
Ecco un altro grande tema del fantastico ottocentesco: la sopravvivenza dell’antichità classica, annullamento di quella discontinuità storica che ci separa dal mondo greco romano, con tutto quello che esso significa in contrasto col nostro mondo.
Avrei potuto scegliere per rappresentare questo tema anche Arria Marcella di Théophile Gautier (1852) che si svolge a Pompei e che ha uno spunto di sensuale finezza: a far entrare nel mondo del passato è l’impronta d’un seno di fanciulla nella lava. Oppure The Last of Valerii di Henry James (1874): il tema ha avuto molte versioni. Ho preferito questo racconto perché è ben rappresentativo di Mérimée (1803-1870) e della sua fedele attenzione nella resa del color locale, dei climi, dell’atmosfera umana.
I racconti fantastici di Mérimée non sono molti ma sono essenziali per la sua arte narrativa: ricorderò Lokis (1868), storia di superstizioni lituane, con un’indimenticabile calata nel mondo animale delle foreste.
La Vénus d’Ille, statua in rame – romana o greca – è malvista dagli abitanti del villaggio basco del Rossiglione dov’è stata di recente scoperta. La considerano un idolo. Il promesso sposo della figlia dell’archeologo locale, per giocare alla pallacorda, si toglie l’anello e lo mette al dito della statua. Non riuscirà più a toglierlo. È sposato alla statua? La Venere gigantesca, sogno della serena bellezza olimpica, si trasforma, nella prima notte di nozze, in un incubo di terrore.
«Ci sia propizia e benigna questa statua tanto possente», Luciano, L’amante di bugie (trad. L. Settembrini) (N.d.T.). Stavo discendendo l’ultimo pendio dei monti del Canigou e, per quanto il sole fosse già scomparso, distinguevo nella pianura le case della cittadina d’Ille, verso la quale ero diretto.
«Sapete» chiesi al catalano che dal giorno prima mi faceva da guida «sapete certamente dove abita il signor di Peyrehorade?»
«Altro che!» esclamò l’uomo. «Conosco la sua casa come casa mia, e se non fosse tanto buio ve la indicherei. È la più bella d’Ille. Già; non gli mancano i quattrini al signor di Peyrehorade; e per giunta fa sposare al figlio una donna anche più ricca.»
«E questo matrimonio si farà presto?» gli chiesi.
«Prestissimo! Può darsi che i violini siano già stati chiamati per le nozze. Stasera, forse; o domani, oppure – che so io? – posdomani. Lo sposalizio si farà a Puygarrig, poiché il signor figlio sposa proprio la damigella di quel nome. Certo, sarà un bel vedere!»
Avevo, per il signor di Peyrehorade, una commendatizia del mio amico, sig. di P., dal quale mi era stato anche assicurato che avrei avuto a che fare con un antiquario assai dotto e, oltre a ciò, di una inesauribile cortesia. Per costui, non poteva essere che un piacere mostrarmi i ruderi esistenti nel raggio di dieci leghe. E dunque, proprio su di lui contavo per visitare i dintorni d’Ille, ricchi – come ben sapevo – di monumenti dell’antichità e del medioevo. Quel matrimonio, del quale mi si parlava ora per la prima volta, sconcertava tutti i miei piani.
Apparivo come un guastafeste, pensai. Ma mi attendevano; il sig. di P. aveva annunziato il mio arrivo, e bisognava pure che mi presentassi.
Eravamo già in pianura, quando la guida mi disse:
«Scommettiamo, signore, scommettiamo un sigaro che io indovino ciò che andate a fare dal signor di Peyrehorade?»
«Ma» risposi porgendogli il sigaro «non ci vuol mica tanto a indovinarlo. A quest’ora, dopo sei leghe di strada nel Canigou, ciò che più preme è cenare.»
«Già. Ma domani?… Via, scommetterei che venite a Ille per vedere l’idolo. L’ho indovinato, vedendovi ritrarre in disegno i santi di Serrabona.»
«L’idolo! che idolo?»
Quella parola aveva eccitato la mia curiosità.
«Come! non vi hanno detto, a Perpignano, che il signor di Peyrehorade ha trovato un idolo in terra?»
«Volete dire una statua di terracotta, di creta?»
«No, no; di bel rame, da poterne far parecchie monete da due soldi. Toh, pesa quanto una campana di chiesa. A piè di un olivo, e in luogo molto profondo, l’abbiamo scovata.»
«C’eravate anche voi quando l’hanno scoperta?»
«Sissignore. Il signor di Peyrehorade ci disse, quindici giorni fa, a Giovanni Coll e a me, di sradicare un vecchio olivo che era gelato fin dall’anno scorso, poiché, come sapete, quello è stato proprio un anno cattivo. E nell’eseguire il lavoro, ecco che il mio Giovanni Coll, il quale picchiava di buzzo buono, dà un tale colpo di zappa, ed io sento bimm… come se avesse battuto su una campana. Che è? dico io. Zappiamo ancora, zappiamo; ed eccoti che appare una mano nera, come la mano di un morto che sbucasse di terra. Io, ho paura. Vado subito dal padrone, e gli dico: Ci sono dei morti, Signoria, sotto quell’olivo! Bisogna chiamare il prete. Che morti? mi fa lui. Corre, e non appena scorge quella mano, grida: Un’antichità! un’antichità!. Si sarebbe creduto che avesse trovato un tesoro. Ed eccolo a sfaccendare anche lui; con la zappa, con le mani, fa quasi altrettanto lavoro quanto noi due.»
«E così, che trovaste?»
«Un gran pezzo di donna nera, nuda fino alla cintola, ed oltre, con licenza parlando, tutta di rame. E il signor di Peyrehorade ci ha detto che era un idolo del tempo dei pagani, come dire del tempo di Carlomagno!»
«Vedo di che si tratta… Una madonna di bronzo di qualche convento distrutto.»
«Una madonna! proprio quella!… L’avrei riconosciuta anch’io se fosse stata la santa Vergine. È un idolo, vi dico. Si vede bene dall’aria che ha. Ti guarda fisso, con quegli occhioni bianchi… Sembra che ti squadri in viso. Toh, chi la guarda è costretto ad abbassare gli occhi.»
«Ha gli occhi bianchi? Certamente, un lavoro d’incrostatura nel bronzo Sarà qualche statua romana.»
«Ecco, romana! Il signor di Peyrehorade dice che è una romana. Ah! vedo bene che siete una persona sapiente come lui!»
«È intera? ben conservata?»
«Altro che, signore! Non le manca niente. È un’opera ancora più bella e meglio rifinita del busto di Luigi Filippo di gesso dipinto, che abbiamo al municipio. Ma con tutto ciò, la faccia di quell’idolo non mi garba. È di aspetto cattivo… ed è cattiva davvero.»
«Cattiva! Che cattiveria vi ha fatto?»
«Non proprio a me; ma ora sentirete. Ci eravamo messi in quattro per alzarla in piedi, oltre al signor di Peyrehorade, che tirava la fune anche lui, il degno uomo! sebbene non abbia più forza di un pulcino. A grande stento, la poniamo ritta. Ed io stavo per rincalzarla con un coccio, quando, patatrac! eccola che cade all’indietro, tutta d’un pezzo. Attenti, là sotto! gridai. Ma non tuttavia così presto come sarebbe stato necessario, ché Giovanni Coll non fece in tempo a ritirare la gamba…»
«Così, è rimasto ferito?»
«Rotta netta come un palo di vigna, la sua povera gamba! Pecàire! Parola di commiserazione dei dialetti di linguadoca (N.d.T.). Io, quando ho visto così, ero furibondo. Volevo sfasciare l’idolo a colpi di zappa, ma il signor di Peyrehorade mi ha trattenuto. Ha dato anche soldi a Giovanni Coll, che però è ancora a letto, con tutto che il guaio gli sia successo già da quindici giorni. E il medico dice che con quella gamba non camminerà mai più come con l’altra. È un peccato. Era il nostro miglior corridore e, dopo il signorino, il più abile giocatore di pallacorda. E bisogna dire che il signor Alfonso di Peyrehorade ne ha provato proprio un dispiacere, poiché era Coll che giocava con lui. Ecco, che cosa era bello vedere: come si rimandavano la palla. Paf! paf! mai che una toccasse terra!»
Così discorrendo, facemmo il nostro ingresso a Ille, e presto mi trovai innanzi al signor di Peyrehorade. Era un vecchietto vegeto e arzillo, incipriato, con il naso rosso e l’aspetto gioviale e motteggevole. Prima ancora di aprire la lettera del signor di P., mi aveva fatto sedere davanti ad una tavola ben guarnita e presentato alla moglie e al figlio come un illustre archeologo, il quale doveva trarre il Rossiglione dal dimenticatoio in cui lo aveva lasciato finora l’indifferenza degli studiosi.
