Théophile Gautier - La morta innamorata
Oltre che il celebrato maestro della piena stagione romantica e della prima stagione parnassiana, Théophile Gautier (1811-1872) fu il principale seguace di Hoffmann in Francia. Tra i suoi numerosi racconti fantastici, La morte amoureuse è il più famoso e il più perfetto (forse troppo perfetto, come spesso in Gautier), eseguito e rifinito con tutte le regole. Il tema dei morti-viventi e dei vampiri (nella fattispecie una vampiressa) si presenta qui in uno specimen d’alta qualità, che meritò le lodi di Baudelaire.
La tentazione di Romualdo, che appena ordinato sacerdote incontra la bella Clarimonda, la visione della città dall’alto col palazzo delle cortigiane illuminato dal sole, la vita di penitenza nella lontana parrocchia finché un servo a cavallo non viene a chiamarlo per l’estrema unzione a Clarimonda, gli amori con la donna già morta, l’incertezza se il sogno siano le sue giornate di povero prete o le notti d’orge rinascimentali, la scoperta che Clarimonda è un vampiro e beve il sangue del suo amante: tanti pezzi di bravura che faranno scuola. Faranno scuola anche nella letteratura di second’ordine, così come nel cinema: fino all’esumazione del cadavere di Clarimonda: intatta nella bara col sangue sulle labbra, poi subito trasformata in uno scheletro.
Voi mi chiedete, fratello, se ho amato. Sì. È una storia singolare e terribile e, sebbene io abbia sessantasei anni, oso appena smuovere le ceneri di questo ricordo. A voi non voglio rifiutare nulla, ma non narrerei mai tale vicenda a un’anima meno esperta. Sono avvenimenti tanto singolari che non posso credere di averli realmente vissuti. Sono stato, per più di tre anni, la vittima di una strana e diabolica illusione. Io, povero prete di campagna, ho condotto in sogno, tutte le notti (Iddio voglia che sia stato un sogno), un’esistenza di dannato, una vita da sardanapalo. Un solo sguardo troppo compiacente gettato su una donna stava per dannarmi l’anima; ma con l’aiuto di Dio e del mio santo patrono, sono riuscito a scacciare lo spirito maligno che si era impadronito di me. La mia esistenza era complicata da un’esistenza notturna completamente diversa. Durante il giorno ero un sacerdote, casto, dedito alle preghiere e alle cose sante; la notte, non appena chiudevo gli occhi, divenivo un giovane gentiluomo, fine conoscitore di donne, di cani, di cavalli, che giocava a dadi, beveva e bestemmiava; e all’alba, quando mi svegliavo, provavo al contrario la sensazione di addormentarmi e di sognare di essere prete. Di questa vita sonnambulesca mi rimangono ricordi di oggetti e di parole dai quali non posso difendermi e, sebbene non abbia mai varcato le mura della canonica, la mia conversazione potrebbe far pensare a un uomo che, dopo intense esperienze, stanco del mondo, ha abbracciato la vita religiosa e vuole finire tra le braccia divine un’esistenza turbata ben più che a un umile seminarista, invecchiato in una parrocchia ignorata, in fondo a un bosco, senza alcun contatto con le cose del mondo.
Sì, ho amato come nessun altro sulla terra, di un amore insensato e furioso, tanto violento che io stesso mi stupisco non mi abbia fatto scoppiare il cuore. Quali notti ho conosciuto, quali notti! Sin dalla prima infanzia avevo sentito in me la vocazione religiosa; tutti i miei studi furono dunque indirizzati in tal senso, e la mia vita, fino a ventiquattro anni, non fu che un lungo noviziato. Finito il corso di teologia, ricevetti gli ordini minori, e i miei superiori mi giudicarono degno, pur con la mia giovinezza, di salire l’ultimo, temibile gradino. Dovevo venir ordinato durante la Settimana Santa.
