Il teatro ritrae l’uomo a sé stesso. Gli attori agiscono per conto del pubblico per mostrare qualcosa di sé. Anche nello spettacolo più blando, il pubblico è chiamato a una condizione insolita, lontano dalla vita ordinaria, in cui la sua empatia dev’essere temperata con il distacco, la sua identificazione con l’osservazione. Se il teatro deve insegnare, allora deve toccare e risvegliare ciò che abbiamo visto in noi stessi e negli altri, soprattutto nell’osservarci nella nostra drammatica esistenza, fatta di imprevisti, conflitti, pesi e crisi nelle proprie scelte. Il legame tra l’osservazione di noi stessi e l’osservazione degli altri è la chiave del carattere significativo del teatro. Si basa sulle incertezze della comunicazione e sulla consapevolezza di un’intera azione. Nello stato di vita ordinario, le incertezze sono oscurate dall’emozione, e la consapevolezza dell’insieme è frammentata dal pensiero. Il teatro va oltre la prospettiva solitaria di una mente; ci tocca nel crudo, perché ha luogo ORA. Ora è il momento dell’osservazione di sé; non c’è altro. Intrattenimento e insegnamento non sono necessariamente opposti, anche se il primo è pensato per perdersi e il secondo per trovarsi: per trovarsi bisogna prima perdersi. Ecco perché la struttura di un’opera teatrale ha bisogno di scavalcare la struttura condizionata del pubblico, per porre ai membri maturi del pubblico un problema che non possono risolvere se non entrando in ciò che viene loro mostrato e risvegliato. Non c’è un bisogno intrinseco di dispositivi grossolanamente drammatici come la rappresentazione di odio, omicidio, tradimento, o eventi soprannaturali. Il materiale della vita ordinaria può essere sufficiente se nel pubblico si attiva un dilemma centrale, qualcosa di abbastanza forte da portare in superficie questioni che sono state sepolte nel regno di ciò che è irrilevante e inesplicabile. Ma come può un’opera far emergere qualcosa dell’enigma della vita umana, dipendendo non solo dalla parola detta, dal pensiero articolato o dal sentimento, ma anche dall’osservazione inespressa di un momento di coscienza? C’è mai stata in tutta la storia del teatro una scena in cui un personaggio ha proclamato: Sono sveglio! Adesso vedo cosa sta succedendo. Questa è la verità. Forse si potrebbero trovare alcuni esempi; ma in questi, senza dubbio, sperimenteremmo semplicemente la manifestazione di una realizzazione privata individuale vincolata dalle stesse leggi di relazione e limitazione dalle quali è costruito l’intero dramma. Altrimenti, la recitazione CESSEREBBE DI ESISTERE a quel punto. Dio avrebbe parlato. In un certo senso è così in certi punti delle tragedie greche, nel Peer Gynt di Henrik Ibsen, nel Faust di Goethe, e così via. A quel punto la recitazione cessa di essere una recitazione. Potremmo assistere a un dialogo metafisico, ma non a uno spettacolo teatrale. La conseguenza archetipa di un’esplosione di coscienza sulla scena è il resto è silenzio di Amleto. La parola non detta di tutte le commedie è la consapevolezza degli attori, dei personaggi e del pubblico. Per estendere un punto, potremmo dire che ciò che segue dall’emergere della coscienza è il comico. La tragedia riposa sulla mancanza di coscienza e, nella sua forma più alta, sulla coscienza che si è innalzata attraverso la sofferenza.
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