Sapere, non sapere
Nel 1942, un partigiano polacco di ventotto anni, Jan Karski, si avventurò in una missione che, dalla Polonia occupata dai nazisti, lo avrebbe portato a Londra e infine in America, per informare i leader mondiali delle atrocità che i tedeschi stavano commettendo. Prima di partire, incontrò diversi gruppi della resistenza, raccogliendo informazioni e testimonianze da portare in Occidente. Nella sua autobiografia, racconta il colloquio con il capo dell’Unione generale dei lavoratori ebrei: L’attivista del Bund mi si accostò in silenzio, afferrandomi un braccio con tanta forza da farmi male. Lo guardai spaventato negli occhi che esprimevano un dolore indicibile.
«Dica [ai leader delle comunità ebraiche] che non è il momento di mettersi a fare politica, di spaccare il capello in quattro e discettare di strategie standosene bene al sicuro in casa propria o nel proprio studio. Dica loro che il mondo dev’essere scosso dalle fondamenta, con violenza, perché l’umanità sappia quello che sta accadendo. Forse ciò li sveglierà. Occorre che la gente si renda conto, capisca. Dica loro che devono trovare la forza di compiere sacrifici che non sono mai stati fatti prima da nessun uomo di Stato, sacrifici dolorosi quanto il destino del nostro popolo. Altrimenti non capiranno. Non capiranno perché quello che stanno facendo i tedeschi non ha precedenti nella storia dell’umanità. Le democrazie dovranno reagire secondo modalità altrettanto inedite, dovranno dare risposte mai fornite prima. […] Mi domanda se abbiamo delle richieste da fare ai leader delle comunità ebraiche. Dica loro di recarsi in tutti gli uffici e le agenzie più importanti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Devono pretendere che venga messo in atto un piano per salvare gli ebrei. Si rifiutino di mangiare o bere finché non verrà trovata una soluzione. Digiunino fino a morire di fame e di sete sotto gli occhi del mondo, quel mondo che intanto assiste impassibile alla distruzione del nostro popolo. Chissà che questo non serva a scuotere le coscienze.» Dopo essere sopravvissuto, come si può facilmente immaginare, a un viaggio pericolosissimo, Karski arrivò a Washington nel giugno del 1943. Qui incontrò il giudice della Corte suprema Felix Frankfurter, uno dei massimi giuristi della storia americana, che era a sua volta ebreo. Dopo avere sentito il racconto di Karski sullo sgombero del Ghetto di Varsavia e gli stermini nei campi di concentramento, dopo avergli posto una serie di domande sempre più specifiche («Quanto è alto il muro che separa il ghetto dal resto della città?»), Frankfurter si mise a fare su e giù per la stanza in silenzio, poi tornò a sedersi e disse: «Mister Karski, un uomo come me parlando con un uomo come lei ha l’obbligo di una totale franchezza. Quindi devo dirle che non posso proprio credere a quello che mi ha detto». Quando l’uomo che accompagnava Karski supplicò Frankfurter di dar credito al racconto che gli era stato fatto, il giudice rispose: «Non ho detto che questo giovanotto stia mentendo.
Ho detto che non sono in grado di credergli. La mia mente, il mio cuore, sono fatti in un modo che non mi permette di accettarlo
».
Non metteva in dubbio la veridicità della storia di Karski. Non contestava che i tedeschi stessero sistematicamente sterminando gli ebrei d’Europa, i suoi stessi parenti. E non rispose che, pur essendo convinto e inorridito, non poteva fare nulla. Ammise invece non solo la propria incapacità di credere alla verità, ma anche la propria consapevolezza di quella incapacità. La coscienza di Frankfurter non era stata scossa.
Le nostre menti e i nostri cuori sono fatti in modo da eseguire bene determinati compiti, e male altri. Siamo bravi in cose come calcolare la traiettoria di un uragano e meno bravi in cose come decidere di evitarlo. Essendoci evoluti nel corso di centinaia di milioni di anni in ambienti profondamente diversi dal mondo moderno, spesso siamo indotti a desideri, paure e indifferenze che non rispondono né corrispondono alle realtà moderne. Siamo attratti in modo sproporzionato da bisogni immediati e limitati – bramiamo grassi e zuccheri (che fanno male a chi vive in un mondo dove ce n’è abbondante disponibilità); vigiliamo sui nostri figli sorvegliandoli in modo spasmodico quando si arrampicano al parco giochi (mentre trascuriamo rischi ben peggiori per la loro salute, come un eccessivo apporto di grassi e zuccheri), e rimaniamo invece indifferenti per quel che è letale ma laggiù.
