Battiti sordi, cacofonie disarticolate, dissonanze insistite, vocalizzi demoniaci, esotismi stranianti, ferocia eversiva, tetro nichilismo, e soprattutto l’uso di una strumentazione eterodossa, conferiscono al suono un senso macabro ed inquietante di vuoto e terrore. Armenia, cinque minuti di horror dentro una stasi ipnotica che abbraccia incubo, trip lisergico e mantra industriale, contrassegna una delle parabole di autodistruzione più profonde del rock. Questi suoni, iridi di dramma espressionista, piece dadaista e poesia decadente, appartengono così alla musica in maniera un po’ casuale, come per via di un intrinseco bisogno di comunicare il buio, senza movimento e senza immagini.
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