Deleuze definiva l’atto di creazione come un atto di resistenza. [Ma] non definisce che cosa significhi resistere e sembra dare al termine il significato corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna. Colui che possiede – o ha l’abito di – una potenza può tanto metterla in atto che non metterla in atto. La potenza – questa è la tesi geniale, anche se in apparenza ovvia, di Aristotele – è, cioè, definita dalla possibilità del suo non–esercizio. L’architetto è potente, in quanto può non costruire, la potenza è una sospensione dell’atto. Vi è, in ogni atto di creazione, qualcosa che resiste e si oppone all’espressione. Resistere, dal latino sisto, significa etimologicamente arrestare, tener fermo o arrestarsi. Questo potere che trattiene e arresta la potenza nel suo movimento verso l’atto è l’impotenza, la potenza-di-non. La potenza è, cioè, un essere ambiguo, che non solo può tanto una cosa che il suo contrario, ma contiene in sé stessa un’intima e irriducibile resistenza. Spero che a questo punto ciò che intendevo parlando di una poetica dell’inoperosità sia in qualche modo più chiaro. E, forse, il modello per eccellenza di questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane è la stessa poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non un’operazione nel linguaggio, che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative informative, per aprirle a un nuovo, possibile uso?
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