Philarète Chasles - L'occhio senza palpebra
Gli autori poco noti di racconti fantastici sono certo più numerosi dei nomi famosi. È giusto che la nostra antologia trovi spazio per almeno qualcuno di loro. Philarète Chasles (1799-1873), francese, figlio d’un membro della Convenzione che aveva votato la condanna a morte di Luigi XVI, dovette scappare dalla Francia giovanissimo al momento della Restaurazione. Visse in Inghilterra e in Germania, prima di far ritorno in Francia nel 1823. Professore di letterature straniere al College de France, conservatore della Bibliothèque Mazarine, appartiene alla famiglia degli scrittori bibliotecari, come prima di lui Nodier e dopo di lui Schwob e Borges.
L’oeil sans paupière, pubblicato nella raccolta anonima dei Contes bruns (1832), cui collaborò anche Balzac, è un racconto d’ambiente scozzese, sulle credenze popolari dei folletti e delle fate, rappresentate con adesione al loro spirito panico e pagano, ma anche con ossequio all’anatema cristiano che le assimila ai culti diabolici. È l’epoca della scoperta romantica del folklore, e della moda scozzese dei romanzi di Walter Scott. Ma non è solo per la documentazione folkloristica che questo racconto merita d’essere ricordato oggi. L’immagine dominante è un conturbante incubo psicologico: un occhio spalancato che sta sempre alle spalle d’un uomo, non perdendolo mai di vista. Dato che quest’uomo con la sua gelosia aveva causato la morte della moglie, l’occhio senza palpebra che lo segue costituisce una sorta di pena di contrappasso.
Il finale ci trasporta oltreoceano, tra i pionieri dell’Ohio e i pellerossa. Ma è chiaro che le barriere geografiche non contano per i folletti scozzesi.
«Hallowe’en! Hallowe’en» tutti gridavano. «Questa è la notte santa, la bella notte degli skelpies e delle fairies! Carrick, e tu Colean, venite? Ci sono tutti gli uomini di Carrick-Border, e verranno le nostre Meg e le nostre Jeannie. Porteremo del buon whisky nei boccali di stagno, birra schiumante, il buon parritch saporito. Il tempo è bello, brillerà la luna; amici, le rovine di Cassilis-Downans non avranno mai visto una riunione più lieta.» Skelpies: demoni delle acque. Fairies: fate. Carrick-Border: nome di località. Parritch: pudding scozzese (N.d.A.). Così parlava Jock Muirland, fattore, vedovo ancora giovane. Come gran parte dei contadini di Scozia era un po’ teologo, un po’ poeta, gran bevitore, e tuttavia molto economo.
Murdock, Will Lapraik, Tom Duckat gli erano attorno. La conversazione si svolgeva presso il villaggio di Cassilis.
Senza dubbio, voi non sapete che cos’è Hallowe’en: è la notte delle fate, e ha luogo verso la metà di agosto. Si consulta in quella notte lo stregone del villaggio, e tutti gli spiriti folletti danzano sulle brughiere, attraversano i campi cavalcando pallidi raggi di luna. È il carnevale degli spiritelli e degli gnomi. Non vi è grotta né roccia che non abbia il suo ballo e la sua festa, non vi è fiore che non trasalisca al soffio di una silfide, non vi è massaia che non chiuda la porta con cura, affinché lo spunkie Spunkie: folletto (N.d.A.). non sottragga la colazione dell’indomani, non sacrifichi alle sue birichinate il pasto dei bambini che dormono abbracciati nella stessa culla.
Tale era la notte solenne, intrecciata di capriccio fantastico e di segreto terrore, che saliva sulle colline di Cassilis. Immaginate un terreno montuoso, ondulato come il mare, e le numerose colline tappezzate di muschio verde e brillante; lontano, su un picco dirupato, le mura merlate di un castello in rovina, la cui cappella, senza più tetto, si è conservata tuttavia quasi intatta, e lancia nell’aria pura gli agili pilastri, sottili come rami di alberi spogli nella stagione invernale. Nella zona la terra è sterile. La dorata ginestra serve come rifugio alla lepre; la roccia appare nuda a perdita d’occhio. L’uomo, che riconosce un potere supremo solo nella desolazione e nel terrore, guarda queste terre sterili come colpite dal sigillo della Divinità. La benevolenza feconda e immensa dell’Altissimo ci ispira poca gratitudine: noi adoriamo la sua severità e i suoi castighi.
Gli spunkies danzavano dunque sull’erba di Cassilis e la luna appariva grande e rossa tra la vetrata infranta del portale della cappella.
Sembrava sospesa, come un rosone color amaranto su cui si disegnava un piccolo trifoglio di pietra mutilata. Gli spunkies danzavano.
