Fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti. Questo indicavano i fatti, e la convinzione che le cose non potessero stare altrimenti prese il sopravvento. Non v’è dubbio che l’esistenza umana esprima il destino del dolore. Essa vi è profondamente immersa, non gli sfugge; il suo corso e la sua fine sono assolutamente tragici: non si può non riconoscervi una certa intenzionalità. E vero peraltro che il dolore è deuteros plous (seconda navigazione), cioè il surrogato della virtù e della santità. Purificati da esso giungiamo infine alla negazione della volontà di vita, al ritorno indietro dalla strada sbagliata, alla redenzione, ed è per questo che la potenza misteriosa che guida il nostro destino, e che secondo la credenza popolare è miticamente personificata dalla provvidenza, ha pensato di riservarci dolori su dolori. Al mio sguardo giovanile, parziale finché si vuole ma giusto nei limiti della sua prospettiva, il mondo si presentava dunque come l’opera di un demonio.

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