Rocio MontoyaIn quel tempo io ero come un bambino che ha avuto un giocattolo nuovo, un complicato giocattolo, e nemmeno per un momento lo lascia. Avevo scoperto che a pensare su me stesso e sugli altri e su tutte le cose del mondo stavo in un giuoco inesauribile, come dentro l’infinita catena dei numeri: non che avessi coscienza della scoperta e per volontà mi spingessi nel terribile giuoco, era un fatto naturale come di una pianta che nella grasta è stenta, e trapiantata in campagna irrompe di fronde e radici. Da bambini, nelle scuole elementari, facevamo il giuoco dei numeri: lo zero dopo l’uno e leggevamo dieci –dieci altro zero -cento- e poi ancora zero, uno dopo l’altro, e giungevamo a numeri che nemmeno il maestro sapeva leggere; e ancora mettevamo zeri: così è il pensiero. E mi sentivo come un acrobata che si libra sul filo, guarda il mondo in una gioia di volo e poi lo rovescia, si rovescia, e vede sotto di sé la morte, un filo lo sospende su un vortice di teste umane e luci, il tamburo che rulla alla morte. Insomma, mi era venuto il furore di veder ogni cosa dal di dentro, come se ogni persona ogni cosa ogni fatto fosse come un libro che uno apre e legge: anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?

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 Leonardo Sciascia
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