Lo spunkie! Una testa di donna bianca come la neve, con lunghi capelli ardenti. Le belle ali, drappeggi sorretti da fibre sottili e elastiche, non sono attaccate alle spalle, ma alle braccia bianche e sottili delle quali seguono il profilo. Lo spunkie è ermafrodita; ha un viso femmineo, e l’eleganza agile e tenera della prima adolescenza virile. Lo spunkie non ha che le ali come veste, tessuto fine e agile, morbido e compatto, impenetrabile e lieve, come le ali del pipistrello. Una sfumatura bruna, sfumata in un porpora azzurrino cangiante, brilla su quella veste naturale che si ripiega attorno allo spunkie in riposo come le pieghe dello stendardo attorno all’asta che lo porta. Lunghi filamenti simili a acciaio brunito sostengono quei lunghi veli in cui lo spunkie si avvolge; unghie d’acciaio ne armano l’estremità. Guai alla massaia che si avventura, di sera, nei pressi della palude dove si nasconde lo spunkie, o nella foresta che egli percorre! La danza degli spunkies iniziava sulle rive del Doon quando la lieta assemblea – donne, bambini, giovinette – vi si avvicinò. I folletti scomparvero immediatamente. Quelle grandi ali che si spiegano nello stesso istante oscurano l’aria, simili a un nugolo di uccelli levatisi di colpo in volo dal centro di un canneto frusciante. Per un attimo il chiaro di luna fu velato; Muirland e i suoi compagni si fermarono.
«Ho paura» gridò una ragazza.
«Sciocchezze» ribatté il fattore. «Sono anatre selvatiche che volano via.»
«Muirland» gli disse il giovane Colean con aria di rimprovero «tu finirai male; non credi a nulla.»
«Bruciamo le noci, schiacciamo le nocciole» riprese Muirland, senza ascoltare il rimprovero del compagno. «Sediamoci qui e vuotiamo i cestini. Ecco un bel riparo: la roccia ci copre; il prato ci offre un morbido letto. Satana in persona turberebbe le mie meditazioni che nasceranno dai boccali e dalle bottiglie.»
«Ma potrebbero trovarci i bogillies e i brownillies» osservò timidamente una giovane donna.
«Se li porti il cranreuch!» la interruppe Muirland. «Presto, Lapraik, accendi vicino alla roccia un fuoco di foglie secche e di rami; riscalderemo il whisky; e se le ragazze vogliono sapere quale marito il buon Dio o il diavolo riservi loro, abbiamo di che soddisfarle. Bome Lesley ci ha portato specchi, e nocciole, semi di lino, piatti e burro. Lasses, non è tutto quanto occorre per le vostre cerimonie?» Bogillies: spiriti dei boschi. Brownillies: spiriti della brughiera. Cran-reuch: vento del nord. Lasses: ragazze (N.d.A.).
«Sì, sì» risposero le ragazze.
«Ma prima beviamo» riprese il fattore, che per il carattere autoritario, il patrimonio, la cantina ben fornita, il granaio pieno di grano e la sua abilità di agricoltore, aveva acquistato una certa autorità nella zona.
Ora, amici miei, voi saprete che di tutti i paesi del mondo quello dove le classi inferiori hanno a un tempo maggiore istruzione e il maggior numero di superstizioni, è la Scozia. Domandatelo a Walter Scott, il sublime paesano scozzese che deve la sua grandezza alla facoltà ricevuta da Dio di raffigurare simbolicamente il genio nazionale. In Scozia si crede a tutti gli gnomi, e nelle capanne si discute di filosofia.
La notte di Hallowe’en è consacrata soprattutto alla superstizione. Ci si riunisce per penetrare il mistero dell’avvenire. I riti praticati a questo scopo sono noti e inviolabili: non esiste culto più rigoroso nell’osservanza delle sue pratiche. Era soprattutto questa cerimonia piena di interesse, dove ognuno è al tempo stesso prete e stregone, che gli abitanti di Cassilis vedevano come meta della loro escursione e svago della loro notte. Quella rustica magia ha un incanto indescrivibile. Si sosta, per così dire, all’estremo confine tra poesia e realtà; si comunica con le potenze infernali senza rinnegare interamente Dio; si tramutano in oggetti sacri e magici gli oggetti di tutti i giorni; con una spiga di grano e una foglia di salice si creano speranze e terrori.
La tradizione vuole che gli incantesimi di Hallowe’en comincino quando suona mezzanotte, l’ora in cui tutta l’atmosfera è invasa dagli esseri sopraterrestri e in cui non solo gli spunkies, attori principali del dramma, ma tutti i battaglioni della magia scozzese vengono a impadronirsi del loro dominio.
I nostri contadini, riuniti alle nove, trascorsero il tempo a bere, a cantare le vecchie, deliziose ballate in cui il linguaggio malinconico e ingenuo è in perfetta armonia con il ritmo cadenzato, con una melodia che scende di quarta in quarta, a intervalli bizzarri, con un singolare impiego del genere cromatico. Le giovanette, nei plaids variopinti, nei lindi e impeccabili abiti di lana, le donne sorridenti, i bambini, con il bel nastro rosso annodato sul ginocchio che serve da giarrettiera e da ornamento; i giovani cui il cuore batteva più in fretta all’avvicinarsi del misterioso momento in cui sarebbe stato interrogato il destino; uno o due vecchi che la birra gustosa riportava alla gioia degli anni giovanili: tutti insieme formavano un gruppo attraente che Wilkie avrebbe ritratto con gioia e che avrebbe rallegrato in Europa le anime ancora sensibili, fra tante emozioni febbrili, alla delizia di un sentimento vero e profondo.
Muirland, più degli altri, si abbandonava completamente alla gaiezza rumorosa che frizzava con la densa schiuma della birra e si comunicava a tutti gli altri.