Non ero mai stato nel mondo; ai miei occhi il mondo era costituito dal collegio e dal seminario. Sapevo vagamente che esisteva un essere chiamato donna, ma non vi fermavo mai il pensiero: ero di un’innocenza assoluta. Vedevo mia madre, vecchia e inferma, soltanto due volte l’anno. Erano questi i miei soli rapporti con l’esterno.
Non rimpiangevo nulla, non provavo alcuna esitazione di fronte a un impegno tanto irrevocabile: ero pieno di gioia e di impazienza. Mai giovane fidanzato ha contato le ore con ardore più febbrile. Non dormivo, sognavo di dir messa. Essere prete: non vedevo nulla di più bello al mondo. Avrei rifiutato di essere re o poeta. La mia ambizione non vedeva oltre.
Dico questo per dimostrarvi a qual punto quanto mi è accaduto non dovesse accadermi, e di quale misterioso incantesimo sia stato vittima.
Venuto il gran giorno, andavo verso la chiesa con passo così leggero che mi pareva di essere sorretto in aria, o di avere le ali. Mi credevo un angelo e mi stupivo della fisionomia cupa e ansiosa dei miei compagni; poiché eravamo in molti. Avevo passato la notte in preghiera e mi trovavo in uno stato prossimo all’estasi. Il vescovo, un vecchio venerabile, mi sembrava Dio Padre chino sulla sua eternità, e attraverso le volte del tempio vedevo il cielo.
Poiché voi conoscete i particolari della cerimonia: la benedizione, la comunione sotto le due specie, l’unzione delle palme delle mani con l’olio dei catecumeni, e infine il santo sacrificio offerto insieme al vescovo, non indugerò a ripeterli. Quanto rispondono a verità le parole di Giobbe, e quanto è imprudente chi non conclude un patto con i propri occhi! Per caso sollevai il capo che avevo tenuto chino fino a quel momento, e scorsi innanzi a me, tanto vicina che avrei potuto toccarla, sebbene fosse in realtà a grande distanza e dall’altro lato della balaustra, una giovane donna di rara bellezza e vestita con magnificenza regale. Fu come se di colpo potessi vedere. Provai la sensazione di un cieco che recuperasse improvvisamente la vista. Il vescovo, splendente sino ad allora ai miei occhi, si spense di colpo, le candele impallidirono nei candelieri d’oro come le stelle al sorgere dell’alba, e tutta la chiesa cadde improvvisamente in una completa oscurità. L’affascinante creatura si stagliava in quella penombra come una rivelazione angelica; sembrava brillare di luce propria.
Chinai le palpebre risoluto a non sollevarle più per sottrarmi all’influsso degli oggetti esterni; poiché la distrazione si impadroniva sempre più di me e sapevo appena quello che facevo.
Un istante dopo riaprii gli occhi: attraverso le ciglia la vedevo splendente dei colori del prisma, e in un’ombra purpurea come quando si guarda il sole.
La sua bellezza era straordinaria. Quando i più grandi pittori, cercando nel cielo la bellezza ideale, hanno portato sulla terra il ritratto della Madonna, non si avvicinano in alcun modo a quella favolosa realtà. Né i versi del poeta, né il pennello del pittore possono renderle giustizia. Era alta, con un personale e un portamento da dea; i capelli, di un biondo dolce, erano divisi al sommo del capo e le ricadevano sulle tempie come due fiumi d’oro, facendo di lei una regina incoronata di un diadema; la fronte, di un trasparente candore venato d’azzurro, si stendeva larga e serena sugli archi delle ciglia scure, singolarità che sottolineava l’effetto delle iridi verde mare, di una vivacità e di uno splendore insostenibili. Che occhi aveva! con uno sguardo decidevano la sorte di un uomo; avevano una vita, una limpidezza, un ardore, una liquidità brillante che non avevo mai visto in occhi umani; ne sfuggivano raggi simili a frecce che vedevo distintamente giungermi al cuore. Ignoro se la fiamma che li accendeva venisse dal cielo o dall’inferno, ma di certo veniva dall’uno o dall’altro. Era un angelo e un demonio, forse tutti e due. Non usciva certamente dal fianco di Eva, la madre comune. Denti luminosissimi scintillavano fra il rosso delle labbra, e piccole fossette apparivano a ogni movimento della bocca nelle guance rosate morbide come il raso. Il naso, di una finezza e fierezza regali, ne dimostrava la nobile origine. Splendori d’agata si accendevano sulla pelle compatta e morbida delle spalle, a metà scoperte, e giri di grosse perle bionde, di un colore quasi eguale al suo collo, le scendevano sul petto. A tratti alzava il capo con un movimento sinuoso simile a quello di una biscia o di un pavone che fa la ruota e faceva fremere lievemente l’alta gorgiera ricamata che la circondava come una rete d’argento.
