno ha letto.

Come Diderot, come il dottor Johnson, come quel Heine a cui offrì un libro emozionato, Alberto Gerchunoff maneggiò con uguale felicità il linguaggio orale e lo scritto e nei suoi libri c’è la fluidità del buon conversatore e nella sua conversazione (mi sembra di sentirlo) c’era una generosa e infallibile precisione letteraria. Gerchunoff, così intelligente, ammirava meno l’intelligenza che la saggezza; e nell’Albero mistico dello Zohar – l’Albero che è anche, è un Uomo, l’Adam Kadmon – la saggezza è la seconda sfera gloriosa della divinità e l’intelligenza è la terza. La saggezza, ci dicono, è nel Quijote e nella Bibbia; quei libri accompagnarono il nostro amico nelle sue peregrinazioni sulla terra, nel treno paziente per Tucumán… o nella plastica sedia a sdraio, sulla coperta, di fronte al regocijo del mare.

Destino paradossale quello di Cervantes. In un secolo e in un paese di artigianato retorico, lo attirò l’essenziale dell’uomo, già come tipo (Rinconete e Cortadillo, La spagnola inglese, La forza del sangue), già come individuo (Il celoso estremeño, Il licenciado Vidriera); inventò e compose il Quijote, che è l’ultimo libro di cavalleria e la prima novella psicologica della letteratura occidentale, e, una volta morto, lo presero per idolo le persone che meno gli somigliavano, i grammatici. Asombrosi aldeani lo venerarono perché sapeva molti sinonimi e molti proverbi. Lugones, verso il 1904, denunciò quelli che non vedendo che nella forma la suprema realizzazione del Quijote, si sono messi a rosicchiare la scorza le cui rugosità nascondevano la forza e il sapore; Groussac, anni dopo, condannò l’aberrazione di cifrare il miracolo dell’opera maestra, nella sal grossa del suo stile scherzoso, e, naturalmente, nella chiacchierata di Sancho; Alberto Gerchunoff, ora, in queste pensative pagine postume, medita sulla intimità del Quijote. Scopre e esamina due paradossi, quello di Voltaire, che non stimava eccessivamente Miguel de Cervantes e che, tuttavia, fu quijotesco fino allo scandalo nella sua difesa di Calas e di Sirven, vittime giudiziarie, e quello di Juan Montalvo, uomo devoto di Cervantes, valoroso e giusto, ma che, essenzialmente, non vide nell’istoria dell’hidalgo altro che un museo di parole. Montalvo, annota Gerchunoff si esercitò abilmente in uno sport suntuoso dell’intelligenza, senza avvicinarsi a Cervantes, inclassificabile tra gli scrittori castizi, costretti alla gelosa purezza verbale e alla tradizione grammaticalista della lingua. Poi, in una frase che meriterebbe di essere famosa, parla delle voci straniere e popolari che Cervantes catturò, con orecchio di musicista di strada.

Stevenson opinava che mancare di fascino, per un libro, è mancare di tutto; questi saggi, quasi con insolenza, lo hanno.

Crediti
 Alberto Gerchunoff
 Retorno a Don Quijote
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     Carlos Ruiz Zafón  

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