Era una di quelle creature che la vita non riesce a domare, uno di quegli uomini di intelligenza vigorosa che lottano contro il vento e la tempesta. Una giovanetta della contea, che aveva unito il suo destino a quello di Muirland, era morta di parto dopo due anni di matrimonio; e Muirland aveva giurato di non sposarsi più. Nessuno, nel vicinato, ignorava la causa della morte di Tuilzie: la gelosia di Muirland. Fragile e ancora quasi bambina, Tuilzie aveva appena sedici anni quando aveva sposato il fattore. Lo amava e non ne conosceva il carattere appassionato, il furore che poteva animarlo, il quotidiano tormento che poteva infliggere a se stesso e agli altri. Jock Muirland era geloso, e l’ingenua tenerezza della sua compagna non lo rassicurava. Un giorno, nel cuore dell’inverno, la mandò a Edimburgo per strapparla alle pretese seduzioni di un signorotto di campagna che aveva avuto il capriccio di passare l’inverno nelle sue terre.
Tutti gli amici del fattore, e lo stesso sacerdote, gli manifestavano il loro malcontento e lo rimproveravano; lui rispondeva soltanto che amava ardentemente Tuilzie e che era il solo a poter giudicare che cosa favorisse la buona riuscita del suo matrimonio. Sotto il tetto rustico della casa di Jock si sentivano spesso lamenti, grida, singhiozzi la cui eco arrivava all’esterno; il fratello di Tuilzie era venuto dal cognato per dirgli che la sua condotta era imperdonabile, ma una violenta lite era stata la conseguenza di quell’iniziativa. La giovane donna deperiva ogni giorno di più. Infine, il dolore che la consumava ebbe ragione della sua vita.
Muirland cadde in una disperazione profonda, che durò molti anni; ma poiché tutto passa su questa terra, pur giurando di restare vedovo aveva dimenticato a poco a poco il ricordo di colei della quale era stato l’involontario carnefice. Le donne, che per molti anni l’avevano guardato con orrore, gli avevano infine perdonato; e la notte di Hallowe’en lo ritrovava quale era stato un tempo, allegro, caustico, spassoso, gran bevitore e narratore di storie eccellenti e di scherzi alla buona, interprete di ritornelli chiassosi che ridestavano e intrattenevano il buon umore della compagnia notturna.
Avevano esaurito in gran parte le antiche romanze epiche quando scoccarono i dodici colpi della mezzanotte, e l’eco di quel suono si propagò lontano. Tutti avevano bevuto abbondantemente. Era giunto il momento dei consueti riti superstiziosi. Tutti, salvo Muirland, si alzarono.
«Cerchiamo il kail» gridarono «cerchiamo il kail.»
Giovani e ragazze si sparsero nei campi e tornarono volta a volta portando ciascuno una radice strappata alla terra: il kail. Dovete sradicare la prima pianta che si presenta sotto i vostri passi; se la radice è diritta, vostra moglie o vostro marito saranno ben fatti e amabili; se la radice è storta sposerete qualcuno d’aspetto sgradevole. Queste usanze sono ancora popolari in Scozia (N.d.A.). Se resta della terra attaccata ai filamenti, avrete un matrimonio fecondo e felice; se la radice è levigata e sottile, il matrimonio non durerà a lungo. Immaginate gli scoppi di risa, l’allegro tumulto, gli scherzi campagnoli cui davano luogo queste ricerche coniugali; ci si spingeva, ci si addossava uno all’altro, si paragonavano i risultati della ricerca; anche i bambini più piccoli avevano la loro radice.
«Povero Will Haverel!» esclamò Muirland gettando lo sguardo sulla radice che aveva in mano un giovane. «Tua moglie sarà malfatta; la radice che hai trovato sembra la coda del mio maiale.»
Quindi sedettero tutti in tondo, e ciascuno sentì il sapore della radice: una radice amara indica un cattivo marito, una dolce un marito imbecille; se la radice è profumata, lo sposo sarà d’umore gradevole.
A questa grande cerimonia seguì quella del tappickle. Le ragazze, con gli occhi bendati, vanno a cogliere tre spighe di grano. Se il chicco che corona la spiga manca a una delle tre, nessuno dubita che il futuro marito della giovane campagnola debba perdonarle una debolezza commessa prima delle nozze. O Nelly! Nelly! Tutte e tre le tue spighe erano prive del loro tappickle, e non ti vennero risparmiate le canzonature. È vero che proprio il giorno precedente la fause-house, o granaio di riserva, era stata testimone di una lunga chiacchierata fra te e Robert Luath.
Muirland guardava senza unirsi attivamente ai giochi.
«Le nocciole! Le nocciole!» gridarono tutti.