Indossava un abito di velluto color granata, e dalle lunghe maniche foderate di ermellino uscivano mani aristocratiche, di straordinaria finezza, le dita morbide e affusolate di trasparenza tale da lasciar passare la luce come quelle dell’Aurora.
Questi particolari sono ancora a tal punto presenti alla mia memoria che potrebbero essere di ieri, e sebbene fossi estremamente turbato non mi sfuggiva nulla: la più impercettibile sfumatura, il piccolo neo al lato del mento, la lieve peluria all’angolo delle labbra, la fronte vellutata, l’ombra tremante delle ciglia sulle guance, coglievo ogni cosa con sorprendente lucidità.
Come la guardavo, sentivo spalancarsi in me porte che erano state sino ad allora chiuse; spiragli ostruiti si aprivano in tutti i sensi e lasciavano intravedere ignote prospettive; la vita mi appariva sotto un aspetto diverso; stavo nascendo a un nuovo ordine di idee. Una terribile angoscia mi attanagliava il cuore; ogni minuto che passava mi sembrava un secondo e un secolo.
La cerimonia proseguiva, e io venivo condotto molto lontano dal mondo di cui i miei nascenti desideri furiosamente assediavano l’ingresso. Dissi sì, quando volevo dire no, quando tutto in me si rivoltava e protestava contro la violenza che la lingua faceva alla mia anima: una forza occulta mi strappava mio malgrado le parole di bocca. Forse allo stesso modo tante giovanette vanno all’altare nella ferma risoluzione di rifiutare clamorosamente il marito che viene loro imposto, e nessuna di loro mette in atto il suo proposito. Allo stesso modo, senza dubbio, tante povere novizie prendono il velo, seppure decise a strapparlo al momento di pronunciare i voti. Non osano dare scandalo davanti a tutti, né tradire l’attesa di tanti; le volontà estranee, gli sguardi sembrano pesare come una cappa di piombo; e tutto è previsto, regolato sin da prima, in modo tanto palesemente irrevocabile, che il pensiero cede e si piega completamente.
Lo sguardo della bella sconosciuta cambiava espressione con il proseguire della cerimonia. Da tenero e carezzevole, divenne sdegnoso e malcontento come se non fosse stato compreso.
Feci uno sforzo tale da muovere una montagna, per gridare che non volevo essere prete; non accadde nulla; la lingua mi rimase attaccata al palato, e mi fu impossibile esprimere la mia volontà, fosse pure con il minimo cenno di negazione. Ero sveglio, in uno stato di incubo, quando si vuole gridare qualcosa da cui dipende la nostra vita, e non si riesce a dire nulla.
Lei parve avvertire il supplizio che provavo e, quasi per incoraggiarmi, mi lanciò uno sguardo pieno di meravigliose promesse. I suoi occhi erano un poema, e ogni sguardo rappresentava un canto.
Mi diceva:
Se vuoi essere mio, ti farò più felice di quanto sia Dio nel suo paradiso; gli angeli saranno gelosi. Strappa il lenzuolo funebre nel quale stai per avvolgerti; io sono la bellezza, la giovinezza, la vita; vieni a me, e saremo l’amore. Che potrebbe offrirti in cambio Geova? La nostra esistenza scorrerà come un sogno e sarà un bacio perenne.
