Tutti avvertiamo un po’ di disaggio al pensiero di aver un antenato in comune con le scimmie. Niente di più imbarazzante di un parente scomodo. I nostri parenti più stretti, i scimpanzé, si comportano, spesso, in modo inappropriato e forse è comprensibile se vogliamo prendere le distanze da loro. La tradizione ci racconta che siamo stati creati separatamente da tutti gli altri animali ed è facile capire perché questa idea ci fa una certa presa: ci fa sentire speciali.
Se dicessi che siamo imparentati con gli alberi? Cosa ne pensereste?
Nel filamento del DNA di una quercia – immaginandolo come un codice a barre – le istruzioni scritte nel codice della vita dicono all’albero come metabolizzare lo zucchero. Confrontandolo con la stessa sezione del DNA umano si evince che entrambi sono cugini alla lontana perché eseguono lo stesso meccanismo biochimico; comunque ce ne sono altri illustri parenti, per esempio, andando a ritroso nel tempo si scopre che abbiamo degli antenati in comune con le farfalle, il lupo grigio, i funghi, gli squali, i batteri, i passeri. Che grande famiglia!
Altre parti del codice a barre variano da specie a specie e questo che fa la differenza tra una civetta e un polpo; a meno che non abbiate un gemello identico non c’è nessun altro nell’universo che ha lo stesso DNA. Nelle altre specie, le differenze genetiche forniscono materiale utile alla selezione naturale: ambiente seleziona i geni che debbono sopravvivere e moltiplicarsi. Se consideriamo le istruzioni genetiche per le funzioni vitali più basilari come l’assimilazione degli zuccheri, siamo quasi identici ad altre specie.
Questo perché tali funzioni sono così fondamentali si sono evolute prima che le varie forme di vita si differenziassero… Questo è l’albero della vita: la scienza ci ha permesso di ricostruire l’albero genealogico di tutti gli esseri viventi della Terra. I parenti geneticamente più stretti occupano lo stesso ramo; mentre i cugini alla lontana sono distanti. Ogni rametto è una specie vivente e il tronco dell’albero rappresenta gli antenati comuni ad ogni forma di vita. La materia alla base della vita è così malleabile che una volta comparsa, l’ambiente l’ha modellata in una enorme varietà di forme, dieci mile volte più numerose di questo piccolo campione di quercia; ad esempio, i biologi hanno catalogato mezzo milione di scarabei diversi, per non parlare delle innumerevoli varietà di batteri. Ci sono diversi milioni di specie viventi, di animali e piante, molte delle quali ancora sconosciute alla scienza. Ancora dobbiamo scoprire la maggior parte delle forme di vita. Quanta varietà e diversità in un pianeta così piccolo!
L’albero della vita estende i suoi rami in tutte le direzioni, trovando e sfruttando ciò che funziona, creando nuovi habitat e opportunità per nuove creature. L’albero della vita ha tre miliardi e mezzo di anni; un tempo lunghissimo, in cui ha sviluppato un immenso repertorio di strategie. L’evoluzione può far sì che un animale sembri una pianta, ma servono migliaia di generazioni per sviluppare un sofisticato travestimento che inganni i predatori spingendoli a cercare il cibo altrove; oppure può mascherare una pianta da animale, facendoli sviluppare dei fiori che somigliano a una vespa, come fanno le orchidee per ingannare le vere vespe e farsi impollinare. Questo è il potere sorprendente e mutevole della selezione naturale.
Tra i rami stretti e intricati del grande albero della vita noi siamo in un rametto tra innumerevoli milioni. La scienza rivela che tutta la vita sulla terra ha un’unica origine.
Darwin ha scoperto il vero meccanismo dell’evoluzione. All’epoca, l’opinione prevalente era che ogni forma di vita così diverse e complesse, fossero la conseguenza di un disegno intelligente che aveva creato separatamente ogn’una di questi milioni di specie diverse. Si pensava che gli esseri viventi fossero troppo complessi per essere il frutto di una evoluzione non guidata.
Pensiamo all’occhio umano, un capolavoro di complessità. Ci vogliono la cornea, l’iride, il cristallino, la retina, i nervi ottici, i muscoli e l’elaborata rete neuronale del cervello per interpretare le immagini. È più complicato di qualsiasi strumento mai creato dalla mente umana, pertanto si credeva che l’occhio umano non potesse essere il risultato di una evoluzione casuale. Per scoprire s’è vero dobbiamo viaggiare a ritroso nel tempo fino ad un’epoca in cui non c’erano occhi per vedere.