Si tolse dal cesto un sacco di nocciole, e tutti si avvicinarono al fuoco che era sempre stato tenuto acceso. La luna brillava pura, quasi radiosa. Ognuno prese la sua nocciola. Si tratta di un incantesimo celebre e venerato. Si formano le coppie, e ogni nocciola porta il nome della persona che l’ha scelta; si mettono sul fuoco nello stesso momento la nocciola a cui è stato dato il nome della fidanzata e la propria. Se le due nocciole bruciano tranquillamente l’una vicino all’altra, l’unione sarà lunga e serena; se scoppiano e si separano bruciando, discordia e separazione nel matrimonio. Spesso è la ragazza che dispone sul fuoco il simbolo al quale è legata la sua anima; e qual è il suo dolore quando avviene la separazione e il suo futuro marito si slancia scoppiettando lontano da lei! Era già suonata l’una e i contadini non erano mai stanchi di consultare i mistici oracoli. Il terrore e la fede che li accompagnavano rivestivano gli incantesimi di un fascino nuovo. Gli spunkies ricominciavano a muoversi tra i giunchi agitati. Le ragazze tremavano. La luna, ormai alta nel cielo, venne nascosta da una nuvola. Si compì la cerimonia della ciotola, quella della candela, quella della mela, grandi scongiuri che non svelerò. Willie Maillie, una delle più belle ragazze, affondò tre volte il braccio nell’acqua del Doon esclamando: «Mio sposo futuro, mio sconosciuto marito, dove sei? Ecco la mia mano». Tre volte ripeté l’incantesimo, quando la sentirono lanciare un grido.
«Ah, povera me! Lo spunkie mi ha preso la mano» gridò. Tutti le si avvicinarono rabbrividendo. Non Muirland. Maillie mostrò la mano insanguinata; i giudici dei due sessi che una lunga esperienza rendeva abili nell’interpretare i segni magici dichiararono senza esitazione che i graffi non erano causati, come sosteneva Muirland, dalle punte spinose di un giunco, ma che il braccio della ragazza portava il marchio dell’artiglio aguzzo dello spunkie. E tutti riconobbero che l’ombra di un marito geloso pesava per questo sul futuro di Maillie. Il fattore vedovo aveva bevuto, forse, un bicchiere di troppo.
«Geloso!» esclamò «geloso!»
Credeva di ravvisare nella dichiarazione dei suoi compagni una malevola allusione alla propria vicenda.
«Io» continuò vuotando un boccale di stagno pieno di whisky fino all’orlo «preferirei mille volte sposare lo spunkie piuttosto che sposarmi una seconda volta. So che cosa significa vivere incatenato; tanto varrebbe rimanere imprigionati in una bottiglia con una scimmia, un gatto o il carnefice per compagni. Io ero geloso della mia povera Tuilzie; forse avevo torto; ma, ditemi, come avrei potuto non esserlo? Quale donna non deve venir continuamente sorvegliata? Non dormivo la notte; non l’abbandonavo mai durante il giorno; non chiudevo un solo momento gli occhi. Gli affari dei poderi andavano male; tutto deperiva. Tuilzie stessa languiva sotto i miei occhi. A cinque milioni di diavoli il matrimonio!»
Alcuni ridevano; altri tacevano, scandalizzati. Rimaneva ancora l’ultimo e il più temibile degli incantesimi: la cerimonia degli specchi.
Con una candela in mano, ci si colloca davanti a un piccolo specchio; si soffia tre volte sul vetro e lo si asciuga tre volte ripetendo: Appari marito mio o Appari moglie mia. Allora, sopra la spalla di chi interroga il destino, appare una figura riflessa distintamente nello specchio: quella della moglie o del marito che si invoca.
Nessuno, dopo l’esempio di Maillie, osava sfidare ancora le potenze sopraterrestri. Lo specchio e la candela erano presenti, ma nessuno pensava a usarli. Il Doon fremeva nel canneto; una lunga striscia d’argento che tremava nelle acque lontane raffigurava, agli occhi dei paesani, la traccia scintillante degli spunkies o spiriti delle acque; la giumenta di Muirland, la piccola giumenta delle Highlands con la coda nera e il petto bianco, nitriva con tutta la sua forza, indicando in tal modo la vicinanza di uno spirito maligno. Il vento si faceva gelido e gli steli dei giunchi ondeggiavano con un triste e lungo mormorio. Le donne cominciavano a parlare del ritorno; e non mancavano di ragioni eccellenti, di rimproveri per i mariti e i fratelli, di consigli per la salute dei padri, di quella eloquenza casalinga alla quale noi, re della natura e del mondo, resistiamo difficilmente.
«Ebbene! Chi di voi andrà allo specchio?» esclamò Muirland.
Non vi fu risposta… «Avete ben poco coraggio» prosegui il fattore. «Tremate al soffio del vento come il salice. Io – lo sapete bene – non voglio più sposarmi, perché voglio dormire e le palpebre si rifiutano di chiudersi quando sono marito: mi è dunque impossibile cominciare l’incantesimo. Lo sapete non meno di me.»
Ma infine, poiché nessuno voleva prendere lo specchio, Jock Muirland se ne impadronì. «Vi darò l’esempio» e senza esitare prese lo specchio fatale; venne accesa la candela e Muirland ripeté coraggiosamente le parole dell’incantesimo.
«Appari dunque, moglie mia.»
Subito una pallida immagine, i capelli biondo fulvo, si mostrò sulla sua spalla. Lui trasalì, si volse per assicurarsi che nessuna ragazza gli fosse dietro per fingere l’apparizione. Ma nessuna aveva simulato lo spettro; e per quanto lo specchio sfuggitogli di mano si fosse rotto, sopra la sua spalla appariva ancora il viso bianco, la capigliatura ardente: Muirland dà in un grido e cade con la faccia a terra.
