L’Egitto e la Libia ci offrono, al momento, le espressioni più importanti dell’attuale fase insurrezionale della crisi: l’Egitto, in virtù del suo ruolo economico e geopolitico nel quadro della concorrenza inter-capitalistica mondiale; la Libia sorvolando sulla questione del petrolio, a causa della repentina perdita di controllo della situazione da parte dello Stato, che sta seminando il panico a livello internazionale.
La crisi dell’attuale regime di accumulazione, frutto della ristrutturazione degli anni ’70 e ’80, smentisce il successo della ristrutturazione stessa. Nella misura in cui il capitalismo è un sistema di rapporti contraddittori, è precisamente l’approfondirsi del cosiddetto neo-liberismo a produrre l’attuale crisi storica.
Ogni modello di accumulazione, per quanto appaia a prima vista stabile, implica lo sviluppo di una dinamica interna contraddittoria, che conduce all’innesco della crisi. Il successo del capitalismo ristrutturato, o in altri termini la sussunzione dell’intera esistenza del proletariato al capitale, ha assoggettato fino all’estremo la riproduzione del proletariato e pertanto del capitale nel suo complesso all’andamento dell’economia, rendendola più vulnerabile alla crisi rispetto a qualsiasi epoca storica precedente. Oggi, ci troviamo in una fase transitoria della crisi capitalistica mondiale che ha avuto inizio nel 2008.
In questo quadro, il capitale finanziario mondiale cerca di evitare la propria svalorizzazione immediata, imponendo una nuova fase draconiana della ristrutturazione all’intero pianeta. Le conseguenze di questo tentativo sono visibili ovunque, nonostante l’intensità e i caratteri dell’attacco subìto dal proletariato varino da paese a paese: in primo luogo, secondo il posto occupato da ciascuno Stato all’interno della gerarchia capitalistica mondiale; in secondo luogo, in relazione allo stadio di volta in volta raggiunto dalla prima fase della ristrutturazione; infine, e soprattutto, in funzione della storia della lotta di classe in ciascuna regione. Nel mondo intero fatta eccezione per la Cina, la ristrutturazione implica una diminuzione del salario diretto e indiretto prestazioni non monetarie sotto forma di servizi forniti dallo Stato, l’interdizione di fatto della rivendicazione salariale, l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – dovuta, da un lato, al meccanismo oggettivo della crisi e, dall’altro, al fatto che vi sono frazioni del capitale che speculano apertamente sui prezzi degli alimenti di base, approfittando, tra l’altro, del crollo della produzione di cereali che si è avuto quest’anno. Una conseguenza specifica di questo genere di speculazione, è che la parte maggiormente svalorizzata del proletariato mondiale non ha più, letteralmente, di che mangiare. «I prezzi sono aumentati al punto che, se compro qualche limone per la mia gola irritata, rimarrò al verde per il resto del mese» – ha dichiarato un lavoratore del Ministero dei Trasporti egiziano.
Nel pieno della tempesta della crisi economica, ogni sostegno statale alla sopravvivenza della forza-lavoro eccedente viene meno, con il risultato che il lavoro nero e la miseria si diffondono. I proletari, per sopravvivere, sono costretti a lavorare soprattutto in nero; ma allo stesso tempo, a causa della crisi, diventa impossibile trovare un impiego o vendere la propria forza-lavoro a un prezzo che sia sufficiente a garantire la propria riproduzione elementare.
Il proletariato esige di sopravvivere e chiede di conseguenza la riduzione del prezzo delle derrate alimentari, posti di lavoro e aumenti salariali – questo è il tributo che paga alla fame. Attraverso le sue rivendicazioni, esso chiede disperatamente ai capitalisti, di salvare il capitalismo! Allorché i proletari chiedono un lavoro stabile e un salario decente, non fanno che dire ai capitalisti: «Voi avete bisogno di noi! Senza di noi non ci può essere estrazione di plusvalore, non ci può essere capitale». Da parte sua, il capitale rende noto, attraverso le sue pratiche, che non può permettersi il lusso di lasciare che il proletariato sopravviva: esso rende esplicito con ogni mezzo, che una parte cospicua del proletariato è di troppo; e inoltre – e questo è l’aspetto più importante – che il suo progetto di rilancio dell’accumulazione, non implica la reintegrazione di quella parte del proletariato che rappresenta ormai una popolazione strutturalmente eccedentaria. Ne consegue che, storicamente, le rivendicazioni salariali dei proletari sono prodotte come necessarie e, al contempo, non hanno alcuno sbocco e questo, a un livello non congiunturale, ma strutturale!. La rivolta di questo proletariato eccedente e senza futuro, si scontra con la forma più scoperta e brutale del dominio del capitale: la repressione. La via d’uscita dalla crisi perseguìta dai capitalisti, non prevede il coinvolgimento di questa sovrappopolazione proletaria; ed è precisamente in virtù di questo fatto, che la polizia diventa la forma generale della riproduzione del capitalismo contemporaneo.
Ovunque, nel mondo, i proletari vivono la loro precaria situazione sotto forma di un’asfissia. La povertà e la ghettizzazione definiscono il quadro di questa situazione. Ne sono esempi evidenti Frontex la polizia di frontiera dell’Unione Europea, l’analoga forza poliziesco-militare dispiegata dagli Stati Uniti lungo il confine con il Messico, le baraccopoli operaie cinesi presidiate dall’esercito, le gated communities latino-americane e le immense favelas che fanno loro da contraltare; senza dimenticare la versione greca di tutto ciò: la barriera di 12,5 Km costruita lungo il fiume Evros, al confine con la Turchia.