Mangiavo di buon appetito, poiché nulla dispone meglio lo stomaco dell’aria viva dei monti, e al tempo stesso consideravo i miei ospiti. Ho già detto qualcosa del signor di Peyrehorade. Debbo aggiungere che era la vivacità in persona. Parlava, mangiava, si alzava, correva in biblioteca, mi portava libri, mi mostrava stampe, mi versava da bere; non stava mai due minuti fermo.
La moglie, un po’ troppo grassa, come la maggior parte delle catalane quando hanno varcato la quarantina, mi parve una provincialona di tre cotte, dedita esclusivamente alle cure domestiche. Sebbene la cena fosse tale da bastare per lo meno a sei persone, corse in cucina, fece ammazzare due piccioni, friggere migliacci, aprì non so quanti vasetti di marmellata. In un attimo la tavola fu ingombra di piatti e di bottiglie, e sarei certamente morto d’indigestione se avessi soltanto assaggiato tutto ciò che mi offrivano. Nondimeno, ad ogni portata che rifiutavo, erano nuove scuse. Temevano che non mi trovassi molto bene a Ille. Si hanno così poveri mezzi in provincia, e i parigini sono tanto difficili! Tra il viavai dei genitori, il signor Alfonso di Peyrehorade non si moveva più di un dio termine. Era un giovanottone di ventisei anni, dalla fisionomia bella e regolare, ma priva di espressione. La statura e le forme atletiche di lui giustificavano appieno la fama d’instancabile giocatore di pallacorda che gli veniva fatta nella regione. Quella sera, era vestito con eleganza, esattamente come il figurino dell’ultimo numero del «Giornale della Moda». Ma mi sembrava impacciato nei suoi panni; si teneva rigido come uno stollo, nel colletto di velluto, e si voltava tutto di un pezzo. Le mani tozze e aduste, le unghie corte, contrastavano in modo strano con l’abito che portava. Erano le mani di un bifolco, uscenti dalle maniche di un damerino.
D’altronde, per quanto, nella mia qualità di parigino, mi considerasse dalla testa ai piedi con molta curiosità, non mi rivolse che una sola volta la parola in tutta la serata, per chiedermi dove avessi comprato la catena del mio orologio.
«Ed ora, mio caro ospite» mi disse il signor di Peyrehorade mentre la cena stava per finire «voi mi appartenete. Siete in casa mia, non vi mollo più finché non avrete visto tutto ciò che è degno di osservazione nelle nostre montagne. Bisogna che impariate a conoscere il nostro Rossiglione, e che gli rendiate giustizia. Voi non avete idea di tutto ciò che stiamo per mostrarvi. Monumenti fenici, celti, romani, arabi, bizantini, dovete vedere ogni cosa, dal cedro fino all’issopo. Vi condurrò dovunque e non vi farò grazia di un mattone.»
Un insulto di tosse lo costrinse a riprender fiato. Ne approfittai per dirgli che mi sarebbe molto dispiaciuto di recargli disturbo in una circostanza di tanta premura per la sua famiglia. Purché volesse darmi i suoi ottimi consigli sulle escursioni da compiere, avrei potuto, senza che si desse il fastidio di accompagnarmi… «Ah! volete parlare del matrimonio di questo giovanotto» esclamò, tagliandomi il discorso. «Sarà una cosa spicciativa; si farà dopodomani. Vi assisterete con noi, in famiglia, poiché la sposa è in lutto per la morte di una zia, che l’ha fatta erede. Così, niente festa, niente ballo… Peccato… Avreste veduto danzare le nostre catalane… Sono graziose, e forse vi sarebbe venuta la voglia d’imitare il nostro Alfonso. Si dice che i matrimoni siano come le ciliegie… Sabato, sposati quei giovani, sarò libero, e ci metteremo in giro. Vi chiedo scusa di procurarvi la noia di uno sposalizio di provincia. Per un parigino, sazio di festeggiamenti… e per giunta, un matrimonio senza ballo! Nondimeno, vedrete una sposa… una sposa… me ne darete le nuove… Ma voi siete un uomo serio e non guardate più le donne. Ho molto di meglio da mostrarvi. Vi farò vedere qualcosa!… Vi riservo per domani una sorpresa fuori dell’ordinario.»
«Dio mio!» risposi. «È difficile avere un tesoro in casa senza che il pubblico ne sia informato. Credo d’indovinare la sorpresa che mi state preparando. Ma se si tratta della vostra statua, la descrizione fattami dalla guida non è valsa che ad eccitare la mia curiosità e a dispormi all’ammirazione.»
«Ah! vi ha parlato dell’idolo, poiché così la chiamano, la mia bella Venere Tur… ma non voglio dirvi nulla. Domani, quando sarà giorno chiaro, la vedrete, e allora mi direte se ho ragione di ritenerla un capolavoro. Perdinci! non potevate capitar meglio a proposito! Vi sono certe iscrizioni che io, povero ignorante, spiego a modo mio… ma uno scienziato di Parigi!… Vi burlerete forse della mia interpretazione… perché ho preparato una relazione… io, qui presente… vecchio antiquario di provincia, mi sono avventurato… Voglio far gemere i torchi… Purché voleste leggermi e correggermi, potrei sperare… Ad esempio, sono molto curioso di sapere come tradurreste questa iscrizione sul piedistallo: CAVE… Ma non voglio ancora chiedervi nulla! A domani, a domani! Nemmeno parola della Venere, oggi!»
«Hai ragione, Peyrehorade» interruppe la moglie «di smetterla col tuo idolo. Ti dovresti accorgere che non lasci cenare il signore. Va’ là, che a Parigi il signore ha veduto statue molto più belle della tua. Alle Tuileries ve ne sono a dozzine, e di bronzo anche quelle.»
«Eccoti l’ignoranza, la beata ignoranza della provincia!» interruppe il signor di Peyrehorade. «Paragonare un ammirabile cimelio alle piatte figure di Coustou! Vedi con quale irriverenza parla degli dei la massaia! «Voi non sapete che mia moglie voleva che fondessi la mia statua e che ne facessi una campana per la nostra chiesa. Eh già, ne sarebbe stata la madrina. Un capolavoro di Mirone, signore!»
«Capolavoro! Capolavoro! Un bel capolavoro! Dopo che ha fatto romper la gamba ad un uomo!»
«Vedi, moglie?» disse il signor di Peyrehorade in tono risoluto, allungando verso di lei la gamba destra, nella calza di seta versicolore «se la mia Venere mi avesse rotto questa gamba, non la rimpiangerei.»
«Dio mio! Peyrehorade, come puoi dire queste cose! Fortuna che l’uomo sta migliorando… Con tutto ciò, non posso decidermi a guardare la statua che provoca tali sciagure. Povero Giovanni Coll!»
«Ferito da Venere, signore» disse il signor di Peyrehorade con un riso alquanto sguaiato «ferito da Venere, qual mariuolo si lamenta:
Veneris nec praemia noris.
«Chi non è stato ferito da Venere?»
Il signor Alfonso, che afferrava il francese meglio del latino, strizzò l’occhio con l’aria di chi la sa lunga, e mi guardò come per chiedermi: E voi, Parigino, comprendete?.
La cena ebbe fine. Da un’ora non mangiavo più. Ero stanco e non riuscivo a dissimulare i frequenti sbadigli che mi sfuggivano. La prima ad accorgersene fu la signora di Peyrehorade, la quale osservò che era ora di andare a dormire. Allora cominciarono nuove scuse sul pessimo letto che mi attendeva. Non mi sarei trovato come a Parigi. La vita in provincia è così scomoda! Bisognava essere indulgenti con i rossiglionesi. Avevo un bel protestare che dopo una scarpinata in montagna un fastello di paglia sarebbe stato per me un giaciglio delizioso, mi pregavano ancora di scusare i poveri campagnuoli che erano, se non mi trattavano tanto bene come avrebbero desiderato. Salii finalmente nella camera che mi era destinata, con la guida del signor di Peyrehorade. Le scale, i cui ultimi gradini erano in legno, sboccavano in mezzo ad un corridoio, sul quale si aprivano un buon numero di stanze.
«Quello di destra» mi disse il mio ospite «è l’appartamento che riservo alla futura signora di Peyrehorade. La vostra camera è al capo opposto del corridoio. Voi capite bene» aggiunse con l’aria di chi vuol far conoscere la propria arguzia «voi capite bene che gli sposini debbono stare isolati. Voi siete ad una estremità della casa, e loro a quell’altra.»