Avreste, allora, veduto gli abitanti del villaggio fuggire disordinatamente come foglie sollevate dal vento; sul luogo dove, poco prima, tutti si erano abbandonati ai loro rustici divertimenti, nulla rimase se non i resti della festa, il fuoco quasi spento, le brocche e i boccali vuoti, e Muirland disteso sul prato. Gli spunkies e i loro compagni tornavano a frotte, e il temporale che era già nell’aria univa al loro canto misterioso il lungo fischio che gli scozzesi chiamano pittorescamente Sugh. Muirland, risollevandosi, guardò ancora al di sopra della sua spalla: sempre lo stesso volto. Sorrideva al fattore senza una sola parola, e Muirland non poteva indovinare se quella testa apparteneva a un corpo umano; poiché si mostrava soltanto quando lui si volgeva. La lingua gelata di Muirland gli rimaneva attaccata al palato. Cercò di iniziare una conversazione con quell’essere infernale, raccolse tutto il suo coraggio; invano: quando scorgeva i lineamenti pallidi e i riccioli ardenti, tremava in tutto il corpo. Tentò di fuggire nella speranza di liberarsi dall’apparizione. Aveva slegato la piccola giumenta bianca e stava mettendo il piede nella staffa quando tentò un’ultima volta, e il terrore lo vinse. La testa era sempre presente, compagna inseparabile. Era attaccata alla sua spalla, come quelle teste senza corpo di cui gli scultori gotici collocavano a volte il profilo al sommo di un pilastro o all’angolo di un cornicione. La povera Meg, la piccola giumenta, nitriva con forza terribile; e scalciando mostrava quanto partecipasse al terrore del padrone. Lo spunkie (doveva essere uno di tali frequentatori dei giunchi del Doon a perseguitare il fattore), quando Muirland si volgeva fissava su di lui gli occhi fiammeggianti di un azzurro profondo, non ombreggiati da ciglia, e privi di palpebre che ne velassero l’insopportabile chiarore.
Muirland spronò la giumenta, tormentato sempre dalla curiosità di sapere se la sua persecutrice fosse ancora presente; ma lei non lo abbandonava; invano lanciava la giumenta al galoppo, invano le brughiere e le montagne fuggivano sotto i passi dell’animale; Muirland non sapeva più né quale strada percorresse, né dove stesse conducendo la povera Meg. Una sola idea lo abitava: lo spunkie, il suo compagno, o meglio la sua compagna, di strada, poiché la testa femminile aveva tutta la malizia e la delicatezza di una giovane di diciotto anni.
La volta del cielo si copriva di spesse nubi che parevano divorarlo a grado a grado. Mai un povero peccatore si trovò solo, in mezzo alla campagna, in un’oscurità più infernale. Il vento soffiava come volesse ridestare i morti, la pioggia cadeva diagonalmente per la violenza della tempesta. Le luci rapide del lampo sparivano, divorate dalle nuvole nere dalle quali uscivano lunghi, profondi, pesanti muggiti. Povero Muirland! Il tuo berretto scozzese, blu variegato di rosso, cadde e tu non osasti tornare indietro a raccoglierlo. La tempesta raddoppiò il suo furore; il Doon straripò; e Muirland, dopo aver galoppato per un’ora, riconobbe dolorosamente di essere tornato sul luogo dal quale era partito. La chiesa diroccata di Cassilis era sotto i suoi occhi, e pareva che un incendio ardesse fra i resti dei vecchi pilastri; le fiamme scaturivano dalle aperture ineguali, e le sculture si stagliavano in tutta la loro eleganza sullo sfondo di un chiarore lugubre. Meg rifiutava di avanzare; ma il fattore, che non era più guidato dalla ragione e a cui pareva di sentire la terribile testa appoggiata sulla spalla, piantò con tanto vigore gli speroni nei fianchi della povera bestia che questa cedette, suo malgrado, alla violenza che le veniva imposta.
«Jock» disse una voce dolce «sposami e non avrai più paura.»
Immaginerete il profondo terrore dello sventurato Muirland.
«Sposami» ripeté lo spunkie.
Frattanto fuggivano verso la cattedrale in fiamme. Muirland, fermato nella sua corsa dai pilastri mutilati e dalle statue riverse, scese da cavallo; aveva, quella notte, bevuto tanto vino, tanta birra, tanta acquavite, aveva galoppato in modo tanto singolare, aveva conosciuto tante sorprese, che finì per abituarsi a quello stato di misteriosa eccitazione: il nostro fattore entrò con passo fermo sotto la navata senza volta di dove scaturivano i fuochi infernali.
Lo spettacolo che lo colpì era nuovo per lui. Un personaggio accoccolato nel mezzo della navata sosteneva sul dorso curvo un vaso ottagonale nel quale bruciava una fiamma verde e rossa. L’altare maggiore era rivestito degli antichi paramenti cattolici. Dèmoni con la capigliatura rosso fuoco irta sul capo occupavano, in piedi sull’altare, il posto delle candele. Tutte le forme grottesche e infernali che la fantasia del pittore e del poeta ha potuto sognare si spingevano, correvano e si avvolgevano in strane e molteplici figurazioni. Gli stalli dei canonici erano pieni di gravi personaggi che avevano conservato l’abito del loro stato. Ma sulle mozzette si delineavano mani di scheletri, e dagli occhi cavi non veniva alcuna luce.
