Il mercante greco immerse le mani avide in quell’acqua che gliele tinse sino ai polsi, come il liquido bollente nella vasca del tintore, ma non riuscì a impadronirsi degli zaffiri che galleggiavano come flottiglie di nautili su quelle acque più dense di quelle dei mari. Allora la giovane donna disfece le sue lunghe trecce e calò nell’acqua i capelli nei quali gli zaffiri si impigliarono come nelle maglie setose di una rete scura. Chiamò dapprima il mercante olandese, che se ne riempì le brache, e il mercante della Turenna, che ne colmò il suo berretto. Il mercante greco ne imbottì un otre che portava in spalla, e il mercante castigliano si sfilò dalle mani umide di sudore i guanti di cuoio e da quel momento se li portò sospesi al collo come mani tagliate. Quando fu la volta del mercante olandese, il lago non conteneva più zaffiri, e la giovane donna si tolse il ciondolo di vetro, ordinandogli a segni di metterselo sul cuore.
Strisciarono fuori dalla caverna, e la giovane donna chiese al mercante irlandese di aiutarla a rotolare un pietrone per tappare l’accesso. Quindi si fece un sigillo con un pò di argilla e un filo dei suoi capelli. La strada parve ai mercanti più lunga che al mattino e il mercante castigliano che cominciava a soffrire per via delle gambe avvelenate, traballava bestemmiando il nome della madre di Dio. Il mercante olandese, che aveva fame, tentò di spiccare le zucchine blu dei fichi maturi, ma centinaia di api confitte nel loro saporito spessore gli infissero a fondo i pungiglioni nella gola e nelle mani.
Giunti ai piedi delle mura, i mercanti compirono una deviazione per scansare le sentinelle. Si diressero senza rumore al porto dei pescatori di sirene, che era sempre deserto poichè da lungo tempo in quel paese non si pescavano più sirene. Il loro battello si dondolava mollemente sull’acqua, attaccato a un alluce di bronzo, unico resto di una statua colossale eretta in onore di un dio di cui nessuno sapeva più il nome. Sul molo, la giovane donna volle prendere congedo dai mercanti portandosi le mani al cuore, ma il greco la afferrò per i polsi e la trascinò sulla barca, poiché aveva in animo di venderla al principe veneziano di Negroponte che amava le donne minorate o lese. La sordomuta si lasciò portar via senza opporre resistenza, e le sue lacrime cadendo sulle tavole del ponte si tramutavano in acque marine, ed ecco allora i suoi carnefici ingegnarsi a farla piangere.
La denudarono e la legarono all’albero maestro. Il corpo della giovane era talmente bianco da fungere da fanale al battello natante nella chiara notte delle Isole. Quando ebbero terminato la loro partita di shangai, i mercanti scesero in cabina per dormire. All’alba l’olandese, tormentato dal desiderio, salì sul ponte per far violenza alla prigioniera. Ma essa era scomparsa; i lacci vuoti pendevano dal nero tronco dell’albero come una cintura troppo larga, e null’altro restava, nel punto dove s’erano posati i piedi sottili e dolci della giovane, che un mucchietto di erbe aromatiche da cui si levava un fumo azzurro.
Nei giorni che seguirono, un’accalmia regnò sul mare e i raggi del sole che cadevano su quella coltre color delle alghe producevano il rumore del ferro scaldato a bianco d’un subito tuffato nell’acqua fredda. Le gambe in cancrena del mercante castigliano erano blu come le montagne che si scorgevano all’orizzonte, e rivoli di sanie colavano in mare dalle tavole del ponte. Quando le sue sofferenze divennero intollerabili, il mercante estrasse dalla cintura una larga daga triangolare e tagliò all’altezza delle cosce le sue due gambe intossicate. Sfinito, morì all’alba, non senza prima aver legato i suoi zaffiri al mercante di Basilea, poiché era il suo mortale nemico.
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