Entrammo in una camera ben arredata, nella quale la prima cosa che trattenne il mio sguardo fu un letto, lungo sette piedi, largo sei, e così alto che ci voleva uno sgabello per inerpicarvisi. Il mio ospite m’indicò il campanello, si assicurò coi suoi occhi che fosse piena la zuccheriera e le boccette d’acqua di Colonia a posto sulla mensolina del lavabo; dopo di che, chiestomi a più riprese se mi mancasse nulla, mi diede la buona notte e mi lasciò solo.
Le finestre erano chiuse. Prima di spogliarmi, ne spalancai una per respirare l’aria fresca della notte, deliziosa dopo una lunga cena. Di fronte si ergeva il Canigou, ognora di aspetto mirabile, ma che mi parve quella sera la più bella montagna del mondo, illuminato com’era da una luna splendida. Rimasi per alcuni minuti a contemplarne il meraviglioso profilo, e stavo per chiudere la finestra quando, nel calare lo sguardo, adocchiai la statua su di un piedistallo, a una ventina di tese dalla casa. Era collocata all’angolo di una siepe viva, che divideva un piccolo giardino da un ampio spiazzo quadrato, di livello perfetto. Questo, come seppi in seguito, era il campo di pallacorda della città. Il terreno, già di proprietà del signor di Peyrehorade, era stato da questi ceduto al comune, per accondiscendere alle insistenti premure del figlio.
La distanza alla quale mi trovavo dalla statua non mi permetteva di distinguerne l’atteggiamento. Potevo soltanto stimarne l’altezza, che mi parve di circa sei piedi. In quel momento, s’imbatterono a passare sul campo, abbastanza vicino alla siepe, due monelli del luogo. Fischiettavano il grazioso motivo del Rossiglione: Montagne regalate. Si fermarono per guardare la statua. Uno di essi l’apostrofò persino a voce alta. Parlava catalano; ma il tempo ormai trascorso nel Rossiglione mi metteva in grado di capire presso a poco ciò che diceva.
«Eccoti, dunque, malandrina!» (il termine catalano era più energico) «Eccoti qui!» diceva. «Sei tu che hai rotto la gamba a Giovanni Coll! Se tu fossi mia, ti romperei il collo.»
«Mah! e con che?» fece il compagno. «È di rame, e tanto dura che Stefano, per intaccarla, vi ha spezzato la sua lima. È rame del tempo dei pagani, più duro di non so che cosa.»
«Se avessi il mio tagliaferro» (il giovane, a quanto sembra, imparava da magnano) «non ci metterei tanto a farle schizzare quegli occhioni bianchi; sarebbe come togliere una mandorla dal guscio. C’è da cavarne argento per più di uno scudo.»
Si erano allontanati di pochi passi, quando il maggiore dei due apprendisti si fermò di colpo.
«Bisogna che dia la buonasera all’idolo» disse.
Si calò, e dovette raccogliere un sasso. Lo vidi poi distendere il braccio, scagliare qualcosa; e subito un colpo sonoro rintronò sul bronzo. Simultaneamente, il giovane lavorante si portò la mano alla testa, con un grido di dolore.
«Me l’ha tirata indietro!» esclamò.
E subito i due monelli se la diedero a gambe. Era chiaro che il sasso era rimbalzato contro il metallo e aveva punito il mariuolo dell’oltraggio fatto alla dea.
Richiusi la finestra ridendo proprio di cuore.
Un vandalo di più castigato da Venere. Possano tutti i demolitori dei nostri vecchi monumenti avere la testa rotta allo stesso modo! Su questo caritatevole augurio, mi addormentai.
Era giorno alto quando mi svegliai. Vicino al mio letto stavano, da un lato il signor di Peyrehorade, in veste da camera, dall’altro un domestico mandato dalla signora, con una tazza di cioccolata in mano.
«Su, in piedi, parigino! Vedeteli qua, questi pigroni della capitale!» andava dicendo il mio ospite mentre mi vestivo in fretta. «Sono le otto e ancora dorme! Dalle sei sono alzato, io. Sono salito tre volte; mi sono avvicinato all’uscio in punta di piedi: macché! nemmeno un segno di vita. Il troppo dormire vi farà male, alla vostra età. E la mia Venere, che non avete visto ancora. Su, presto, ingoiate quella tazza di cioccolata di Barcellona… Vero contrabbando… Cioccolata come questa non ne hanno in Parigi. Mettetevi in forze, poiché, quando sarete al cospetto della mia Venere, non riusciranno più ad allontanarvene.»
In cinque minuti fui pronto, cioè sbarbato a metà, male abbottonato, scottato dalla cioccolata inghiottita bollente. Scesi nel giardino, e mi trovai dinnanzi ad una statua stupenda.
Era proprio una Venere, e per giunta di mirabile bellezza. Nuda la parte superiore del corpo, come gli antichi solevano rappresentare le divinità somme; la mano destra, alzata al livello del seno, era rivolta con la palma in dentro, il pollice e le due prime dita distese, le altre due leggermente piegate. La mano sinistra, poco discosta dal fianco, sosteneva il drappeggio che copriva la parte inferiore. Ricordava, l’atteggiamento di quella statua, l’altro del Giocatore di morra designato, non so bene per quale motivo, col nome di Germanico. Forse l’artefice aveva voluto rappresentare la dea nell’atto di giocare alla morra.
Comunque sia, non è possibile vedere cosa più perfetta del corpo di quella Venere, nulla di più soave e più voluttuoso della sua figura, nulla di più elegante e più nobile della sua veste. Mi ero disposto a vedere qualche opera del Basso Impero; mi si parava dinnanzi un capolavoro della migliore età della statuaria.
Ciò che soprattutto mi colpì, fu lo squisito realismo delle forme, tanto che si sarebbero potute credere modellate sul vero, se la natura producesse così perfetti modelli.
La capigliatura, rialzata sulla fronte, pareva essere stata a suo tempo dorata. La testa, piccola come nella maggior parte delle statue greche, accennava un lieve inchino. Del volto, poi, non riuscirò mai ad esprimere il carattere strano, di un tipo non riscontrato mai in nessuna statua antica, per quanto io mi ricordi. Non era la bellezza calma e severa degli scultori ellèni, i quali, per sistema, imprimevano all’intero portamento delle loro opere una maestosa immobilità. Qui, al contrario, notavo con sorpresa la chiara ‘intenzione dell’artista di rappresentare la malizia spinta sino alla malvagità. Tutti i lineamenti erano leggermente contratti: gli occhi un tantino obliqui, la bocca rialzata agli angoli, le narici alquanto dilatate. Disdegno, ironia, crudeltà si leggevano su quel volto, raggiante tuttavia d’incredibile bellezza. In verità, più si guardava quella statua mirabile, e più si provava la molesta impressione che una così meravigliosa beltà si accoppiasse ad una insensibilità assoluta.
«Se il modello mai esisté» dissi al signor di Peyrehorade «ed io dubito che il cielo abbia mai prodotto una donna siffatta, come compiango i suoi amanti! Ha dovuto porre il suo diletto nel farli morire di disperazione. Vi è nella sua espressione un che di feroce, eppure non ho mai visto nulla di pari bellezza.»
«Essa è propriamente Venere tutta avvinghiata alla preda!»«C’est Vénus tout entière à sa proie attachée». Racine, Phèdre, a. I, sc. III. Ma trovasi già in Orazio: «In me tota ruens Venus». Od. I (N.d.T.).
esclamò il signor di Peyrehorade, contento del mio entusiasmo.
Quella espressione d’infernale ironia era forse accresciuta dal contrasto degli occhi brillantissimi, incastonati d’argento, con la patina di un verde nerastro di cui il tempo aveva coperto tutta la statua. Quegli occhi lucenti producevano una certa illusione di viva realtà. Mi tornarono a mente le parole della guida, secondo cui la statua costringeva coloro che la guardavano a calare gli occhi. Era quasi vero, e non potei sottrarmi ad un sentimento d’ira verso me stesso, nell’accorgermi del lieve disagio che provavo davanti a quella figura di bronzo.
Ora che avete tutto minutamente ammirato, mio caro collega in anticaglie» disse il mio ospite «iniziamo, vi prego, una conversazione scientifica. Che ve ne sembra di questa iscrizione, alla quale non avete ancora badato?»
Mi mostrava lo zoccolo della statua, su cui lessi queste parole:
CAVE AMANTEM «Quid dicis, doctissime?» mi chiese, stropicciandosi le mani. «Vediamo se ci troviamo d’accordo sul significato di questo cave amantem!»