Rovescia il vino del calice, e sei libero. Io ti condurrò verso luoghi sconosciuti; dormirai sul mio seno, in un letto d’oro massiccio sotto un padiglione d’argento; perché ti amo e voglio rapirti al tuo Dio, davanti al quale tanti nobili cuori spargono fiumi d’amore che non giungono a lui. Mi pareva di udire queste parole, su un ritmo di infinita dolcezza, poiché il suo sguardo era quasi sonoro, e le frasi che i suoi occhi mi mandavano risuonavano in fondo al mio cuore come se una bocca invisibile le sussurrasse alla mia anima. Ero pronto a rinunciare a Dio, e tuttavia il mio cuore seguiva macchinalmente i momenti della cerimonia. La bella creatura mi gettò un secondo sguardo così supplichevole, così disperato, che pugnali affilati mi trapassarono il cuore e mi sentii più spade nel petto che la Madonna dei sette dolori.
Ormai era finita; ero prete.
Mai su una fisionomia umana si dipinse angoscia tanto straziante; l’innamorata che vede il fidanzato cadere morto al suo fianco, la madre presso la culla vuota del suo bambino, Eva seduta sulla soglia della porta del paradiso, l’avaro che trova, al posto del suo tesoro, una pietra, il poeta che ha lasciato cadere nel fuoco il manoscritto della sua opera più bella, non hanno uno sguardo più atterrito e inconsolabile. Il sangue abbandonò completamente quel volto incantevole, e lei si fece bianca come il marmo; le braccia ricaddero lungo il corpo, come se i muscoli ne fossero stati spezzati, e lei si appoggiò a una colonna, poiché le gambe non la sorreggevano. Quanto a me, livido, la fronte madida di un sudore più sanguinante di quello del Calvario, mi dirigevo barcollando verso la porta della chiesa; soffocavo; le volte sembravano appesantirmisi sulle spalle, e avevo l’impressione di reggere con la testa l’intero peso della cupola.
Stavo varcando la soglia quando una mano si impadronì bruscamente della mia; una mano di donna. Non ne avevo mai toccata una. Era fredda come la pelle di un serpente, me ne rimase un segno bruciante come un marchio a fuoco. Era lei. «Disgraziato! disgraziato!» mi disse a voce bassa «che hai fatto?» poi scomparve tra la folla.
Passò il vecchio vescovo e mi guardò con aria severa. Mi conducevo in modo davvero singolare; impallidivo, arrossivo, avevo le vertigini. Uno dei miei compagni ebbe pietà di me, mi sostenne e mi accompagnò; non sarei stato in grado, da solo, di ritrovare la strada del seminario. A una svolta, mentre il giovane prete distoglieva il viso, un paggio negro, vestito bizzarramente, mi si avvicinò, e senza fermarsi mi diede un piccolo portafogli con gli angoli d’oro cesellati, facendomi segno di nasconderlo; lo feci scivolare nella manica e ve lo tenni fino a quando non fui solo nella mia cella. Feci allora saltare la chiusura: vi erano dentro due fogli con queste parole: «Clarimonda, al palazzo Concini». Ero tanto all’oscuro delle cose della vita da non conoscere Clarimonda, a dispetto della sua notorietà, e da ignorare dove fosse il palazzo Concini. Feci mille ipotesi, una più bizzarra dell’altra; ma, in verità, purché potessi rivederla, mi interessava ben poco chi fosse, gran dama o cortigiana.
