Avevo sedici o diciassette anni, lo ricordo perfettamente, e timidissimo giravo per le vie della città dopo la scuola con il libro che stavo leggendo al momento e che mi sarei portato in autobus, sottobraccio, ma con la copertina girata verso di me, in modo che risultasse invisibile al curioso. Il pudore e la timidezza si univano a una forma di vanità e di civetteria neanche troppo sottile, dalla grana grezza e grossa.
Mi chiedevo se qualcuno si sarebbe mai chiesto cos’era quel tascabile Einaudi, o quel piccolo Adelphi, ragionavo domandandomi quello che altri avrebbero potuto domandarsi. Magari in quel modo mi sarei fatto un amico, o avrei conosciuto una ragazza. E se avessi portato in giro un libro di un formato appena più grande, uno di quelli che allora costavano caro, cosa si sarebbero chiesti?, mi chiedevo.
Ora, se capita, la tengo dritta invece la copertina, dritta in faccia (cioè sul fianco, camminando) a chi vuole sapere cosa sto leggendo, se mai esiste qualcuno curioso di un tale piccolo particolare, perché ormai ho imparato che non interessa a nessuno, se non a quelli che ancora guardano le copertine dei libri per la pura curiosità di farlo.
Ho imparato con gli anni a far cuocere la posa nel pragmatismo, e a dissolverla quanto più possibile. Più cultura, meno erudizione, come avrebbero detto i Romantici tedeschi.
Ma, a ben vedere, no: meno erudizione e anche meno cultura. Tutto meno, o quasi. Meno posa, meno erudizione, meno cultura, meno pragmatismo – però più luce, amici, più luce.
Taccuino di un libraio d'occasione
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