L’amicizia, questo rapporto senza dipendenza, non episodico e in cui entra nondimeno tutta la semplicità della vita, passa per il riconoscimento dell’estraneità comune che non ci consente di parlare dei nostri amici, ma soltanto di parlar loro, non di farne un argomento di conversazione (o di articoli), ma il movimento dell’intesa in cui, parlandoci, essi conservano, anche nella più grande familiarità, la distanza infinita, quella separazione fondamentale a partire dalla quale ciò che separa diviene rapporto. Qui, la discrezione non sta nel semplice rifiuto di considerare le confidenze (sarebbe volgare anche solo pensarci), ma è l’intervallo, il puro intervallo che, da me a quest’altro che è un amico, misura tutto ciò che è tra noi, l’interruzione dell’essere che mai mi autorizza a disporre di lui, né del mio sapere di lui (foss’anche per lodarlo) e che, lungi dall’impedire ogni comunicazione, ci mette in relazione l’uno all’altro nella differenza e, a volte, nel silenzio della parola. In certi momenti, è vero, questa discrezione diventa l’incrinatura della morte. Potrei immaginare che, per un verso, niente sia cambiato: in questo “segreto” tra noi, capace di prendere posto nella continuità del discorso senza interromperlo, c’era già, al tempo in cui eravamo l’uno in presenza dell’altro, la presenza imminente, sebbene tacita, della discrezione finale, ed è a partire da essa che si affermava serenamente la cautela delle parole amichevoli. Parole da una riva all’altra, parola che risponde a qualcuno che parla dall’altra sponda e in cui vorrebbe compiersi, a partire dalla nostra vita, la dismisura del movimento del morire. E, tuttavia, quando quest’evento arriva, apporta un cambiamento: non l’approfondimento della separazione, ma la sua cancellazione; non l’allargamento della cesura, ma il suo livellamento e la dissipazione di quel vuoto tra noi dove un tempo si sviluppava la franchezza di una relazione senza storia.
Rapporto senza dipendenza
Crediti
Quotes per Maurice Blanchot
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