«Ma» risposi «ha due sensi. Può tradursi: Guàrdati da colui che ti ama, diffida degli amanti. Ma, in questo senso, non so se cave amantem sarebbe un latino aureo. Se considero l’espressione diabolica della signora, crederei piuttosto che l’artefice abbia voluto mettere in guardia lo spettatore contro questa terribile bellezza. Perciò tradurrei: Bada bene a te, se ella ti ama.
«Uhm!» fece il signor di Peyrehorade. «Sì, è una spiegazione plausibile; ma, se non vi dispiace, preferisco la prima versione, che tuttavia svilupperò. Sapete chi era l’amante di Venere?»
«Furono in molti.»
«Sì, ma il primo fu Vulcano. Non si è, dunque, voluto intendere: Con tutta la tua bellezza, e con quell’aria tua sdegnosa, avrai per amante un fabbro, goffo e sciancato? Una profonda lezione, signore, per le donne smorfiose.» Non potei fare a meno di sorridere, tanto la spiegazione mi parve tirata per i capelli.
«È una lingua tremenda, il latino, con quella sua concisione» osservai per non contraddire formalmente il mio antiquario.
E arretrai di qualche passo per meglio contemplare la statua.
«Un momento, collega!» aggiunse il signor di Peyrehorade trattenendomi per un braccio. «Non avete ancora visto tutto. C’è anche un’altra iscrizione.»
E, nel dir questo, mi aiutava ad arrampicarmi.
Mi aggrappai senza tanti complimenti al collo della Venere, con la quale cominciavo a prendere confidenza. La guardai persino un momento sotto il naso, e la trovai da vicino ancor più cattiva e più bella. Poi mi accorsi che vi erano, incisi sul braccio, alcuni caratteri in scrittura corsiva antica, come subito mi sembrò. Sforzando ben bene lo sguardo, con l’aiuto degli occhiali, sillabai quanto segue, mentre il signor di Peyrehorade ripeteva ogni parola di mano in mano che la pronunziavo, approvando col gesto e col tono della voce.
Lessi dunque:
VENERI TURBUL… EUTYCHES MYRO IMPERIO FECIT.
Dopo la parola TURBUL della prima riga, mi parve che vi fossero alcune lettere consumate; ma turbul era perfettamente leggibile.
«E significa?…» mi domandò quegli raggiante, con un sorriso malizioso, poiché era certo che non sarei così agevolmente venuto a capo di quel turbul.
«Vi è una parola che ancora non mi spiego» gli dissi; «tutto il resto è facile: Eutichio Mirone fece questa offerta a Venere per suo ordine.»
«Magnificamente. Ma di turbul, che ne fate? Che vuol dire turbul?»
«turbul mi rende molto perplesso. Cerco invano qualche noto epiteto di Venere che possa aiutarmi. Vediamo, che ne direste di turbulenta? Venere che turba, che agita… Non vi sfugge che io continuo soprattutto a considerare la sua espressione cattiva. TURBULENTA, non è poi un epiteto troppo arrischiato per Venere» aggiunsi in tono modesto, anche perché non ero io stesso molto soddisfatto della mia spiegazione.
«Venere turbolenta! Venere schiamazzatrice! Ah! credete dunque che la mia Venere sia una Venere da taverna? Nientaffatto, signore; è una Venere di buona compagnia. Ma vi voglio spiegare questo turbul… Voi però promettetemi di non divulgare la mia scoperta finché non avrò stampato la mia relazione. Che volete? ne vado orgoglioso di questo mio ritrovamento… Bisogna pur che ci lasciate qualche mannellino da spigolare anche a noi, poveri diavolacci di provincia. Siete tanto ricchi del vostro, signori sapienti di Parigi!»
Dall’alto del piedistallo ove ero tuttora appollaiato, gli promisi solennemente che mai avrei commesso l’azione indegna di rubargli la sua scoperta.
«Turbul… signore» disse avvicinandosi e abbassando la voce per tema che altri lo potesse udire «leggete TURBULNERÆ.»
«Capisco quanto prima.»
«Ascoltatemi bene. A una lega di qui, ai piedi della montagna, c’è un paese che si chiama Bulternera. Il nome deriva per corruzione dal latino turbulnera. Nulla è più comune di queste inversioni. Bulternera, signore, fu una città romana. Lo avevo sempre sospettato, ma non ne avevo mai avuto la prova. La prova, eccola. Questa Venere era la divinità topica della città di Bulternera, e questo nome, Bulternera, del quale ho dimostrato ora l’origine antica, prova una cosa ancor più curiosa, e cioè che Bulternera, prima di essere una città romana fu una città fenicia!»
Si fermò un attimo, per riprender fiato e godere della mia sorpresa. Io fui tanto bravo da rattenere una voglia matta di ridere.
«Infatti» proseguì «TURBULNERA è puro fenicio, TUR che in francese si pronunzia come se fosse scritto TOUR,… TUR e SUR, un’identica parola, vero? SUR è il nome fenicio di Tiro; non occorre che ve ne ricordi il senso, BUL, non è altro che Baal, Bâl, Bel, Bul, lievi differenze fonetiche. Per nera, trovo invece qualche difficoltà. Sono tentato di credere, in mancanza di una parola fenicia, che questa particella derivi dal greco neros, umido, acquitrinoso. Avremmo dunque una parola ibrida. Per giustificare quel neros, vi mostrerò a Bulternera gli acquitrini infetti in cui sfociano i fiumiciattoli della montagna. D’altra parte, la desinenza nera potrebbe essere stata aggiunta molto più tardi in onore di Nera Pivesuvia, moglie di Tetrico, la quale si sarebbe resa benemerita della città di Turbul. Ma, in considerazione delle pozzanghere, preferisco la derivazione etimologica da neros.»
Fiutò una presa di tabacco con aria soddisfatta.
«Ma lasciamo i Fenici, e torniamo all’iscrizione. Io dunque, traduco: A Venere Bulternerense Mirone dedica per ordine di lei questa statua, sua opera.»
Mi guardai bene dal criticare quella etimologia, ma volli provare anch’io il mio acume, e gli dissi:
«Un momento, signore. Mirone consacrò qualcosa, ma non vedo affatto che fosse questa statua.»
«Come!» esclamò. «Non era forse Mirone un famoso scultore greco? L’arte sua si sarà perpetuata nella sua stirpe: deve essere stato qualcuno dei suoi discendenti a fare questa statua. Nulla è più sicuro.»
«Ma» replicai «vedo sul braccio un forellino. Penso che sia servito a fissare qualcosa, un braccialetto, per esempio, che questo Mirone diede a Venere come offerta espiatoria. Mirone era un amante infelice. Venere era irritata contro di lui: la placò dedicandole un bracciale d’oro. Notate che fecit ha spesso l’accezione di consecravit. I due termini sono sinonimi. Ve ne mostrerei più di un esempio se avessi sottomano il Gruter o l’Orelli. È naturale che un innamorato veda Venere in sogno e si figuri che la dea gli ordini di regalare un braccialetto d’oro al suo simulacro. Mirone le consacrò dunque un braccialetto… Poi i barbari, o qualche ladro sacrilego…»
«Ah, come si vede bene che avete scritto romanzi!» esclamò il mio ospite, porgendomi la mano perché scendessi. «Nossignore, è un’opera della scuola di Mirone. Basta che osserviate il lavoro, e lo dovrete ammettere.»
È un mio precetto non contraddire mai più di tanto gli antiquari ostinati. Perciò, chinai la testa con l’aria della persona convinta dicendo:
«È un pezzo stupendo.»
«Oh, Dio!» gridò il signor di Peyrehorade «ancora un atto di vandalismo! Avranno tirato un sasso alla mia statua!»
Aveva scorto un segno bianco un po’ più sopra del seno della Venere. Una traccia simile io notai sulle dita della mano destra, e subito congetturai, o che fossero state tocche dal sasso nella sua traiettoria, o che un frammento si fosse staccato dalla pietra per l’irruenza dell’urto, rimbalzando quindi sulla mano. Narrai al mio ospite l’oltraggio di cui ero stato testimonio e il pronto castigo che ne era stato la conseguenza. Ne rise molto e, paragonando il lavorante a Diomede, gli augurò di vedere, al pari del greco eroe, tutti i suoi compagni mutati in bianchi uccelli.
