Rapporto senza dipendenza
L’amicizia, questo rapporto senza dipendenza, non episodico e in cui entra nondimeno tutta la semplicità della vita, passa per il riconoscimento dell’estraneità comune che non ci consente di parlare dei nostri amici, ma soltanto di parlar loro, non di farne un argomento di conversazione (o di articoli), ma il movimento dell’intesa in cui, parlandoci, essi conservano, anche nella più grande familiarità, la distanza infinita, quella separazione fondamentale a partire dalla quale ciò che separa diviene rapporto. Qui, la discrezione non sta nel semplice rifiuto di considerare le confidenze (sarebbe volgare anche solo pensarci), ma è l’intervallo, il puro intervallo che, da me a quest’altro che è un amico, misura tutto ciò che è tra noi, l’interruzione dell’essere che mai mi autorizza a disporre di lui, né del mio sapere di lui (foss’anche per lodarlo) e che, lungi dall’impedire ogni comunicazione, ci mette in relazione l’uno all’altro nella differenza e, a volte, nel silenzio della parola. In certi momenti, è vero, questa discrezione diventa l’incrinatura della morte. Potrei immaginare che, per un verso, niente sia cambiato: in questo “segreto” tra noi, capace di prendere posto nella continuità del discorso senza interromperlo, c’era già, al tempo in cui eravamo l’uno in presenza dell’altro, la presenza imminente, sebbene tacita, della discrezione finale, ed è a partire da essa che si affermava serenamente la cautela delle parole amichevoli. Parole da una riva all’altra, parola che risponde a qualcuno che parla dall’altra sponda e in cui vorrebbe compiersi, a partire dalla nostra vita, la dismisura del movimento del morire. E, tuttavia, quando quest’evento arriva, apporta un cambiamento: non l’approfondimento della separazione, ma la sua cancellazione; non l’allargamento della cesura, ma il suo livellamento e la dissipazione di quel vuoto tra noi dove un tempo si sviluppava la franchezza di una relazione senza storia.

Crediti
 Maurice Blanchot
 Pinterest • André Desjardins  • 




Quotes per Maurice Blanchot

Ricordo che originariamente il termine trovare non significava affatto trovare nel senso del risultato pratico o scientifico. Trovare equivaleva a girare, fare il giro, andare attorno. Trovare un canto significava tornire la curva del movimento melodico, farlo girare, senza alcuna idea di scopo e tanto meno di sosta. Trovare era quasi sinonimo di cercare, che suonava: fare il giro di.

A Osea, l'Eterno dice: Sposa una donna prostituta che ti partorisca figliuoli di prostituzione, perché tutto il paese si prostituisce, e non è un'immagine. Il matrimonio stesso è profetico. La parola profetica è pesante. La sua pesantezza è il segno della sua autenticità. Non si tratta di far parlare il proprio cuore, né di dire quel che piace alla libertà dell'immaginazione. I falsi profeti piacciono, sono graditi: giullari (artisti) più che profeti. Ma la parola profetica s'impone dall'esterno, è il Fuori, il peso e la sofferenza del Fuori.

Il silenzio richiede un lungo processo di scrittura e parola e stare zitti sta ancora parlando. Il silenzio è impossibile, è per questo che lo vogliamo.

L'opera non è né compiuta né incompiuta: essa è… la solitudine dell'opera ha come primo sfondo quest'assenza di esigenza che non permette mai di dirla né compiuta né incompiuta. L'opera è solitaria: ciò non significa che essa rimanga incomunicabile, che il lettore le venga a mancare.

Orfeo ci ricorda che il parlare poeticamente come lo sparire appartengono alla profondità di uno stesso movimento: chi canta deve mettersi interamente in gioco, e, alla fine, perire, poiché egli parla solo quando l'approssimazione anticipata alla morte, la separazione anticipata, l'addio formulato in anticipo, cancellano in lui la falsa certezza d'essere, dissipano ogni sicurezza protettrice, lo consegnano ad una illimitata incertezza.