Quell’amore appena nato si era radicato indistruttibilmente; non pensai neppure a cercare di strapparlo, tanto mi sembrava impossibile. Quella donna si era completamente impadronita di me; un solo sguardo era bastato per cambiarmi, mi aveva ispirato la sua volontà; non vivevo più in me, ma in lei e per lei. Mi conducevo in modo singolare, mi baciavo la mano nel punto dove lei l’aveva toccata, ripetevo il suo nome per ore intere. Dovevo soltanto chiudere gli occhi per vederla come fosse stata presente, e mi ripetevo le parole che aveva pronunciato sul portale della chiesa: Disgraziato! disgraziato! che hai fatto?. Comprendevo tutto l’orrore della mia situazione, e i lati funebri e terribili del mio stato mi si rivelavano con chiarezza. Essere prete! essere casto, non amare, non fare distinzioni né di sesso né di età, sottrarsi a qualsiasi bellezza, accecarsi, strisciare all’ombra glaciale di un chiostro o di una chiesa, non vedere che moribondi, vegliare cadaveri sconosciuti, e portare il lutto di se stessi nella tonaca nera, così che si possa fare del vostro abito un drappo per la vostra bara! E io sentivo in me salire la vita come un lago sotterraneo che si gonfia e straripa; il sangue batteva con forza nelle arterie; la mia giovinezza, così a lungo repressa, scoppiava di colpo come l’aloe che fiorisce ogni cento anni e esplode con un colpo di tuono.
Che fare per vedere Clarimonda? Non avevo alcun pretesto per uscire dal seminario, non conoscendo nessuno in città; né sarei rimasto in quel seminario: attendevo soltanto che mi comunicassero in quale parrocchia dovevo recarmi. Cercai di svellere le inferriate della finestra, ma era a un’altezza pericolosa, e non avendo una scala era inutile soltanto pensarci. D’altronde potevo scendere solo di notte; come mi sarei districato nel dedalo delle strade? Difficoltà, queste, che non sarebbero state tali per altri, ma erano immense per me, povero seminarista, innamorato da poco tempo, senza esperienza, senza danaro e senza abiti laici.
Se non fossi stato prete, avrei potuto vederla tutti i giorni; sarei stato il suo amante, il suo sposo, mi dicevo nel mio cieco delirio; non più avvolto nel mio triste sudario, avrei avuto abiti di seta e di velluto, catene d’oro, e una spada e piume come i giovani e bei cavalieri. I miei capelli, non più disonorati da una larga tonsura, mi sarebbero ricaduti sul collo in boccoli ondulati. Avrei avuto baffi impomatati, sarei stato audace e coraggioso. Ma un’ora passata dinanzi a un altare, poche parole mormorate appena mi toglievano per sempre dal numero dei vivi, e io stesso avevo sigillato la mia pietra tombale, avevo chiuso con le mie mani il chiavistello della prigione! Andai alla finestra. Il cielo era di un azzurro mirabile, gli alberi avevano la veste primaverile; la natura sembrava far sfoggio di una gioia ironica. La piazza era affollata; i passanti andavano e venivano; i giovani bellimbusti e giovani bellezze del luogo, a coppie, si dirigevano verso il giardino e i pergolati. Alcuni buontemponi passavano cantando ritornelli allegri; ovunque movimento, vita, allegria, gaiezza, che davano penoso risalto al mio lutto e alla mia solitudine. Una giovane madre, sulla porta, giocava con il suo bambino, baciava la sua boccuccia rosea, ancora imperlata di gocce di latte, e gli faceva, stuzzicandolo, quelle incantevoli puerilità che solo le madri sanno trovare. Il padre, in piedi, poco lontano, sorrideva dolcemente a quel gruppo, e con le braccia incrociate stringeva la sua felicità sul cuore. Non potei sopportare quello spettacolo; chiusi la finestra e mi gettai sul letto in preda all’odio e alla gelosia, mordendo le mie dita e la coperta, come una tigre digiuna da tre giorni.
Non so quanti giorni rimasi in quello stato; ma volgendomi in un moto di spasimo furioso, vidi padre Serapione, ritto al centro della stanza, che mi guardava attentamente. Ebbi vergogna di me stesso, e chinando la testa sul petto mi coprii gli occhi con le mani.
