Il vocabolo intelligenza deriva dal latino intelligere (capire, comprendere) ed è composta dal verbo legere (leggere), preceduto dall’avverbio intus (dentro). Saper andare oltre l’apparenza, dunque, e comprendere ciò che esiste in profondità, oltre il visibile, nelle situazioni, nelle relazioni e in noi stessi. Accettando una visione antropocentrica dell’esistenza, siamo portati a credere di essere la forma di vita più intelligente in questo pianeta. Questa sicurezza è tuttavia priva di fondamento e origina dal ridurre l’intelligenza alla misurazione del quoziente intellettivo o, peggio, a limitarla a un insieme di processi cognitivi che servono a cogliere, elaborare e interpretare i fenomeni per il conseguimento di un fine specifico come, per esempio, la risoluzione di problemi. La tendenza del razionalismo e del riduzionismo meccanicistico è quella di associare l’intelligenza ai processi logici e razionali e, come riflesso, allo sviluppo tecnologico. Ma la vera intelligenza è connessa alla consapevolezza con cui utilizziamo la tecnologia piuttosto che allo sviluppo tecnologico in sé. L’intelligenza relativa alla mente viene normalmente associata e definita come l’insieme di abilità e funzioni necessarie all’adattamento e alla sopravvivenza. Ma attribuire al solo pensiero logico e razionale la comprensione dell’esperienza esistenziale, tralasciando l’importanza delle emozioni, della saggezza del corpo e della sfera spirituale, fa parte di una prospettiva limitante e limitata. È come se tentassimo di prepararci a una maratona allenando solo le gambe e trascurando il resto del corpo, l’alimentazione, lo stile di vita, l’aspetto emozionale, la volontà, la sfera mentale e infine il cuore.
Sicurezza priva di fondamento
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