Una vita individuale ha ottenuto il suo pieno risultato quando l’uomo se ne separa senza più nutrire il desiderio di essa e delle sue gioie, quando cioè è guarito dalla smania che inizialmente gli si era rivelata come vita; ogni altra cosa gli è indifferente e può avere un valore subordinato soltanto come causa sufficiente: trattasi dei suoi destini e delle sue azioni.
È attraverso il dolore che l’uomo viene nobilitato e infine santificato, cioè liberato dalla volontà di vita. Il timore reverenziale suscitato in noi da un grande dolore è ancora più intenso nei confronti di un defunto: ogni morte è una sorta di apoteosi o di canonizzazione, e persino la salma dell’uomo più comune suscita in noi tale timore reverenziale.
Occorre dunque considerare la morte come il principale scopo morale della vita, e in tale attimo si ottiene di più che in tutti gli anni che si sono vissuti e che ne sono stati solo la preparazione e il praeludium. La morte è il résumé della vita, la sua somma complessiva, che in un’unica proposizione esprime tutto ciò che la vita ha insegnato volta per volta e a piccoli passi: la volontà di vita, cioè tutta la tensione di cui la vita è l’apparenza, è vana, futile e contraddittoria, e da essa ci si redime soltanto tornandone indietro. Perciò il Socrate platonico definì la filosofia “preparazione alla morte”.

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