«Romualdo, amico mio, vi accade qualcosa di straordinario» mi disse Serapione dopo un breve silenzio. «La vostra condotta è davvero inspiegabile. Voi, così pio, così calmo e dolce, vi agitate nella cella come una belva. Siate vigile, fratello, e non ascoltate i suggerimenti del demonio; lo spirito maligno, furioso sin dal momento in cui vi siete per sempre consacrato al Signore, si aggira intorno a voi come un lupo, e fa l’ultimo sforzo per attirarvi a sé. Non lasciatevi abbattere, ma fatevi una corazza di preghiere, uno scudo di mortificazioni e combattete valorosamente il nemico: lo vincerete. La prova è necessaria alla virtù, e l’oro esce più puro dal crogiuolo. Non vi spaventate e non vi scoraggiate. Le anime meglio custodite e più forti hanno attraversato momenti come il vostro. Pregate, digiunate, meditate, e lo spirito maligno sarà sconfitto.»
Il discorso di padre Serapione mi fece rientrare in me, e mi sentii più calmo. «Venivo a annunciarvi la vostra nomina alla parrocchia di C., il prete che ne era parroco è morto, e monsignor vescovo mi ha incaricato di condurvi a sostituirlo; siate pronto per domani.» Assentii con un cenno del capo, e padre Serapione si congedò. Aprii il breviario e cominciai a leggere le mie preghiere; ma le righe mi si confusero sotto gli occhi, il filo delle idee mi si accavallò nel cervello, e il volume mi scivolò di mano senza che me ne rendessi conto.
Partire l’indomani senza averla rivista! Aggiungere un nuovo ostacolo a quelli che già ci separavano! Perdere per sempre la speranza di incontrarla, senza un prodigio improvviso! Scriverle? Ma da chi le farei avere la lettera? Nell’abito che indossavo, a chi confidarmi? Di chi fidarmi? Ero in preda a un’ansia terribile. E ecco, mi tornò in mente quanto padre Serapione mi aveva detto sugli artifici del diavolo, la stranezza dell’avventura, la bellezza sovrumana di Clarimonda, lo splendore fosforescente dei suoi occhi, il tocco bruciante della sua mano, l’improvviso mutamento avvenuto in me, la mia fede svanita in un attimo: tutto provava chiaramente la presenza del demonio, e quella mano vellutata era forse solo il guanto in cui aveva nascosto gli artigli. A tali idee mi colse un vivo spavento; presi il breviario che era scivolato a terra dalle mie ginocchia, e ricominciai a pregare.
L’indomani, Serapione venne a prendermi; due muli ci aspettavano alla porta, carichi delle nostre magre valigie; come meglio potemmo, padre Serapione ne montò uno, e io l’altro. Mentre percorrevamo le strade della città io guardavo tutte le finestre, tutti i balconi nella speranza di vedere Clarimonda; ma era troppo presto, e la città non aveva ancora aperto gli occhi. Il mio sguardo cercò di penetrare di là dalle persiane, attraverso le tende di tutti i palazzi davanti ai quali passammo. Serapione attribuiva senza dubbio tanta curiosità all’ammirazione che suscitava in me la bellezza dell’architettura, poiché rallentava il passo per darmi il tempo di vedere.
Arrivammo infine alla porta della città, e prendemmo a salire la collina. Quando ne raggiunsi la sommità, mi volsi per guardare ancora una volta i luoghi in cui viveva Clarimonda. L’ombra di una nuvola copriva interamente la città: i tetti rossi e azzurri erano come sfumati in una tinta che uguagliava tutto, dalla quale affioravano a tratti, come bianchi fiocchi di spuma, i vapori del mattino. Per uno strano effetto ottico, biondo e dorato sotto un unico raggio di luce si disegnava un edificio più alto degli edifici vicini, completamente sommersi dal vapore; sebbene fosse lontano più di una lega, sembrava vicinissimo: se ne distingueva ogni particolare, le torrette, i tetti a terrazza, le finestre, fino alle banderuole a forma di rondine.
«Qual è quel palazzo che vedo laggiù illuminato dal sole?» chiesi a Serapione. Egli si fece schermo agli occhi con la mano e dopo aver guardato rispose: «È l’antico palazzo che il principe Concini ha regalato alla cortigiana Clarimonda: vi accadono cose spaventose».
