Come ho spesso mostrato, è in sé, e non nell’apparenza, che tormentatore e tormentato sono identici, per quanto diversamente mostri la Māyā, e in questo sta l’eterna giustizia. Ma l’intelligenza non dirozzata, che prende l’apparenza per cosa in sé, vuol vedere nel tempo e nell’individuum ciò che spetta solo alla cosa in sé.
Se un uomo per aumentare in modo considerevole il proprio benessere diminuisce in modo considerevole quello di un altro, lo pone quindi nello stato di sofferenza, il piacere del primo è disturbato, anche se soltanto per un istante, da una pena di tipo particolare, che chiamiamo rimorso di coscienza.
È la confusa, oscura coscienza di ciò che segue: innanzitutto, che solo per la rappresentazione, non in sé, solo mediante la forma della rappresentazione, ossia del principium individuationis, che è la Māyā, egli, che è causa della sofferenza altrui, è diverso dal sofferente; in sé invece, in ciò che il mondo è oltreché rappresentazione, sono entrambi l’unica volontà di vivere, e in tal modo il sofferente e colui che infligge la sofferenza sono una sola cosa. Che quindi tramite l’accecamento della Māyā la volontà di vivere entra in contrasto con sé stessa, perché proprio cercando in una delle sue apparenze un benessere accresciuto genera nell’altra una grande sofferenza, ma una sofferenza che lei stessa deve sopportare, con cui sconta l’infrazione all’eterna giustizia, che ha appunto qui la sua fonte.
La giustizia temporale infatti prende le mosse soltanto dal principium individuationis e quindi dall’egoismo; l’individuo, dotato di ragione, si preoccupa di sé stesso quando fa il patto che nessuno danneggi l’altro: questa giustizia temporale è la fonte del diritto di natura.
La giustizia eterna invece è un penetrare con lo sguardo il principium individuationis, con cui si riconosce che il tormentatore e il tormentato non sono diversi in sé, e la forte volontà di vivere deve scontare la contraddizione in cui entra con sé stessa e paga la voluttà con il tormento.
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