Non dirò, poiché la lingua umana non può giungere a tanto, che incenso bruciassero in quella chiesa, né quale abominevole parodia dei santi misteri vi rappresentassero i dèmoni. Quaranta folletti, appollaiati sull’antica galleria che un tempo aveva sorretto l’organo della cattedrale, avevano in mano cornamuse scozzesi di varie dimensioni. Dodici di loro formavano un trono per un enorme gatto nero che dava il tempo con un miagolio prolungato. La sinfonia infernale faceva tremare le volte semidistrutte, dalle quali cadevano di quando in quando frammenti di pietra. In mezzo al tumulto erano inginocchiati alcuni graziosi skelpies, simili a incantevoli fanciulle se la coda demoniaca non avesse sollevato un lembo del loro abito bianco; e più di cinquanta skelpies con le ali distese o ripiegate danzavano o riposavano. Nelle nicchie dei santi disposte simmetricamente intorno alla navata si aprivano tombe scoperchiate, dove la morte appariva, sul bianco sudario, tenendo in mano il cero funebre. Quanto alle reliquie appese alle pareti, non indugerò a descriverle. Tutti i crimini commessi in Scozia da vent’anni a quella parte avevano concorso a parare la chiesa abbandonata ai dèmoni.
Avreste visto la corda dell’impiccato, il coltello dell’assassino, i resti orribili dell’aborto e la traccia dell’incesto. Avreste visto cuori di scellerati anneriti dal vizio, e i bianchi capelli di una testa paterna ancora appesi alla lama del patricida. Muirland si fermò, si volse; la testa, sua compagna di strada, non aveva abbandonato il suo posto. Uno dei mostri incaricati del servizio infernale lo prese per mano; Muirland non reagì. Lo condusse all’altare; Muirland seguì la sua guida. Era vinto. Ogni sua forza scomparsa. Tutti si inginocchiarono, Muirland si inginocchiò; cantarono inni bizzarri, Muirland non ascoltò nulla; e rimase immobile, attonito, pietrificato, aspettando la sua sorte. Frattanto gli inni infernali diventavano più rumorosi; gli spunkies incaricati di costituire il corpo di ballo roteavano più rapidamente nel loro infernale girotondo; le cornamuse gridavano, muggivano, urlavano e fischiavano con maggiore veemenza. Muirland si volse per guardare la sua spalla fatale che un incomodo ospite aveva eletto a domicilio.
«Ah!» gridò, con un lungo sospiro di soddisfazione.
La testa era scomparsa.
Ma quando il suo sguardo abbagliato e smarrito tornò sugli oggetti che lo circondavano, vide con stupore accanto a sé, inginocchiata su una bara, una giovanetta il cui viso era quello del fantasma che l’aveva perseguitato. Una veste di lino grigio le scendeva appena fino a metà coscia. Si intravedevano la scollatura incantevole, le spalle bianche ricoperte dai capelli biondi, il seno verginale di cui la leggerezza della veste sottolineava la bellezza. Muirland fu commosso; quelle forme fragili e delicate contrastavano con le orrende apparizioni che egli si vedeva d’attorno. Lo scheletro che parodiava la messa prese con le sue dita adunche la mano di Muirland e l’unì a quella della giovanetta. Muirland ebbe allora l’impressione di sentire nella stretta della sua bizzarra fidanzata il morso freddo che il popolo attribuisce alle grinfie dello spunkie. Era troppo per lui; chiuse gli occhi e si sentì mancare. Vinto a metà da uno svenimento che lottava per combattere, credette di indovinare che mani infernali lo rimettevano sulla giumenta che l’aveva atteso alla porta della chiesa; ma le sue percezioni erano oscure, indistinte le sue sensazioni.
Una simile notte, come ognuno può immaginare, lasciò le sue tracce in Muirland; si risvegliò come ci si risveglia da un letargo, e si stupì nell’apprendere che da qualche giorno era sposato: dopo la notte di Hallowe’en aveva viaggiato nelle montagne e aveva riportato con sé una giovane sposa, che ora era accanto a lui, nell’antico letto della sua fattoria.
Si strofinò gli occhi e gli parve di sognare; poi volle contemplare colei che aveva scelto senza saperlo e che era diventata la signora Muirland. Era ormai giorno. Com’era graziosa la sposa; che dolce luce abitava i suoi lunghi sguardi, quale splendore in quegli occhi. Tuttavia Muirland era colpito dalla luce bizzarra che emanava da quegli sguardi. Si avvicinò; stranamente sua moglie – o così gli parve – non aveva palpebre; grandi pupille di un azzurro profondo si disegnavano sotto l’arco nero delle sopracciglia la cui curva era mirabilmente sottile. Muirland sospirò; il ricordo vago dello spunkie, della corsa notturna, delle terribili nozze nella cattedrale, gli tornò di colpo alla mente.