In quel momento, non so ancora se fosse realtà o illusione, mi parve di veder scivolare sulla terrazza una forma lieve e bianca che splendette un istante e subito si spense: Clarimonda.
Sapeva che a quell’ora, dall’alto dell’aspro cammino che mi portava lontano da lei e che non avrei mai più ridisceso, ardente e inquieto, covavo con gli occhi il palazzo in cui lei abitava e che un gioco irridente di luce sembrava avvicinare a me, quasi a invitarmi a entrare da padrone? Senza alcun dubbio lo sapeva, poiché la sua anima era troppo legata alla mia per non sentirne la minima vibrazione, e questo l’aveva spinta, ancora avvolta nei veli notturni, a salire sull’alto della terrazza nella glaciale rugiada del mattino.
L’ombra raggiunse il palazzo, e non vi fu più che un oceano immobile di tetti e di cuspidi dove nulla si distingueva se non una ondulazione montuosa. Serapione spronò la mula, la mia ne seguì subito il passo, e un gomito della strada mi privò per sempre della città di S., che non dovevo più rivedere. In capo a tre giorni di cammino lungo campagne malinconiche, vedemmo spuntare tra gli alberi il gallo del campanile della chiesa in cui dovevo officiare; dopo aver seguito alcune strade tortuose, fiancheggiate da capanne e giardinetti, giungemmo alla facciata che non era di grande magnificenza. Un portico ornato da costoloni di volta e due o tre rozzi pilastri di arenaria, un tetto di tegole, contrafforti della stessa arenaria dei pilastri: era tutto; a sinistra il cimitero pieno di alte erbe, con una gran croce di ferro nel mezzo; a destra, all’ombra della chiesa, la canonica. La casa era di un’estrema semplicità e di un’arida pulizia. Entrammo; alcune galline becchettavano gli scarsi grani d’avena; apparentemente abituate all’abito nero degli ecclesiastici, non si intimidirono per la nostra presenza e si allontanarono appena per lasciarci passare. Sentimmo un abbaiare roco e vedemmo accorrere un vecchio cane.
Era il cane del mio predecessore. Aveva gli occhi spenti, il pelo grigio e tutti i segni della vecchiaia più estrema che un cane possa raggiungere. Lo accarezzai dolcemente, e il cane si mise subito a camminarmi al fianco con aria di inesprimibile soddisfazione. Una donna anziana, la governante del parroco, ci venne subito incontro e, dopo avermi introdotto in una sala bassa, mi chiese se intendevo tenerla. Le risposi di sì e aggiunsi che avrei tenuto anche il cane e le galline, e tutti i mobili che il suo padrone le aveva lasciato quando era morto; questo la rallegrò immensamente, poiché padre Serapione le diede subito il prezzo che lei ne chiedeva.
Quando mi fui installato, padre Serapione tornò al seminario, lasciandomi solo e senza altro appoggio che me stesso. Il pensiero di Clarimonda riprese a ossessionarmi, e per quanto mi affannassi a scacciare il ricordo, non sempre vi riuscivo. Una sera, mentre passeggiavo nei vialetti fiancheggiati da siepi di bosso del giardino, mi sembrò di vedere di là dalla pergola una forma di donna che seguiva tutti i miei movimenti, e tra le foglie brillare le due pupille verdi come il mare; ma era soltanto un’illusione, e, passato dall’altra parte del viale, non trovai che l’orma di un piede sulla sabbia, tanto piccolo da parere il piede di un fanciullo. Il giardino era circondato da alte mura; guardai in tutti gli angoli più nascosti e non vidi nessuno. Non ho mai saputo spiegare tale circostanza, che era d’altronde poca cosa paragonata agli strani eventi che dovevano accadere. Vivevo così da un anno, adempiendo con scrupolo a tutti i doveri del mio stato, pregando, digiunando, confortando e soccorrendo gli ammalati, facendo elemosine fino a privarmi dell’indispensabile. Ma sentivo in me un’aridità estrema, e le sorgenti della grazia mi erano precluse. Non conoscevo la gioia che dà il compimento di una santa missione; i miei pensieri erano altrove, e le parole di Clarimonda mi venivano spesso alle labbra come un involontario ritornello. Meditate bene questa circostanza, fratello mio. Per aver alzato una sola volta lo sguardo su una donna, per una colpa all’apparenza tanto leggera, ho sofferto molti anni le più miserevoli angustie: la mia vita è stata turbata per sempre.
