La visione: allora accadde qualcosa di strano, in realtà qualcosa di spettrale. D’un tratto capii il consigliere cantonale. Inaspettatamente. La comprensione mi colse di sorpresa. All’improvviso indovinai il motivo del suo comportamento. Lo avvertii dai mobili costosi, dai libri, dal tavolo da biliardo. Lo percepii dal legame tra la logica più rigorosa e il gioco, che aveva segnato quell’ambiente. Ero penetrato nella sua tana, e ora vedevo chiaro. Kohler aveva ucciso non perché era un giocatore. Non era un giocatore d’azzardo. Non lo attirava la puntata. Lo attiravano il gioco in sé, il percorso delle palle, il calcolo e l’esecuzione, le possibilità della partita. La fortuna per lui non significava nulla (per questo poteva considerarsi estremamente fortunato, non fingere neppure). Era soltanto fiero del fatto che fosse in suo potere scegliere le condizioni del gioco, seguire lo sviluppo di una necessità che aveva creato lui stesso – in questo consisteva il suo senso dell’umorismo. Naturalmente non aveva nessun motivo per farlo. Sublime volontà di potenza, forse, il desiderio di giocare non solo con le palle ma anche con gli esseri umani, la tentazione di porsi sullo stesso piano di un Dio. Possibile, ma non importante. Come giurista, devo stare in superficie, non calarmi nella psicologia o addirittura inabissarmi nella filosofia o nella teologia. Con il suo omicidio Kohler aveva vinto un’altra partita, ecco tutto. Ora le cose andavano secondo i suoi piani. Io non ero altro che una delle sue palle da biliardo, che il suo tiro aveva messo in moto. Lui agiva in modo perfettamente logico. Davanti al tribunale non aveva addotto alcun motivo, perché ciò era impossibile.
Possibile, ma non importante
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