Un’espressione di Plotino simboleggia bene la necessità e il fine degli esercizi spirituali, questa ricerca della realizzazione di sé: scolpire la propria statua.
D’altronde spesso è fraintesa, poiché si immagina facilmente che tale espressione corrisponda a una specie di estetismo morale; significherebbe: assumere una certa posa, scegliere un atteggiamento, costruire il proprio personaggio.
Le cose non stanno affatto così.
Infatti per gli antichi la scultura è un’arte che «leva, toglie», contrariamente alla pittura che è un’arte che «aggiunge»: la statua preesiste nel blocco di marmo, e basta togliere il superfluo per farla apparire.
Questa rappresentazione è comune a tutte le scuole filosofiche: l’uomo è infelice perché è schiavo delle passioni, ossia perché desidera cose che gli possono sfuggire, poiché gli sono esterne, estranee, superflue. La felicità consiste dunque nell’indipendenza, nella libertà, nell’autonomia, vale a dire nel ritorno all’essenziale, a ciò che è veramente «noi stessi» e a ciò che dipende da noi.
Come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine l’intero suo essere.
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