La campana della colazione interruppe il nostro classico dialogare e, come il giorno prima, fui costretto a mangiar per quattro. Poi giunsero i fattori del signor di Peyrehorade, e mentr’egli dava loro udienza, il figlio mi condusse a vedere un calesse che aveva comprato a Tolosa per la fidanzata e che io, non occorre dirlo, ammirai. Entrai poi con lui nella scuderia, dove mi tenne una mezz’ora a vantarmi i suoi cavalli, a sciorinarmi la loro genealogia, ad elencarmi i premi che avevano vinto nelle corse della provincia. Infine giunse a parlarmi della sua futura moglie, a proposito di una giumenta grigia che le destinava.
«Oggi la vedremo» disse. «Non so se la troverete graziosa. Siete difficili voi, a Parigi. Ma sia qui, sia a Perpignano, tutti la trovano deliziosa. C’è di buono, poi, che è molto ricca. La sua zia di Prades le ha lasciato il suo. Davvero che sarò felice!»
Mi urtò profondamente vedere che un giovane si mostrasse più commosso della dote che dei begli occhi della sua sposina.
«V’intendete di gioielli?» continuò il signorino. «Che ve ne pare di quest’oggetto? Ecco l’anello che le darò domani.»
Nel dir questo, si sfilò dalla prima falange del dito mignolo un anellone tempestato di diamanti. Il gioiello figurava due mani avvinte; allusione che definii estremamente poetica. Era un lavoro antico; ma giudicai che lo avessero ritoccato per incastonarvi i diamanti. Internamente si leggevano queste parole in lettere gotiche: Sempr’ ab ti, ossia sempre con te.
«È un bell’anello» riconobbi; «ma questi diamanti aggiunti gli hanno tolto un po’ del suo carattere originale.» «Oh, è assai più bello così» replicò sorridendo. «Ci sono qui mille e duecento franchi di diamanti. Me l’ha dato mia madre. È un anello di famiglia antichissime… del tempo della cavalleria. Lo portò mia nonna, che lo ebbe dalla nonna sua. Dio sa quando è stato fatto.»
«A Parigi» osservai «si usa offrire un anello semplicissimo, formato generalmente di due metalli diversi, come oro e platino. Ecco, l’anello che portate a quest’altro dito sarebbe assai acconcio. Questo, invece, coi suoi diamanti e le sue mani in rilievo è tanto grosso che non si potrebbe far passare il guanto sopra.»
«Mah! La mia signora moglie si adatterà come le parrà meglio. Io credo che sarà quantunque assai contenta di possederlo. Mille e duecento franchi in dito, sono una gradevole cosa. Quest’anellino qua» aggiunse guardando con aria soddisfatta l’anello nudo e liscio che portava al dito «me lo regalò una donna, in Parigi, un giorno di martedì grasso. Ah, come me la son goduta, quando fui a Parigi, due anni fa! Quello è il luogo dove ci si diverte!…»
Ed ebbe un sospiro di rammarico.
Quel giorno dovevamo pranzare a Puygarrig, con i parenti della sposa. Salimmo in carrozza e ci recammo al castello, distante all’incirca una lega e mezzo da Ille. Fui presentato ed accolto come amico della famiglia.
Non parlerò del pranzo, né della conversazione che seguì, e alla quale io presi poca parte. Il signor Alfonso, seduto accanto alla sposa, le diceva una parola all’orecchio ogni quarto d’ora. Lei, dal canto suo, non alzava mai gli occhi, e ogni volta che il suo promesso le parlava, arrossiva modestamente, ma gli rispondeva senza impaccio.
La signorina di Puygarrig aveva diciotto anni. La sua persona, flessuosa e delicata, contrastava con la forte ossatura del robusto fidanzato. Era non soltanto bella, ma affascinante. Io ammiravo la perfetta naturalezza di tutte le sue risposte; e la sua espressione di bontà, pur non esente da una leggiera venatura di malizia, mi ricordò, mio malgrado, la Venere del mio ospite. In questo paragone che feci entro di me, mi chiesi se la maggior bellezza che bisognava pur riconoscere nella statua non dipendesse, in gran parte, dal suo piglio tigresco. Infatti l’energia, anche nelle passioni malvagie, eccita sempre in noi lo stupore e una specie di ammirazione involontaria.
Che peccato pensai allontanandomi da Puygarrig che una fanciulla così simpatica sia ricca, e ricercata per la sua dote da un uomo indegno di lei! Sulla via del ritorno a Ille, non sapendo troppo di che discorrere con la signora di Peyrehorade, alla quale, per buona creanza, stimavo di dover pur rivolgere qualche volta la parola, esclamai:
«Eccome, signora! Siete invero di mente spregiudicata in Rossiglione: fate un matrimonio di venerdì! In Parigi saremmo più superstiziosi; nessuno oserebbe ammogliarsi in quel giorno.»
«Oh Dio! non me ne parlate» rispose. «È certo che se non fosse dipeso che da me, si sarebbe scelto un altro giorno. Ma così ha voluto Peyrehorade, e abbiamo dovuto cedergli. Ne ho dispiacere, tuttavia. E se accadesse qualche disgrazia? Bisogna pure che ci sia qualche motivo, se tutti, alla fin fine, hanno paura del venerdì!»
«Venerdì!» esclamò il marito «è il giorno di Venere! Ottimo giorno per un matrimonio! Voi vedete bene, mio caro collega, che io non penso che alla mia Venere. Sull’onor mio! per riguardo a lei ho scelto il venerdì. Domani, se vorrete, prima dello sposalizio, le offriremo un piccolo sacrificio; immoleremo due colombe e, se io sapessi dove procurarmi un po’ d’incenso…»
«Vergogna, Peyrehorade!» interruppe la moglie scandalizzata al massimo. «Incensare un idolo! Sarebbe un abbominio! Che direbbero di noi nella regione?»
«Almeno» fece il signor di Peyrehorade «mi permetterai di cingerle il capo con una corona di rose e gigli:
Manibus date lilia plenis.
«Come vedete, signore, la Carta costituzionale è una parola vana. Non abbiamo libertà di culto!»
Le disposizioni per il giorno dopo furono fissate nel modo seguente. Tutti dovevano esser pronti e vestiti per le dieci in punto. Dopo la cioccolata, si sarebbe andati in carrozza a Puygarrig. Il matrimonio civile si doveva fare nel municipio del luogo, e la cerimonia religiosa nell’oratorio del castello. Poi vi sarebbe stata una piccola colazione, e dopo quella si sarebbe passato il tempo alla meno peggio fino alle sette. Quella, sarebbe stata l’ora del ritorno ad Ille, in casa del signor di Peyrehorade, dove avrebbero cenato insieme le due famiglie. Il resto s’intende agevolmente. Giacché non si poteva ballare, si era stabilito di mangiare il più possibile.
Alle otto, ero già seduto davanti alla Venere, con una matita in mano, e per la ventesima volta ricominciavo a disegnare il volto della statua senza poter riuscire a coglierne l’espressione. Il signor di Peyrehorade andava e veniva d’attorno, dandomi consigli e ripetendomi le sue etimologie fenicie; poi disponeva rose di Bengala sul piedistallo e in tono tragicomico rivolgeva alla statua voti per la coppia che si apprestava a vivere sotto il suo tetto. Verso le nove, rientrò in casa per allindarsi, nel momento stesso in cui ne usciva il signor Alfonso, attillato e stretto nell’abito nuovo, in guanti bianchi, scarpe di copale, bottoni incisi, e con una rosa all’occhiello.
«Farete il ritratto a mia moglie?» mi domandò chinandosi sul mio disegno. «Anche lei è graziosa.»
In quel momento, sul campo da giuoco di cui ho già parlato, cominciava una partita che, subito, attrasse l’attenzione del signor Alfonso. E anch’io, stanco e senza più fiducia di ritrarre come si deve quel diabolico viso, lasciai presto il mio disegno, per osservare i giocatori. Vi erano, tra questi, alcuni mulattieri spagnuoli arrivati il giorno prima. Erano aragonesi e navarresi, e quasi tutti di una bravura portentosa. Perciò, nonostante l’incoraggiamento che ricevevano dalla presenza e dai consigli del signor Alfonso, i giocatori d’Ille furono abbastanza alla svelta battuti da quei nuovi campioni. Gli spettatori nazionali erano costernati. Il signor Alfonso guardò l’orologio. Erano soltanto le nove e mezzo. Sua madre non era ancora pettinata. Non esitò più: si tolse l’abito a coda, chiese una giacca e sfidò gli spagnuoli. Io lo guardavo fare, sorridendo un po’ sorpreso.
«Bisogna sostenere l’onore del paese» disse.