In un recente studio, lo psicologo Hal Hershfield della UCLA ha scoperto che quando ai soggetti veniva chiesto di descrivere sé stessi nel futuro, anche solo dopo dieci anni, l’attività neurologica esaminata con una risonanza magnetica assomigliava più a quella registrata quando descrivevano degli estranei che a quella registrata quando descrivevano sé stessi nel presente. Quando ai soggetti venivano mostrate immagini di loro stessi invecchiate con Photoshop, però, questa discrepanza si riduceva, e il loro comportamento cambiava. Alla domanda di ripartire mille dollari su quattro opzioni – un regalo per una persona cara, uno svago, un conto corrente e un fondo pensione – i soggetti che avevano visto il proprio avatar invecchiato stanziavano il doppio dei soldi in fondi pensione rispetto a quelli che non lo avevano visto.
È stato ampiamente dimostrato che la vividezza delle impressioni intensifica le reazioni emotive.
Vari studiosi hanno descritto un certo numero di pregiudizi cognitivi correlati all’empatia, che generano sollecitudine: l’effetto della vittima identificabile (la possibilità di visualizzare nel dettaglio chi soffre), l’effetto del gruppo ristretto (l’impressione di prossimità sociale con chi soffre) e l’effetto empatico che dipende dal sistema di riferimento (mostrare che la condizione della vittima non solo è orribile, ma è in via di peggioramento). Un gruppo di ricercatori ha condotto un esperimento di raccolta fondi per posta su circa duecentomila potenziali donatori. Se la lettera presentava il caso di un soggetto con un nome e un cognome anziché quello di un gruppo anonimo, le donazioni aumentavano del 110 percento. Se il donatore e il destinatario appartenevano alla stessa religione, le donazioni aumentavano del 55 percento. Se la povertà del destinatario era presentata come recente anziché cronica, le donazioni aumentavano del 33 percento. Combinando tutte queste tattiche si aumentavano le donazioni del 300 percento.
Il problema della crisi del pianeta è che si scontra con una serie di pregiudizi cognitivi innati correlati all’apatia. Anche se molte delle calamità che accompagnano i cambiamenti climatici – tra le principali, eventi meteorologici estremi, alluvioni e incendi indomabili, migrazioni e penuria di risorse – sono vivide, personali e fanno pensare a una situazione in via di peggioramento, nel loro complesso non danno questa sensazione. Danno la sensazione di essere astratte, lontane e isolate, anziché presentarsi come gli snodi cruciali di una narrazione sempre più incalzante. Per usare le parole del giornalista Oliver Burkeman del Guardian: «Se una cricca di psicologi malvagi si fosse radunata in una base sottomarina segreta per ordire una crisi che l’umanità sarebbe stata irreparabilmente impreparata a fronteggiare, non avrebbe potuto escogitare di meglio dei cambiamenti climatici».
Chi nega i cambiamenti climatici rifiuta le conclusioni raggiunte dal 97 percento degli scienziati che si occupano di clima: il pianeta si sta riscaldando a causa delle attività umane. E noi, che invece dichiariamo di accettare la realtà dei mutamenti climatici provocati dall’uomo? Magari non pensiamo che gli scienziati raccontino bugie, ma siamo in grado di credere a quello che ci dicono? Credere dovrebbe immancabilmente far sorgere in noi l’urgente imperativo etico che ne consegue, smuovere la nostra coscienza collettiva e renderci pronti a compiere piccoli sacrifici nel presente per evitare sacrifici epocali in futuro.
Accettare la verità sul piano intellettuale non ha niente di virtuoso in sé e per sé. E non ci salverà.
Da bambino mi dicevano spesso: «Sai che non si fa», quando facevo qualcosa che non avrei dovuto fare. E quel sapere faceva la differenza tra un errore e una colpa.
Se accettiamo una realtà fattuale (stiamo distruggendo il pianeta) ma non siamo in grado di crederci, non siamo migliori di chi nega l’esistenza dei cambiamenti climatici provocati dall’uomo – esattamente come Felix Frankfurter non era migliore di coloro che negavano l’esistenza dell’Olocausto. E quando il futuro distinguerà tra queste due forme di negazione, quale apparirà un errore madornale e quale un crimine imperdonabile?

Crediti
 Jonathan Safran Foer
 Possiamo salvare il mondo prima di cena
  traduzione di Irene Abigail Piccinini
 SchieleArt •   • 




Quotes per Jonathan Safran Foer

Ridemmo insieme e da soli, a squarciagola e in silenzio, eravamo decisi a ignorare qualunque cosa andasse ignorata, decisi a costruire un nuovo mondo dal nulla, se nulla si poteva salvare del nostro mondo. Fu uno dei giorni più belli della mia vita, un giorno in cui vissi la mia vita e non pensai affatto alla mia vita.

Quando mi chiedono come sto, mi ritrovo a dire: È una fase di passaggio. Tutto è transizione, turbolenza verso la destinazione. Ma lo dico da così tanto tempo che probabilmente dovrei accettare che il resto della mia vita sarà un lungo passaggio: una clessidra senza i bulbi. Solo la strettoia.