(…) Ma quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’edificio immenso del ricordo.
Marcel Proust fa del ricordo e della memoria un immenso magazzino di emozioni, e la sua più grande fonte d’ispirazione, nonché praticamente unica nella storia di Alla ricerca del tempo perduto. Il protagonista difetta di un talento e di un’ispirazione alla scrittura che infine gli giunge quasi casualmente da un’impressione sensibile, che fa scattare in lui la memoria involontaria. Si tratta di un meccanismo irrazionale e, per così dire, sopito: essa è risvegliata da una percezione sensoriale che rimanda nel nostro inconscio ad un’emozione già provata, la quale riaffiora nel presente sovrapponendosi ad esso, compenetrandolo. Proust stesso in un’intervista rilasciata a le Temps per pubblicizzare l’uscita di un suo libro, delinea la “sua” memoria involontaria:
Per me la memoria volontaria, che è soprattutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dona del passato che facce prive di verità; ma quando un odore, un sapore ritrovati in circostanze diversissime risvegliano in noi, nostro malgrado, il passato, noi sentiamo quanto questo era diverso da come credevamo di ricordarlo, e che la nostra memoria volontaria dipingeva – come i cattivi pittori – con dei colori sprovvisti di verità.
Vicinissima, anche a livello di scelta di parole, la teoria di Bergson: il passato riaffiora compenetrando il presente, producendo così in noi un ponte effettivo tra l’adesso e il momento passato che percepiamo come reale. In questo modo, la durata reale è colta come unica temporalità possibile della nostra interiorità e la nostra interiorità come unico suo contenitore possibile.
In un passaggio celebre de La Strada di Swann, primo dei sette romanzi che compongono Alla ricerca del tempo perduto, enorme opera dell’autore francese, il passato riaffiora alla mente del protagonista risvegliato dal sapore di un biscotto intinto in una tazza di tè. L’emozione così forte e veritiera provata dal personaggio gli fa dimenticare la brevità della vita e le sue sofferenze, lo pone in una condizione di benessere reale senza effettivamente farne intendere una causa:
Avevo cessato di considerarmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era potuta venire quella gioia violenta?
Poteva un semplice gesto, probabilmente quotidiano, risvegliare in lui in quel momento tanta passione?
È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me, si risponde l’autore.
La ricerca della verità, di quella felicità perduta in un passato-abisso (per usare le parole di Seneca) non è irraggiungibile: si può fare luce nell’abisso puntando la luce su noi stessi, consci di essere noi stessi il paese tenebroso in cui cercare spiritualmente (intendiamo lo spirito come coscienza individuale), più che intellettualmente, la verità. Ma questo processo, diversamente da come appare, è lungi dall’investire l’uomo di una posizione predominante o decisionale sul Tempo. Proust fa vivere il meccanismo che innesca la memoria involontaria di percezioni, per così dire, casuali nell’enorme ammonto di dati sensoriali che riceviamo ogni secondo, e quindi più o meno radi ma senza dubbio non totalmente controllabili. L’intelligenza secondo Proust non ha nessun ruolo nel processo di memoria involontaria, ed è lo stesso autore a precisarlo, ammettendo che spesso l’azione distruttrice del tempo seppellisca dei frammenti di vita passata:
ma a volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davano sul nulla; e nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercata invano cent’anni, urtiamo inavvertitamente ed essa s’apre.
Tutt’altro che in direzione deterministica, Proust pone all’interno della partita l’elemento della casualità, concetto che andava consolidandosi anche nel mondo degli scienziati di quel periodo (e tutt’ora al centro del dibattito), innescato precedentemente da Darwin che ne aveva (forse controvoglia) ammesso l’esistenza all’interno delle sue più tardive versioni della teoria evoluzionistica. Questo tema necessiterebbe di un altro approfondimento, ma alla luce di questa “nuova” prospettiva, possiamo dire che in qualche modo il Tempo torna ad occupare una posizione di dominio sull’uomo, il quale, in una certa misura, dipende da esso (e con esso dal caso) nella sua propria personale ricerca della verità.
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