Allora lo trovai veramente bello, nel trasporto della sua passione. La sua acconciatura, che poc’anzi lo assorbiva tutto, ora non contava più nulla per lui. Qualche minuto prima, non avrebbe osato volgere il capo, per il timore di scompigliare la sua cravatta. Adesso, non pensava più né ai ricci dei suoi capelli, né alla pieghettatura così precisa del suo sparato. E la sposa?… In fede mia, se fosse stato necessario, credo che avrebbe fatto rinviare il matrimonio. Lo vidi infilare in fretta un paio di sandali, rimboccarsi le maniche e, con aria sicura di sé, mettersi alla testa della squadra perdente, come Cesare quando raccolse i suoi legionari sbandati a Durazzo.
Scavalcai la siepe, scegliendomi un comodo posticino all’ombra di un olmo bianco, in modo da veder bene i due campi avversi.
Contrariamente all’aspettativa generale, il signor Alfonso non colse la prima palla. È vero che questa arrivò rasente terra, lanciata con forza sorprendente da un aragonese che pareva il capo degli spagnuoli, un uomo sulla quarantina, adusto e nervoso, alto sei piedi, dalla pelle olivastra e scura poco meno del bronzo della statua.
Il signor Alfonso gettò la racchetta a terra con furore.
«È questo maledetto anello» imprecò «che mi stringe il dito e mi fa sbagliare una palla sicura!»
Si tolse, non senza fatica, l’anello di diamanti. Mi feci avanti per tenerglielo; ma egli non mi attese, corse alla Venere, le infilò l’anello al dito mignolo, e riprese il suo posto alla testa dei giocatori d’Ille.
Era pallido, ma calmo e risoluto. Da quel momento, non commise più un solo fallo e gli spagnuoli furono completamente battuti. L’entusiasmo degli spettatori fu di per sé uno spettacolo inebriante: gli uni gettavano in aria i berretti, con grida di gioia senza fine; gli altri, gli stringevano le mani, chiamandolo l’onore del paese. Se avesse respinto un’invasione, io credo che non avrebbe ricevuto congratulazioni più vive né più sincere. Il cruccio dei vinti dava anch’esso maggior risalto alla sua vittoria.
«Faremo altre partite, amico» disse all’aragonese in tono di superiorità; «e allora vi darò alcuni punti di vantaggio.»
Mi sarebbe piaciuto più modesto, e l’umiliazione del rivale quasi mi rattristò.
Il gigante spagnuolo sentì profondamente l’insulto. Non ostante l’abbronzatura del suo volto, lo vidi impallidire sotto pelle. Guardò con aria cupa la racchetta, stringendo i denti; poi con voce soffocata, mormorò: «Me lo pagaràs».
La voce del signor di Peyrehorade turbò il trionfo del signor Alfonso. Il mio ospite, assai maravigliato di non aver trovato il figlio a dirigere l’allestimento della carrozza nuova trasecolò ancor più nel vederlo che grondava sudore, con la racchetta in pugno. Il signor Alfonso corse in casa a lavarsi il viso e le mani, infilò daccapo l’abito fiammante e le scarpe di copale, e cinque minuti dopo percorrevamo di buon trotto la strada di Puygarrig. Tutti i giocatori di pallacorda della città e un gran numero di spettatori ci seguirono con grida di gioia. E i cavalli vigorosi che ci trascinavano a malapena riuscivano a mantenersi in vantaggio su quegli intrepidi catalani.
Eravamo a Puygarrig, e il corteo stava per muoversi verso il municipio, quando il signor Alfonso si batté la mano in fronte, dicendomi sottovoce:
«Che pasticcio! Mi sono scordato dell’anello! È rimasto al dito della Venere, che il diavolo se la porti via! Almeno, non ditelo a mia madre. Forse non si accorgerà di niente.» «Potreste mandare qualcuno» suggerii.
«Uhm! il mio domestico è rimasto ad Ille, e di questi non mi fido affatto. Mille e duecento franchi di diamanti! Potrebbero indurre più di uno in tentazione. Eppoi, che si penserebbe qui della mia sventataggine? Si burlerebbero troppo di me. Mi chiamerebbero il marito della statua… Purché non me lo rubino! Fortuna che l’idolo fa paura a quei birbanti. Non osano avvicinarglisi a distanza di braccio. Mah! non fa nulla. Ho un altro anello.»
La cerimonia civile e quella religiosa si svolsero entrambe con la dovuta pompa, e Madamigella di Puygarrig ricevette l’anello di una crestaia di Parigi senza sospettare che il suo sposo le faceva il sacrificio di un pegno d’amore. Poi si andò a tavola, ove si bevette, si mangiò, si cantò perfino, e il tutto molto a lungo. Io soffrivo per la sposa della sguaiata allegria che prorompeva intorno, ma lei era padrona di sé più di quanto avessi potuto sperare, e il suo impaccio non era tardezza né posa.
Forse il coraggio ci viene nelle situazioni difficili. Quando, a Dio piacendo, il pranzo fu terminato, erano le quattro del pomeriggio. Gli uomini andarono a passeggio nel parco, che era magnifico, o si fermarono a guardare le forosette di Puygarrig, ornate a festa, che danzavano sull’erbetta davanti al castello. Trascorremmo così alcune ore. Intanto le donne si stringevano premurose attorno alla sposa, che faceva loro ammirare i doni nuziali. Poi questa cambiò abito, e notai che copriva i suoi bei capelli con una reticella e con un cappello guarnito di piume, poiché di null’altro le donne son così sollecite, come di correre, appena possibile, a provarsi le acconciature che l’uso non consente a quelle che sono ancora signorine.
Erano quasi le otto quando ci si dispose a partire per Ille. Ma prima si svolse una scena patetica. La zia di Madamigella di Puygarrig, che le faceva da madre, donna molto anziana e molto divota, non doveva venire con noi in città. Al momento della partenza, fece alla nipote un commovente fervorino sui suoi doveri di sposa, dal quale fervorino derivarono un fiume di lacrime e abbracci senza fine. Il signor di Peyrehorade paragonava quella separazione al ratto delle Sabine. Nondimeno partimmo, e durante il viaggio tutti s’ingegnarono di distrarre la sposa e di farla ridere, ma invano.
Ad Ille ci attendeva la cena, e che cena! Se la sguaiata allegria del mattino mi aveva urtato, mi urtarono ancor più le allusioni equivoche e i motteggi di cui furono oggetto lo sposo e soprattutto la sposa. Quegli, che si era allontanato per un istante prima di mettersi a tavola, era pallido e di una serietà glaciale. Ad ogni tratto beveva un certo vino vecchio delle vicine terre di Colliure, forte quasi come l’acquavite. Gli ero seduto accanto e mi credetti in obbligo di avvertirlo:
«State attento! mi dicono che il vino…»
Non so che sciocchezza gli dissi per non essere da meno degli altri convitati.
Egli mi spinse il ginocchio, e a voce bassissima mi disse:
«Quando ci alzeremo di tavola… fate che possa dirvi due parole.»
La sua espressione solenne mi sorprese. Lo guardai più attentamente e notai la strana alterazione del suo volto.
«Vi sentite poco bene?» gli chiesi.
«No.»
E ricominciò a bere.
Intanto, tra le grida e i battimani, un ragazzino di undici anni, che si era insinuato sotto la tavola, esibiva ai presenti un grazioso nastro bianco e rosa che aveva slegato or ora dalla caviglia della sposa: la cosiddetta giarrettiera. Questa fu subito tagliata a pezzettini e scompartita tra i giovani, che se ne adornarono l’occhiello, secondo una antica usanza tuttora viva presso alcune famiglie patriarcali. Fu per la sposa un’occasione di arrossire fino agli occhi… Ma la sua confusione giunse al colmo, quando il signor di Peyrehorade, dopo aver preteso il silenzio, le cantò alcuni versi catalani, a sentir lui improvvisati. Eccone il senso, se lo afferrai bene:
«Amici, che mai mi capita? – mi fa veder doppio il vino, – o qui ci sono due Veneri…»
Lo sposo volse bruscamente il capo, con un’aria di sgomento che fece ridere tutti.
«Sì» continuò il signor di Peyrehorade «sì, che ne ho due vicino: – una sbucò qual tartufo – scavando la terra scura; – l’altra dal cielo a dividere – venne, tra noi, sua cintura.»
Voleva dire: la sua giarrettiera.
«Prendi, Figlio, a tuo talento, – la romana o la nostrana. – Il briccone ha scelto il meglio, – voglio dir la catalana. – Una è nera e l’altra è bianca; – quella è gelida e ti stanca; – questa è fiamma, e avvampa e strina – tutto ciò che l’avvicina.»
