Alimentammo il fuoco e il sonno ci prese. Si addormentò prima lei e per guardarla dovevo volgere le spalle al fuoco. […] Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno finché il signore non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione e le cose che inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero “signore”. Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle risposte. […] Be’, lasciamola dormire, povera principessa senza altri pensieri che non siano quelli di procurarsi un pessimo pane azimo e di lavarsi, ma non troppo, e soltanto per giocare. Io, invece, non potevo dormire. La mia stanchezza aveva superato ogni limite e ora i nervi erano scoperti, sensibili a ogni fruscio, a ogni grido che la notte amplificava. […] Vidi un’ombra a venti passi da me e toccai istintivamente la rivoltella. […] Mi alzai in piedi, per fare qualcosa, o forse soltanto per darmi coraggio. […] Ecco rapidissima l’ombra passarmi davanti. Strisciò sulla terra, per un attimo illuminata dal fuoco: fu un lampo. Sparai due volte. L’ombra mi urtò, sentii il fetore selvaggio della sua pelliccia, e io caddi mentre le scaricavo addosso l’arma per la terza volta. La bestia scomparve urlando e la sentii lontano, più tardi, agonizzare. Ritornai verso la donna. Tutto quello che successe dopo, ancora stento a crederlo. La donna s’era gettata bocconi e si premeva una mano sul ventre. Dopo un istante, ancora immersa in un sonno assurdo, gettò un primo lamento, lungo, straziante. Era il lamento selvaggio, la protesta che teniamo in serbo per l’ultima ora, quando arriva troppo presto e ci sorprende. Era soprattutto il lamento di chi non vuol crederci. Stavo vicino a lei e mi illudevo di non capire, ma avevo capito. Ero stato io. La mano che spara sa se colpisce, e la mia destra tremava. […] la donna era lì, bocconi, e gemeva. Quel corpo che prima avevo vegliato ora si contorceva per lo spasimo di una ferita tanto più atroce perché inspiegabile, ed era anche doloroso non poterle far capire che si trattava di una crudele disgrazia. […] Ero spaventato, le carezzai la fronte perché non mi sentisse ostile. […] già una domanda si insinuava a turbarmi: cosa avrei fatto? Era una domanda suggerita dall’ansia, che non volevo confessarmi, di uscire presto da quel pasticcio. Dovevo soccorrerla, non c’è dubbio. Ma come? Cosa si fa quando una donna muore e siete sperduto con lei nella più buia notte dell’anno, tra ombre ostili, in una terra che ha già logorato i vostri nervi, e che voi odiate con tutta l’anima? Pensai che dovevo andarmene, abbandonarla. […] Sarebbe morta tra un’ora, due ore al massimo, questo mi ripetevo. Oppure dovevo restare, accettare tutte le responsabilità, dare infinite spiegazioni, e lasciare negli animi il sospetto che avevo ucciso una donna per motivi poco chiari. […] No, sarei rimasto. Vada al diavolo la rispettabilità, la legge e tutto il resto. Non potevo abbandonarla, anche se il mio gesto fosse rimasto incompreso. […] Inutile aggiungere che questa risoluzione svanì mentre facevo bere la donna e la sua mano toccò la mia. Che cosa avevo a che fare con quella donna? E la sua mano aspra perché indugiava sulla mia, come per significare un possesso più vasto di quello che ci eravamo futilmente concesso? Non era certo la mano che m’aveva stretto e accarezzato per incitarmi, era una mano che chiedeva altri sentimenti, mentre io potevo darle soltanto la pietà. Mi levai in piedi e pensai di finirla. Dovevo ucciderla. Dovevo finirla e nascondere il cadavere. […] La pallottola era già a posto e non avrei dovuto fare nessun rumore sospetto. Non pensavo a nulla, ma soltanto a mirare giusto. […] Quando vidi che volgeva la testa sotto il turbante, sparai. La donna era morta senza fare il minimo gesto e soltanto per un attimo tremai al sospetto di non averla colpita. Ma quando sul turbante apparve la piccola macchia di sangue e poi s’ingrandì, e quando la mano che teneva sul ventre scivolò a terra, capii che la cosa era avvenuta. […] Bisognava portare quel corpo sino al crepaccio. […] Com’era pesante e come diverso dal corpo che avevo stretto! Quando l’ebbi messo sulla veste, provai a tirarne i capi. Sì, andava bene. Il turbante aderiva al viso e non si mosse nemmeno quando il corpo dovette superare le asperità del terreno, e non si mosse nemmeno quando feci scivolare la donna nel crepaccio e vi cadde con un tonfo. Adesso dovevo trovare pietre abbastanza per coprire il corpo […] Lavorai molto tempo, forse un’ora a riempire la fossa e misi pietre sempre più grandi, per impedire che le iene potessero toglierle. Quando le pietre ebbero raggiunto il livello del terreno, presi manciate di terra e l’acconciai in modo che non si notasse nessuno stacco. Battei la terra con le mani e gettai sulla tomba alcuni cespugli. […] Era tempo di andarsene, o non avrei trovato più autocarri. […] Un ultimo sguardo alla tomba, prima di perderla di vista per sempre, e addio! “Addio, donna” pensai. “Mi hai insegnato il valore di molte cose, in così breve tempo. Non potrò dimenticarle. Ed è forse perciò che cammino serenamente e mi sento diverso, più grande, di un peso più vivo, poiché tutte le esperienze arricchiscono. Guardo questa sordida boscaglia con altri occhi.” Cambiai il caricatore alla rivoltella e la misi nella fondina. […] Stetti un po’ a riposarmi sul ciglio fumando una sigaretta, poi mi distesi a terra. Non pensavo a nulla. Quando sentii il rumore del camion che saliva, feci forza a me stesso per alzarmi in piedi e accennare al soldato che fermasse. Il soldato rallentò soltanto, perché era in salita e in curva. Raggiunsi egualmente il camion e saltai sul predellino.
[…tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di…
Crediti
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