Osservando più da presso la sua nuova sposa, credette di vedere in lei tutti i tratti caratteristici di quell’essere misterioso, modificati tuttavia, e come addolciti. Le dita della giovane donna erano lunghe e sottili, le unghie bianche e affilate; i capelli biondi cadevano fino a terra. Rimase come assorto in una fantasticheria; pure, i vicini gli dissero che la famiglia della sua sposa viveva nelle Highlands; che subito dopo le nozze era stato colto da una febbre altissima; che non doveva stupirsi se il ricordo della cerimonia si era cancellato dal suo spirito ammalato; ma che molto presto si sarebbe condotto meglio con la giovane moglie, poiché era graziosa, dolce e ottima massaia.
«Ma non ha palpebre» esclamò Muirland.
I vicini gli ridevano in faccia, dicevano che la febbre non lo aveva ancora lasciato; nessuno, se non il fattore, scorgeva quella strana caratteristica.
Venne la notte: era per Muirland la sua notte di nozze, poiché fino a quel momento era sposato solo di nome. La bellezza della moglie l’aveva commosso, sebbene egli la vedesse senza palpebre. Si riprometteva dunque di sfidare il proprio terrore e di godere del singolare dono che il cielo o l’inferno gli inviavano.
Chiediamo ora al lettore di concederci tutti i privilegi del romanzo e della storia, e di sorvolare sui primi avvenimenti della notte; non diremo quanto la bella Spellie (tale era il nome della sposa) apparisse ancora più bella nelle sue vesti notturne.
Muirland si svegliò, sognando che una improvvisa luce di sole illuminasse di colpo la stanza dove si trovava il letto nuziale. Abbagliato dai raggi ardenti, si alza di soprassalto e vede gli occhi di sua moglie fissi teneramente su di lui.
«Diavolo!» esclamò «il mio sonno è una vera offesa alla sua bellezza!»
Scacciò dunque il sonno e mormorò a Spellie tenere frasi d’amore alle quali la giovane montanara rispose come meglio poté.
Spellie non aveva dormito fino al mattino.
E come potrebbe dormire si chiedeva Muirland se non ha palpebre? E la sua povera mente ricadeva in un abisso di meditazione, di timori.
Si levò il sole. Muirland era pallido e abbattuto. La signora Muirland aveva gli occhi più scintillanti che mai. Trascorsero la mattinata a passeggiare lungo le rive del Doon. La giovane sposa era tanto incantevole, che il marito, a dispetto della sorpresa e della febbre della quale era preda, non poté contemplarla senza ammirarla.
«Jock» lei gli disse «vi amo quanto voi amavate Tuilzie; tutte le giovani dei dintorni mi invidiano: state dunque in guardia, amore mio, sarò gelosa e vi sorveglierò da vicino.»
I baci di Muirland le chiusero la bocca; ma le notti seguivano alle notti, e nel pieno di ogni notte gli occhi splendenti di Spellie strappavano il fattore al suo sonno: la forza di Muirland cedeva.
«Ma, amore mio» chiese Jock a sua moglie «voi non dormite mai?»
«Dormire, io!»
«Sì, dormire. Da quando siamo sposati, credo non abbiate dormito un solo istante.»
«Nella mia famiglia non si dorme mai.»
Le pupille azzurre sembravano splendere più ardenti.
«Non dorme!» esclamò disperato Muirland. «Non dorme!»
E ricadde esausto e atterrito sul cuscino.
«Non ha palpebre, non dorme mai!» ripeté.
«Non mi stanco di vederti» riprese Spellie «e ti sorveglierò più da vicino.»
Povero Muirland! I begli occhi di sua moglie non gli concedevano requie; erano, come dicono i poeti, astri eternamente accesi per abbagliarlo. Più di trenta ballate vennero composte nella contea all’indirizzo dei begli occhi di Spellie. Quanto a Muirland, un giorno scomparve. Erano passati tre mesi; il supplizio che aveva subito gli aveva distrutto la vita, divorato il sangue; gli sembrava che quello sguardo di fuoco lo bruciasse. Se tornava dai campi, se restava in casa, se andava in chiesa, sempre il terribile raggio splendente penetrava fino in fondo al suo essere, e l’orrore si impossessava di lui. Finì per detestare il sole, per fuggire il giorno.
Il supplizio che aveva distrutto la povera Tuilzie era divenuto il suo supplizio; all’inquietudine morale, che aveva fatto di lui il carnefice della prima giovane moglie e che gli uomini chiamano gelosia, si era sostituita l’ineluttabile interrogazione fisica di un occhio che lo seguiva costantemente: era sempre gelosia, ma trasformata in immagine palpabile, nel prototipo dell’inquisizione. Muirland lasciò la fattoria, abbandonò le sue terre, varcò il mare e si addentrò nelle foreste dell’America settentrionale, dove molta gente del suo paese ha fondato villaggi e costruito una tranquilla capanna.
Si augurava che le savane dell’Ohio gli offrissero un asilo sicuro; preferiva la povertà, la vita del colono, la serpe nascosta sotto i folti cespugli, un nutrimento primitivo, semplice e incerto, al suo tetto scozzese, dove l’occhio geloso e costantemente aperto splendeva per tormentarlo. Dopo aver passato un anno in quella solitudine, finì per benedire la sua sorte: aveva quanto meno trovato il riposo in seno a quella natura feconda. Non corrispondeva con nessuno, in Gran Bretagna, nel timore di avere notizie di sua moglie; qualche volta nei sogni rivedeva ancora quegli occhi aperti, gli occhi senza palpebre, e si svegliava di soprassalto; si assicurava attentamente che le vigili e terribili pupille non fossero più vicine a lui, non lo penetrassero, non lo divorassero con la loro luce insopportabile, e si riaddormentava felice.
