Come stanno le cose rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso della verità: forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è l’espressione adeguata di tutte le realtà? Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una verità nel grado sopra designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di gusci vuoti, baratterà sempre illusioni e veri.
Noi non riusciamo ad affermare e a negare una stessa e identica cosa: questo è un principio di esperienza soggettivo, in esso non si esprime una necessità, bensì solo un’incapacità. Se, secondo Aristotele, il principio di non contraddizione è il più certo di tutti i princìpi, se è l’ultimo e il massimo, a cui si riconducono tutte le dimostrazioni, se in esso risiede il principio di tutti gli assiomi: tanto più rigorosamente si dovrebbe prendere in considerazione che asserzioni ciò che esso in fondo già presuppone. O con esso si afferma qualcosa in relazione alla realtà, all’essere, come se esso conoscesse già da altra fonte questo qualcosa: cioè che non gli si possono attribuire predicati contrari. Oppure il principio vuole dire che non gli si devono attribuire predicati contrari? Allora la logica sarebbe un imperativo, non per la conoscenza del vero, bensì per l’imposizione e l’ordinamento di un mondo che deve chiamarsi vero per noi. Insomma, la questione rimane aperta: gli assiomi logici sono adeguati al reale, o sono anzitutto norme e mezzi per creare il reale, il concetto di realtà per noi?… Per poter affermare la prima cosa occorrerebbe però, come si è detto, conoscere già l’essere; il che assolutamente non è. Il principio non contiene quindi un criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che deve valere come vero.
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