Pratica terapeutica ed ordinamento politico

A questa esigenza profilattica va collegato non soltanto il rilievo conferito all’igiene pubblica, ma anche la funzione di controllo sociale che ad esse viene collegata. L’isolamento dei luoghi in cui più facilmente possono svilupparsi i germi infettivi dovuti all’ammassamento di corpi: porti, prigioni, fabbriche, ospedali, cimiteri. L’intero territorio viene progressivamente suddiviso in zone rigidamente separate in funzione di una sorveglianza insieme medica e sociale. Il modello originario, di matrice medievale, è quello della quarantena. Il modello della peste prevede la ripartizione dei malati in ambienti individuali che ne consentisse la numerazione, la registrazione e il controllo assiduo. A questo modello più arcaico si sovrappone, nel tempo, un altro di derivazione scolastica e militare, tendente anch’esso alla suddivisione spaziale, prima per conglomerati o classi e poi per posti individuali. Quello che così si forma, alla confluenza di entrambi i dispositivi, è una sorta di incasellamento, tale da collocare gli individui in un sistema capillare di segmenti istituzionali – famiglia, scuola, esercito, fabbrica, ospedale – che ne vieta, o quantomeno controlla, la circolazione in funzione della sicurezza pubblica. Tutta l’urbanizzazione che si sviluppa in Europa a partire dalla metà del XVIII secolo si presenta come una fitta rete di recinzioni tra luoghi, settori, territori protetti da confini stabiliti secondo norme politico-amministrative che vanno ben al di là delle esigenze igienico-sanitarie. È fin troppo ovvio il quadro immunitario in cui si colloca questo generale processo di sovrapposizione tra pratica terapeutica ed ordinamento politico: per divenire oggetto di cura politica, la vita deve essere separata e chiusa in spazi di progressiva desocializzazione che la immunizzano da ogni deriva comunitaria.

Crediti
 Roberto Esposito
 Immunitas
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