[…] il primo giorno del rientro a scuola, al liceo di Ben Aknoun, il sorvegliante generale mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: Torna a casa, i tuoi genitori ti spiegheranno […].
Tutto questo era la conseguenza dei traumi dell’espulsione, che provocarono in me due movimenti: da un lato il desiderio di farmi accettare di nuovo dai compagni, dalle famiglie, dall’ambiente non ebraico che era il mio e, conseguentemente, di rompere con l’impulso gregario che si era costituito per rispondere all’aggressione e al trauma […]. Da un altro lato, diventai estremamente vulnerabile nei confronti di ogni manifestazione di antisemitismo e di razzismo, e molto sensibile alle ingiurie che esplodevano in ogni istante, soprattutto da parte dei bambini. Questa violenza mi ha segnato per sempre. Risale probabilmente a questo momento il desiderio di solitudine, di ritiro nei confronti di ogni comunità o addirittura di ogni nazionalità, e il sentimento di diffidenza nei confronti della stessa parola comunità: appena vedo costituirsi un’appartenenza un po’ troppo naturale, protettrice e fusionale, io mi dileguo… Si tratta di uno strascico di quest’epoca che mi è proprio, ma che oggi può giustificare un’etica più generale.
Sentimento di diffidenza
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