Agli albori della Terra gli esseri viventi erano ciechi. Quattro miliardi di anni fa tutto era buio per qualsiasi forma di vita, fino a ché, qualche centinaio di milioni di anni dopo si verifica un microscopio errore di copia del DNA di un batterio. Questa mutazione casuale fornisce a quel microbo una proteina capace di assorbire la luce solare. I batteri fotosensibili stavano guadagnando terreno. Le mutazioni continuano a ripetersi in modo casuale, come avviene per qualsiasi popolazione di esseri viventi. Un’altra mutazione consente a un batterio scuro di fuggire dalla luce intensa e come risultato cominciano a percepire il giorno e la notte. I batteri in grado di distinguere la luce dal buio hanno un vantaggio su quelli ancora cechi perché durante il giorno i penetranti raggi ultravioletti danneggiano il DNA. I batteri fotosensibili fuggono la luce intensa per scambiarsi il DNA al sicuro al buio e sopravvive un numero maggiore rispetto ai batteri che restano in superficie. Col tempo, queste proteine fotosensibili, si concentrano in un punto pigmentato del più complesso organismo unicellulare: ciò rende possibile trovare la luce; uno schiacciante vantaggio per un organismo che sfrutta il Sole per sintetizzare il nutrimento.
I platelminti – o vermi piatti – organismi multicellulari, cominciano a sviluppare una fossetta nella parte pigmentata; questa piccola depressione permette all’animale di separare la luce dall’ombra e distinguere, in maniera approssimativa, ciò che lo circonda, comprese le eventuali prede o i potenziali predatori. Un eccezionale vantaggio! Più tardi, i contorni si fanno più chiari; la fossetta diventa più profonda e si trasforma in una sacca con un piccolo foro. In migliaia di generazioni, la selezione naturale porta lentamente alla formazione dell’occhio. L’apertura si contrae, diventando un piccolo foro, protetto da una membrana trasparente; poca luce può entrare nella fessura ma è sufficiente a proiettare la fioca immagine sulla superficie sensibile interna, ciò permette di mettere a fuoco; un foro più ampio avrebbe lasciato entrare più luce creando un’immagine più chiara ma anche più sfuocata. Questo sviluppo scatena l’equivalente evolutivo di una corsa agli armamenti. È una gara per accaparrasi vantaggi utili per sopravvivere; ma ecco che si evolve una nuova caratteristica nell’occhio primordiale: una lente, il cristallino, che garantisce messa a fuoco e brillantezza. E negli occhi dei pesci primitivi, la gelatina trasparente vicina alla fessura, si trasforma in cristallino, allo stesso tempo, la fessura si allarga per lasciar passare più luce. Ora i pesci possono vedere nitidamente sia da vicino che da lontano, ma poi, accade una cosa terribile quando la luce deve essere percepita in un altro mezzo fuori dall’acqua. In principio, gli occhi si sono evoluti per vedere in acqua; il fluido acquoso presente in quei occhi elimina in maniera netta la distorsione dell’effetto curvante. Ma negli animali che vivono sulla Terra, la luce trasmette le immagini dall’aria asciutta agli occhi pieni di liquido e ciò fa curvare i raggi di luce formando immagini distorte.
Quando i nostri antenati anfibi lasciano l’acqua per la terra, i loro occhi, perfettamente evoluti per vedere in acqua, non funzionano a contatto con l’aria. D’allora non abbiamo mai avuto una vista così buona. Pensiamo ai nostri occhi come una macchina perfetta ma 375 milioni di anni dopo non riusciamo a vedere cosa abbiamo davanti al naso o a distinguere i dettagli nella penombra, come fanno i pesci. Una volta lasciata l’acqua, perché la natura non ha ricominciato tutto da capo creando nuovi occhi perfetti per vedere a contatto con l’aria? La natura non funziona così! L’evoluzione rimodella strutture esistenti nel corso di generazioni adattandoli a piccoli passi. Non torna al tavolo di disegno ripartendo da zero. A ogni stadio di questo sviluppo, l’occhio si evolve in modo da fornire un vantaggio selettivo per la sopravvivenza e tra gli occhi degli animali di oggi possiamo ritrovare vari stadi di questo processo e tutti funzionanti.
La complessità dell’occhio umano, non è un ostacolo all’evoluzione per selezione naturale, anzi, l’occhio, e ogni forma di vita, non avrebbe alcun senso senza l’evoluzione. Per alcuni, l”evoluzione è solo una teoria, una semplice opinione. Ma la teoria dell’evoluzione così come quella della gravità è un dato scientifico. L’evoluzione è avvenuta realmente. Il nostro legame con le altre forme di vita sulla Terra non è solo un dato di fatto, ma a mio avviso è anche una profonda esperienza spirituale.
L’evoluzione agisce alla cieca, quindi non può anticipare o adattarsi ad eventi catastrofici; così, l’albero della vita ha dei rami spezzati. Molti si sono rotti durante le cinque peggiori catastrofi mai verificatosi sulla Terra.
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