Questa chiusa suscitò un tale evviva, applausi così strepitosi e risa così sonore, da farmi temere che il soffitto stesse per crollarci addosso. Nella cerchia dei commensali, non c’erano che tre facce serie: la faccia degli sposi e la mia. Avevo un gran mal di testa. Eppoi, non so perché, un matrimonio mi rattrista sempre. Quello, per giunta, mi disgustava anche un poco.
Dopo le ultime strofe, assai libere, debbo pur dirlo, cantate dal vicesindaco, passammo nel salotto per goderci la vista del ritiro della sposa, la quale stava per essere condotta nella sua camera. Infatti era quasi mezzanotte.
Il signor Alfonso mi trasse nel vano di una finestra e mi disse, distogliendo lo sguardo:
«Vi farete burla di me… Ma non so ciò che mi succede… sono stregato, che il diavolo mi si porti!»
La mia prima supposizione fu che paventasse qualche infortunio, sul genere di quelli di cui fanno cenno Montaigne e la signora di Sévigné: Tutto l’impero amoroso è pieno di tragici casi…, con quel che segue. E tra me pensai: Credevo che siffatti incidenti non capitassero che alle persone di un certo intelletto.
«Avete bevuto troppo vino di Colliure, caro signor Alfonso» gli dissi. «Vi avevo messo in guardia.»
«Sì, può darsi. Ma si tratta di una cosa molto più terribile.»
Parlava con voce sconnessa. Lo credetti ubriaco fradicio. «Sapete, il mio anello?» proseguì dopo un momento di silenzio.
«Ebbene? Lo hanno rubato?»
«No.»
«Allora, lo avete voi?»
«No… io… io non riesco a toglierlo dal dito di quella Venere d’inferno!»
«Via; non avrete tirato abbastanza forte.»
«Altro che… Ma la Venere… ha stretto il dito.»
Mi guardò fisso, con aria smarrita, appoggiandosi alla maniglia della finestra per non cadere.
«Che favola!» osservai. «Avete troppo spinto l’anello. Domani lo riavrete con le tenaglie. Attento, però, a non danneggiare la statua.»
«No, vi dico. Il dito della Venere è rattratto, piegato. Stringe la mano, capite? Apparentemente, è mia moglie, poiché le ho dato il mio anello… Non lo vuol più restituire.»
Provai un brivido improvviso, e mi venne, per un attimo, la pelle d’oca. Poi, con un suo gran sospiro, mi giunse una vampata che appestava di vino, ed ogni emozione scomparve. Questo sciagurato pensai è completamente ubriaco. «Siete un archeologo, signore» soggiunse lo sposo novello in tono lamentevole. «Conoscete quella razza di statue… C’è forse qualche molla, qualche diavoleria che io non conosco… Se andaste a vedere?»
«Volentieri» assentii. «Venite con me.»
«No, preferisco che andiate solo.»
Uscii dal salotto.
Il tempo era cambiato mentre cenavamo, e la pioggia cominciava a cadere copiosa. Stavo per chiedere un ombrello, quando una considerazione mi trattenne. Sarei stato un bel pazzo, andando ad accertarmi di ciò che mi aveva detto un uomo sborniato! Chissà, d’altronde, che questi non volesse anche giocarmi qualche brutto tiro, per dare motivo di spasso a quegli onesti provinciali. II meno che mi potesse capitare, era d’inzupparmi sino alle midolla e di buscarmi un buon raffreddore.
Dalla porta, diedi una sbirciata alla statua grondante acqua, e me ne salii nella mia camera, senza più passare per il salotto. Mi coricai; ma il sonno fu lungo a venire. Tutti gli episodi della giornata si riaffacciavano alla mia mente. Pensavo a quella fanciulla, così bella e pura, data in pasto ad un beone brutale. Che affare odioso pensai un matrimonio di convenienza! Un sindaco cinge la sciarpa tricolore, un prete la stola, ed ecco la più compita giovinetta del mondo consegnata al Minotauro! In un momento simile, che due amanti pagherebbero al prezzo della loro esistenza, che cosa mai possono dirsi due persone che non si amano? Potrà mai una donna amare colui che una volta le apparve volgare? Le prime impressioni non si cancellano e questo signor Alfonso si meriterà bene di essere odiato, come sono convinto che egli sarà… Durante il mio soliloquio, che abbrevio di molto, mi era giunto il rumore di un vivo passeggiare su e giù per la casa, di usci che si aprivano e si chiudevano, di veicoli che partivano. Quindi, mi era sembrato di udire i passi leggieri di parecchie donne dirette verso l’estremità del corridoio opposta alla mia camera: probabilmente il corteo della sposa, che veniva accompagnata a letto. Poi quella gente era scesa di nuovo. La porta della giovine signora di Peyrehorade si era chiusa. Quale turbamento e quale disagio pensai deve provare quella povera figliuola! Mi rivoltai nel letto, di pessimo umore. È sciocca la parte che tocca a uno scapolo, nella casa ove si stia compiendo un matrimonio.
Regnava da un po’ di tempo il silenzio, quando venne turbato da passi pesanti che salivano le scale. I gradini di legno scricchiolarono forte.
«Che tanghero!» esclamai. «Scommetto che ruzzolerà per le scale.»
Tutto ritornò quieto. Presi un libro per cambiare il corso delle mie idee. Era una statistica della provincia, arricchita di una relazione del signor di Peyrehorade sui monumenti druidici del circondario di Prades. Alla terza pagina mi assopii.
Ebbi un sonno cattivo e mi svegliai parecchie volte. Potevano essere le cinque del mattino, ed ero già desto da oltre venti minuti, quando il gallo cantò. Stava per farsi giorno. Udii allora distintamente gli stessi passi pesanti, lo stesso scricchiolar delle scale che avevo inteso prima di addormentarmi. Trovai il fatto singolare. Mi sforzai, sbadigliando, d’indovinare perché il signor Alfonso si alzasse così presto; ma non riuscivo ad immaginare nessun motivo plausibile. Stavo per richiudere gli occhi, allorché la mia attenzione fu di nuovo sollecitata da uno scalpicciare strano, cui presto si unirono lo squillar dei campanelli e il fracasso delle porte che si aprivano precipitosamente. Poi avvertii un gridare confuso.
Il mio sbornione avrà appiccato il fuoco in qualche parte pensai saltando giù dal letto.
Mi vestii in fretta e uscii nel corridoio. Dal capo opposto partivano urli e lamenti, e una voce straziante dominava tutte le altre: «Figlio mio! Figlio mio!». Era chiaro che una disgrazia era capitata al signor Alfonso.
Corsi alla camera nuziale. Era piena di gente. Il primo spettacolo che mi colpì fu quello del giovane tuttora semivestito, disteso per traverso sul letto, la cui sponda era spezzata. Era livido, esanime. La madre, vicino a lui, piangeva e gridava. Il signor di Peyrehorade si affannava a strofinargli le tempie con acqua di Colonia o gli metteva sali sotto il naso. Ahimè! da parecchio il figlio era morto.
Sopra un divano, all’altro capo della stanza, stava la sposa, in preda a orribili convulsioni. Urlava suoni inarticolati, e due robuste fantesche duravano gran fatica a trattenerla.
«Mio Dio» esclamai «che è mai successo?»
Mi avvicinai al letto e sollevai il corpo dello sventurato giovine. Era già rigido e freddo. I denti stretti e il volto cianotico esprimevano i più orrendi spasimi. Era abbastanza chiaro che la morte era stata violenta, e l’agonia terribile. Sui panni di lui non si vedeva tuttavia nessuna traccia di sangue. Tirai la camicia e vidi sul petto un’impronta livida che si prolungava sulle costole e nella schiena. Si sarebbe detto che fosse rimasto soffocato in un cerchio di ferro. Mi venne sotto il piede qualcosa di duro, che giaceva sul tappeto. Mi chinai e vidi l’anello di diamanti.
Trascinai nella loro camera il signor di Peyrehorade e la signora. Poi vi feci portare la sposa.
«Avete ancora una figlia» dissi. «A lei debbono volgersi le vostre cure.»
Quindi, li lasciai soli.
Non mi pareva dubbio che il signor Alfonso fosse rimasto vittima di un assassinio, i cui autori avevano trovato il modo d’introdursi quella notte nella camera della sposa. Le lividure sul petto e la loro direzione circolare mi rendevano tuttavia assai perplesso. Infatti, né un bastone, né una sbarra di ferro sarebbero giovati a produrle. Ad un tratto, mi ricordai di aver sentito dire che, a Valenza, certi sicari si servivano di lunghi sacchi di cuoio tubolari, riempiti di sabbia fine, per accoppare le persone che erano incaricati di sopprimere. Subito, mi tornarono a mente il mulattiere aragonese e la sua minaccia, per quanto osassi appena concepire una vendetta così tremenda per una piccola canzonatura.