L’intero pianeta evolve lentamente, ma irresistibilmente, verso un regime di apartheid: i bantustan del XXI secolo sono destinati alla classe operaia. Questa dinamica della repressione, sul piano urbanistico, determina l’asfissia dei proletari e, al contempo, mette in discussione uno dei presupposti fondamentali del capitalismo: la libera vendita della forza-lavoro. Al Cairo, questo tipo di urbanismo si è realizzato a ritmi forsennati analoghi ai tassi di crescita economica nel corso degli ultimi dieci anni.
La dittatura del valore e dell’Economia, in tutte le regioni dell’Africa e del Medio Oriente dove oggi il proletariato si ribella, assume anche la forma politica della democrazia dittatoriale. La ragione per cui queste rivolte preoccupano tanto le borghesie di tutto il mondo, è che la dittatura democratica, il totalitarismo, anche nei paesi maggiormente sviluppati, cattura sempre di più l’immaginazione delle classi dominanti, quale unico mezzo in grado di imporre la seconda fase della ristrutturazione.
Le manifestazioni e le sommosse, in tutti questi paesi, hanno origine sul terreno della riproduzione; il problema è se esse si estenderanno o meno a quello della produzione, al cuore del capitalismo. Gli scioperi che hanno seguìto la caduta del dittatore socialista Mubarak, sembrano andare in questa direzione. Ovunque, i capitalisti guardano con angoscia a questo fazzoletto di mondo, con il dito pronto sul grilletto, poiché gli Eldorados si sono all’improvviso trasformati in trappole mortali, in regioni instabili e dall’avvenire incerto. Gli immensi vantaggi concorrenziali si sono trasformati, pressoché da un giorno all’altro, in un pericolo incontrollabile.
I subappalti, il turismo, la costruzione di infrastrutture, l’industria tessile, e soprattutto il petrolio e le vie commerciali Suez, Golfo Persico, sono investiti dalle fiamme della rivolta proletaria. Dopo la Tunisia, l’Egitto e la Libia, paesi dove la rivolta è ancora in corso, in Bahrein, Iran e Algeria, lo Stato pratica la prevenzione attraverso l’assassinio.
Il regime greco cerca di prevenire la rivolta che si avvicina in due modi distinti: da una parte, si prepara all’instaurazione ufficiale di una dittatura eventualmente, attraverso le elezioni; dall’altra, preso nelle contraddizioni dei suoi antagonismi interni, tenta di incanalare le reazioni dei proletari verso uno sbocco populista/nazionalista di destra o, in caso di ulteriori complicazioni, di sinistra. I funzionari del capitale finanziario mondiale, che detengono provvisoriamente il potere all’interno dello Stato greco, sperano ora, dopo i successi conseguiti sul terreno della riduzione dei salari, di avere il tempo necessario per svendere il patrimonio dello Stato. Questa liquidazione non è altro che un tentativo di valorizzare il capitale potenziale che si trova immobilizzato nel sistema finanziario greco e soprattutto europeo, ed è minacciato da una massiccia svalorizzazione. Di contro, i proletari rifiutano questa svendita, poiché comprendono che essa equivale a un’ulteriore riduzione del loro salario indiretto e, più in generale, a un deterioramento delle loro condizioni di vita. Essi rifiutano di pagare il biglietto dei mezzi di trasporto e i pedaggi, occupano edifici, cercano di ampliare in tutti i modi possibili gli effetti della crisi, anche se per il momento soltanto all’interno della sfera della circolazione e della riproduzione. Gli scioperi scoppiati nei settori colpiti dalla ristrutturazione, non sono stati all’altezza dell’offensiva capitalistica: il sindacalismo, in quanto mediazione, spara qui le sue ultime cartucce.
La storia è gravida di possibilità. Qualunque strategia il capitale sceglierà di applicare in Grecia, si rivelerà un’arma a doppio taglio. L’instaurazione di una dittatura implica il rischio che il virus della ribellione attraversi il Mediterraneo, facendo impallidire, al confronto, i fatti del dicembre 2008, con tutto ciò che ne conseguirebbe per gli altri paesi europei. D’altro canto, un rallentamento della ristrutturazione rischierebbe di far perdere allo Stato greco il treno dell’integrazione nell’Europa politicamente unificata, relegandolo nella «terza zona» del capitale, con il risultato di mettere in pericolo gli interessi dei settori più importanti del capitalismo greco.
In ogni caso, per i proletari che vivono in Grecia, esiste soltanto una strada percorribile, qualunque sia lo scenario che si delineerà: una lotta di classe sempre più dinamica. È possibile che non si avranno, in tempi brevi, altri scioperi-farsa come quello del 23 febbraio; ma i fronti di lotta si moltiplicheranno giorno dopo giorno, e l’irruzione della rivolta non potrà essere contenuta a lungo. Incentrate sulla difesa dell’esistenza stessa di un salario e, più in generale, su una reazione al deterioramento degli standard di vita, le lotte rivendicative del proletariato, attraverso il loro sviluppo e il loro palese fallimento, si orientano verso una rottura con il proprio contenuto rivendicativo. Tale rottura si annuncia già oggi in casi come quello di Keratea, e apparirà come un carattere specifico di tutti gli scontri a livello locale. Il contenuto delle rotture renderà impossibile un’unificazione politica e, dunque, una mediazione efficace all’interno dei conflitti. Ad esempio, la repressione che probabilmente colpirà il movimento «Non pagheremo la loro crisi», potrebbe portare lo scontro fino al punto in cui venga messa in questione l’esistenza stessa dei mezzi di trasporto. Questo sviluppo dinamico delle rotture non potrà giungere a compimento e stabilizzarsi in una serie di conquiste per la classe operaia, ma potrà soltanto rappresentare l’inizio di un processo rivoluzionario.
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