Mi torna alla memoria, delle numerose interviste che ho fatto a Mattarella, quella su Ciampi nel giorno della sua scomparsa, perché delinea rispecchiamenti precisi tra i due ex governatori di Bankitalia divenuti premier. Di Ciampi, il presidente ammirava «la chiarezza delle analisi e la serenità nel considerare le proposte che gli venivano avanzate… «la pacatezza e la capacità persuasiva con cui conduceva a condividere le sue ragioni… la misura, l’equilibrio, la rettitudine, lo spirito di servizio». Doti alle quali univa un grande «rispetto per la cultura», mentre «la dirigenza politica del paese era travolta dalla delegittimazione».
La posta in palio con Draghi, in cui vede forse un alter ego di Ciampi, è più o meno la stessa di quel 1993. Ma con una difficoltà nuova, che il capo dello Stato ha ben presente. La politica dovrebbe avere una capacità di anticipazione e disegno del futuro, mentre questo non accade da tempo, il che spiega perché tanto spesso si sia navigato bordeggiando. Con Draghi tutto si rovescia: i politici si prendono il compito di gestire l’esistente, mentre i tecnici – i «Draghi boys» cooptati nei dicasteri cruciali – elaborano un programma per il futuro, e ciò dovrebbe essere senza interessi politici. L’anomalia è determinata dalla fine del nesso tra politica e cultura che ha caratterizzato il Novecento e che oggi, nella povertà di ideali e valori dei partiti, contribuisce alla crisi del sistema.
Povertà di ideali e valori dei partiti
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