Una figura a parte, in tutti i sensi. Così si presentava Paul Delvaux, pittore belga tra i più importanti del secolo XX. Un surrealista senza dogmi e senza partito, lo si direbbe semplificando un po’. Un surrealista che ama la realtà e la coglie nei suoi processi più densi ma al contempo sottili. Ripercorrendo gli anni della sua formazione con studi di architettura e della prima esposizione, alla Galerie Georges Giroux di Bruxelles, Delvaux parlerà del surrealismo – inteso come poetica, non come movimento – nei termini di un «accostamento di elementi differenti che non hanno alcuno rapporto tra loro ma che, per una qualche associazione, provocano uno choc estetico
». Questo choc estetico, però, non ha nulla del mostruoso, dell’infernale, dell’incubo talvolta macabro e sguaiato e nemmeno della rivolta – Delvaux non è artista da manifesti teorici o da pratiche urlate alla Lautréamont– che segna certe derive surrealiste. Il suo ritmo è nell’incanto, nella sorpresa, nel décalage improvviso e nell’improvviso spazio che si apre tra le cose. In questo spazio, la realtà precipita e lo sguardo quasi si scompone, regalando momenti di stasi e di piccole epifanie. «Disegnare un albero, disegnarne il fogliame, penetrare le strutture del mondo vivente
– osserva Delvaux – è estremamente importante, lo è soprattutto quando si tratta di inventare in altra maniera un'opera nella quale tali strutture interverranno, modificate ma conservando comunque il loro significato fondamentale. Avendo copiato la Natura, avendola copiata tanto a lungo, autorizza senza dubbio, una volta trasmutate le cose, a donare più forza e più intensità e persino più presenza agli elementi che si prendono a prestito. Per passare al di là del realismo, per passare oltre, bisogna raggiungere una conoscenza del reale e, in particolare, degli elementi che naturali, in modo tale che l'irrealismo sia estratto dalla stessa realtà
». Le relazioni hanno importanza, in Delvaux. Hanno importanza massima gli accostamenti che con i loro choc liberano quelle relazioni. Alberi, paesaggi, coppie, donne, ma soprattutto treni. I treni furono sempre la sua passione: «ancora bambino, presi a amare i treni e me ne è rimasta la nostalgia. A tutto questo do alcuna particolare considerazione, se non l'espressione di un sentimento. Dipingo i treni della mia infanzia e, da qui, l'infanzia stessa
». Non c’è un a priori ideologico o di scuola, in Delvaux. Tutto avviene ex post, la poetica si può vedere al termine, forse anche all’origine, ma solo al termine del suo percorso si fa chiara e decisa. È induzione, non deduzione: «Vedo qualcosa, mi emoziona, dipingo
». Anche nella pittura di De Chirico, Delvaux dichiara di non essere attratto tanto dagli aspetti metafisici dell’opera, quanto dall’accostamento, dal mistero, dalle ombre che si proiettano su strade e piazze, dalla «poesia del silenzio
». Una poesia che si sprigionerebbe, secondo l’artista belga, proprio quando e perché per quelle strade o in quelle piazze non c’è nessuno. Sono le cose, allora, a parlare. Le immagini letterarie non lo interessano, il lavoro, per lui, «deve restare pittorico, non bisogna vedere altro che la pittura ed è il motivo per cui la teoria non deve entrare nel territorio della pittura, altrimenti la rovina, la distrugge. Chiacchierare non serve a niente
».
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