Giravo per la casa, cercando dovunque segni di scasso, senza trovarne, tuttavia, in nessun punto. Scesi in giardino, per vedere se gli assassini si fossero potuti introdurre da quella parte; ma non trovai nessun indizio sicuro. La pioggia del giorno prima aveva, d’altronde, talmente inzuppato il terreno, che questo non avrebbe potuto conservare nessuna impronta abbastanza nitida. Nondimeno osservai alcune tracce di passi profondamente stampate in due opposte direzioni, ma su di una stessa linea, che partiva dall’angolo della siepe attigua al campo da giuoco e giungeva sino alla porta di casa. Potevano essere stati i passi del signor Alfonso, quando era andato a cercare l’anello, rimasto al dito della statua. D’altro lato, la siepe in questo punto era meno densa, e proprio qui dovevano averla scavalcata gli assassini.
Dopo essere passato e ripassato davanti alla dea, mi fermai per un attimo a guardarla. Stavolta, lo confesserò, non potei contemplarne senza terrore l’aspetto di malvagia ironia. Con il cervello ancora pieno delle scene orribili di cui ero stato testimone, mi sembrò di vedere una divinità infernale giubilante per la sventura che aveva colpito quella casa.
Mi ritirai nella mia camera e vi rimasi fino a mezzogiorno. Allora uscii e chiesi notizia dei miei ospiti. Si erano un po’ calmati. Madamigella di Puygarrig, dovrei dire la vedova del signor Alfonso, aveva ripreso i sensi. Aveva persino parlato al procuratore del re di Perpignano in visita di ufficio ad Ille, e il magistrato aveva raccolto la sua deposizione. Questi mi chiese anche la mia. Gli riferii ciò che sapevo, e non gli nascosi i miei sospetti sul conto del mulattiere aragonese. Ordine fu dato di fermar costui immediatamente.
«Avete saputo qualcosa dalla vedova del signor Alfonso?» domandai al procuratore del re, dopo scritta e firmata la mia deposizione.
«Quella sventurata giovine è diventata pazza» mi disse sorridendo tristemente. «Pazza! Interamente pazza! Sentite che cosa racconta:
«Era coricata» dice «da pochi minuti, con le tendine del letto abbassate e chiuse, quando l’uscio della stanza si aprì e qualcuno entrò. In quel momento la sposa era dalla parte del muro, voltata verso la parete. Non fece alcun movimento, convinta che fosse il marito. Un istante dopo, il letto diede uno schianto, come se lo avessero caricato di un peso enorme. Ebbe molta paura, ma non osò rivoltar la testa. Cinque minuti, dieci minuti forse (non ha un’esatta nozione del tempo) trascorsero a quel modo. Poi ebbe un movimento involontario, oppure si mosse la persona che era nel letto; sentì il contatto di una cosa fredda come il ghiaccio, son parole sue. Si nascose addirittura nel corsello, tra letto e muro, con un tremore di tutte le membra.
Di lì a poco la porta si aprì una seconda volta, ed entrò qualcuno che disse: Buonasera, mogliettina!. Subito dopo, furono tirate le tendine. Udì un grido soffocato. La persona che stava accanto a lei, nel letto, si alzò a sedere e parve allungare le braccia in avanti. Allora volse il capo… e vide, dice, il marito in ginocchio vicino al letto, la testa all’altezza del guanciale, tra le braccia di una specie di gigante verdastro, che lo stringeva con forza. Dice, e me lo ha ripetuto venti volte, poveretta!… dice di aver riconosciuto… indovinatelo un poco… la Venere di bronzo, la statua del signor di Peyrehorade… Da quando è qui, tutti ne vanno fantasticando… Ma tomo al racconto della povera demente. A quella vista, smarrì la conoscenza, e forse che da qualche momento aveva anche smarrito la ragione. Non c’è modo che sappia dire quanto sia durato il suo svenimento. Tornata in sé, vide ancora il fantasma, o la statua, come si ostina a dire, ferma, con le gambe e la parte inferiore del corpo nel letto, il busto e le braccia protesi, e tra le braccia il marito esanime. Un gallo cantò. Allora la statua uscì dal letto, lasciò cadere il cadavere e scomparve. Ella si attaccò al campanello, e il resto vi è noto.»
Venne introdotto lo spagnuolo. Era calmo e si difese con molta padronanza di sé e con molta presenza di spirito. Invero, non negò di aver manifestato il proponimento che avevo inteso, ma nella spiegazione che ne diede pretese di non aver voluto dire altro, se non che, una volta riposato, il giorno dopo, avrebbe vinto una partita di pallacorda contro il suo vincitore. Ricordo che aggiunse:
«Un aragonese, quando ha ricevuto un oltraggio, non aspetta il giorno seguente per vendicarsi. Se avessi creduto che il signor Alfonso mi volesse offendere, lo avrei accoltellato lì per lì.»
Si confrontarono le sue scarpe con le impronte dei passi nel giardino, e risultarono molto più grandi.
Infine, l’albergatore presso cui aveva preso alloggio assicurò che l’uomo aveva passato la notte intera a strofinare e medicare un suo mulo malato.
L’aragonese, d’altronde, era uomo incensurato, conosciutissimo nella regione, dove si recava tutti gli anni per il suo commercio. Perciò lo rilasciarono con le debite scuse.
Stavo per dimenticare la deposizione di un domestico che aveva visto per ultimo il signor Alfonso vivo, e più precisamente nel momento in cui si approntava a salire dalla moglie. Il signor Alfonso aveva chiamato quell’uomo e gli aveva chiesto con aria inquieta se sapeva dove fossi io. Il domestico rispose di non avermi visto. Allora il signor Alfonso tirò un sospiro e stette un minuto e più senza aprir bocca. Poi disse: E va bene! il diavolo se lo sarà portato anche lui!.
Domandai a quell’uomo se il signor Alfonso, quando aveva parlato con lui, avesse l’anello di diamanti. Il servo esitò a rispondere. Infine disse che credeva di no, e che ad ogni modo non ci aveva fatto caso.
Ma poi si riprese, aggiungendo:
«Se avesse avuto quell’anello al dito, lo avrei indubbiamente notato, poiché credevo che l’avesse dato alla signora.»
Anch’io, nell’interrogare quell’uomo, provavo la mia piccola parte del terrore superstizioso che la deposizione della vedova del signor Alfonso aveva diffuso per tutta la casa. Ma il procuratore del re mi guardò sorridendo, ed ebbi l’accortezza di non insistere.
Poche ore dopo il funerale del signor Alfonso, mi apparecchiai a lasciare Ille. La carrozza del signor di Peyrehorade doveva condurmi a Perpignano. Non ostante la debolezza delle sue condizioni, il povero vecchio mi volle accompagnare sino al cancello del giardino, che attraversammo il silenzio, lui trascinandosi a stento, appoggiato al mio braccio. Al momento di separarci, gettai un ultimo sguardo alla Venere. Benché il mio ospite non condividesse le paure e gli odii che questa ispirava ad una parte della sua famiglia, prevedevo che si sarebbe voluto disfare di un oggetto che, altrimenti, gli avrebbe ricordato ognora quella orribile sciagura. La mia intenzione era di indurlo a collocarla in un museo. Esitavo tuttavia ad entrare in discorso, quando il signor di Peyrehorade volse inconsciamente la testa nella stessa direzione in cui mi vedeva guardar fisso. Adocchiò la statua, e subito si sciolse in lacrime. Io lo abbracciai, e non osai più dirgli una sola parola. Così, salii in carrozza. Né ho più saputo, dopo la mia partenza, se qualche ulteriore notizia sia intervenuta a chiarire il mistero di quella catastrofe.
Il signor di Peyrehorade morì pochi mesi dopo il figlio. Col suo testamento lasciò a me i suoi manoscritti, che forse un giorno pubblicherò. Non vi ho tuttavia trovato il rapporto sulle iscrizioni della Venere.
P. S. Il mio amico, sig. di P., mi scrive ora da Perpignano che la statua non esiste più. Prima cura della signora di Peyrehorade, dopo la morte del marito, fu di mandarla in fonderia, sicché oggi serve alla chiesa d’Ille sotto la nuova forma di una campana. Ma, soggiunge nella sua lettera il sig. di P., sembra che un maleficio persegua coloro che detengono questo bronzo. Da quando la nuova campana risuona ad Ille, le vigne son gelate due volte.
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