I Narraghansetts, tribù vicina alla sua casa, avevano scelto come sachem, o capo, Massasoit, vecchio malaticcio, di carattere pacifico e del quale Jock Muirland si accattivò facilmente la benevolenza, regalandogli l’acquavite di grano che sapeva distillare. Massasoit si ammalò; e il suo amico Muirland andò a visitarlo nella sua capanna.
Immaginate un wigwam indiano, sorta di capanna a punta, con un buco per lasciar passare il fumo; al centro di questo povero palazzo, un fuoco acceso; su pelli di bufalo, stese a terra, il vecchio capo ammalato; attorno a lui gli uomini della tribù urlavano, gridavano, piangevano facendo un baccano tale che non soltanto non avrebbe guarito un ammalato, ma avrebbe fatto ammalare un uomo sano. Un powam, o medico indiano, guidava il lugubre coro e la danza; gli echi vicini rimbombavano del frastuono di quella strana cerimonia: erano le preghiere pubbliche offerte alle divinità del paese.
Sei giovanette massaggiavano le membra nude e fredde del vecchio: una di loro, di appena sedici anni, piangeva. Il buon senso dello scozzese gli fece comprendere che tutto quell’apparato medico avrebbe avuto come unico risultato la morte di Massasoit; nella sua qualità di europeo e di uomo bianco, passava per medico innato. Profittando dell’autorità che il titolo gli conferiva, fece uscire tutti quegli uomini urlanti e si avvicinò al sachem.
«Chi viene da me?» chiese il vecchio.
«Jock, l’uomo bianco.»
«Oh!» riprese il sachem porgendogli la mano inaridita «non ci vedremo più, Jock».
Jock, sebbene sapesse assai poco di medicina, vide senza difficoltà che il nostro sachem aveva semplicemente una indigestione; si prese cura di lui, ordinò che si facesse silenzio, lo mise a dieta, gli preparò un’eccellente minestra scozzese che il vecchio ingoiò come una medicina. In tre giorni Massasoit era tornato alla vita; le urla dei nostri indiani e le loro danze ricominciarono, ma quegli inni selvaggi esprimevano ora solo gratitudine e gioia. Massasoit fece sedere Jock, gli diede da fumare il suo calumet e gli presentò la figlia, Anauket, la più giovane e più graziosa di quante Muirland aveva visto nella capanna.
«Tu non hai una squaw»Squaw: moglie (N.d.A.). gli disse il vecchio guerriero. «Prendi mia figlia e onora la mia testa bianca.»
Jock trasalì, ricordò Tuilzie e Spellie: il matrimonio non era mai stato felice per lui.
Tuttavia, la giovane squaw era dolce, ingenua, obbediente. Un matrimonio nel deserto si circonda di ben poche cerimonie: non ha grande importanza per un europeo. Jock si rassegnò, e la bella Anauket non gli diede occasione alcuna di pentirsi della sua scelta.
Un giorno, era l’ottavo della loro unione, in una bella mattina di autunno si erano imbarcati sull’Ohio. Jock aveva portato il fucile da caccia. Anauket, abituata a queste spedizioni che costituiscono la vita selvaggia, aiutava e serviva suo marito. Il tempo era magnifico; le rive del fiume offrivano agli amanti punti incantevoli. Jock aveva fatto buona caccia, quando una faraona dalle ali splendenti colpì il suo sguardo; prese la mira, la ferì, e l’uccello, colpito a morte, cadde, gemendo, in una folta boscaglia. Muirland non voleva perdere una così bella preda; tirò a secco la sua imbarcazione e corse alla ricerca dell’uccello ferito. Aveva battuto invano molti cespugli, e la sua ostinazione di scozzese lo spingeva sempre più dentro la fitta boscaglia. Si trovò presto circondato da alberi a alto fusto, al centro di una di quelle verdi radure naturali che si trovano nelle foreste d’America, quando un chiarore penetrò il fogliame e giunse fino a lui. Muirland trasalì: il raggio lo bruciava; quella luce insopportabile lo costringeva a abbassare lo sguardo.
L’occhio senza palpebra era là, vigile e perenne.
Spellie aveva passato il mare, aveva trovato la traccia di suo marito, lo aveva seguito da presso; aveva mantenuto la parola, e la sua terribile gelosia già schiacciava Muirland di giusti rimproveri. L’uomo corse verso il fiume, seguito dallo sguardo dell’occhio senza palpebra, vide l’onda chiara e pura dell’Ohio e vi si precipitò, spinto dal terrore.
Tale fu la fine di Jock Muirland, come si trova in una leggenda scozzese che le vecchie spiegano a modo loro. Si tratta di una allegoria, affermano, e l’occhio senza palpebra è l’occhio sempre vigile della donna gelosa, il più terribile dei supplizi.


Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  Volume primo
  Il fantastico visionario
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