Non indugerò ancora sulle sconfitte e sulle vittorie interiori seguite sempre da ricadute più profonde, e passerò subito a una circostanza decisiva. Una notte qualcuno suonò violentemente alla porta. La vecchia governante andò ad aprire, e un uomo dalla pelle abbronzata, riccamente vestito secondo una moda straniera e con un lungo pugnale, apparve ai raggi della lanterna di Barbara. Dapprima lei ebbe paura; ma l’uomo la rassicurò e le disse che doveva vedermi immediatamente per qualcosa che riguardava il mio ministero. Barbara lo fece salire. Io stavo andando a letto. L’uomo mi disse che la sua padrona, una gran dama, era moribonda e chiedeva un prete. Risposi che ero pronto a seguirlo; presi quanto mi era necessario per amministrare l’estrema unzione, e discesi in fretta. Alla porta scalpitavano due cavalli neri come la notte, che soffiavano lunghi fiotti di vapore. L’uomo mi tenne la staffa e mi aiutò a montare in sella, quindi balzò sull’altro cavallo, appoggiando appena una mano al pomolo della sella, strinse le ginocchia e allentò le redini all’animale che partì come una freccia. Il mio cavallo, del quale pure teneva la briglia, partì al galoppo, e entrambi mantennero la stessa andatura. Divoravamo la strada; la terra grigia e solcata dagli zoccoli filava sotto di noi, le nere sagome degli alberi fuggivano come un’armata in rotta. Traversammo una foresta di una oscurità così opaca e glaciale, che sentii un brivido di superstizioso terrore corrermi sulla pelle. Le sprizzanti scintille che gli zoccoli dei cavalli traevano dai ciottoli lasciavano al nostro passaggio una striscia di fuoco, e se qualcuno, a quell’ora di notte, avesse visto la mia guida o me, ci avrebbe presi per due spettri a cavallo di un incubo. Fuochi fatui traversavano di quando in quando la strada, e gli uccelli notturni pigolavano in modo pietoso nel folto del bosco, dove brillavano a tratti gli occhi fosforescenti di un gatto selvatico. Le criniere dei cavalli si scompigliavano sempre più, il sudore scorreva sui loro fianchi, e il respiro usciva bruciante e affannoso dalle narici. Ma quando li vedeva indebolirsi, lo scudiero emetteva un grido gutturale che non aveva nulla di umano, e la corsa ricominciava con furia. Infine il turbine si fermò. Una massa nera punteggiata da qualche luce si erse improvvisamente davanti a noi; i passi ferrati dei cavalli risuonarono più forte sull’impiantito, e entrammo sotto una volta che spalancava la sua gola scura fra due enormi torri. Una grande agitazione regnava nel castello; domestici percorrevano in tutte le direzioni i cortili reggendo una torcia, e i lumi salivano e scendevano da un pianerottolo all’altro. Intravidi confusamente immense architetture, colonne, arcate, portici e rampe, un lusso architettonico regale e fiabesco. Un paggio negro, lo stesso che mi aveva dato il messaggio di Clarimonda e che riconobbi immediatamente, venne per aiutarmi a scendere, e un maggiordomo, vestito di velluto nero, con una catena d’oro al collo e un bastone d’avorio in mano, avanzò verso di me. Grosse lagrime gli scendevano dagli occhi e gli colavano lungo le guance sulla barba bianca. «Troppo tardi!» disse scuotendo il capo «troppo tardi, reverendo; ma se non avete potuto salvare l’anima, venite a vegliare il povero corpo.» Mi prese per un braccio e mi condusse nella camera ardente; io piangevo come lui, poiché avevo compreso che la morta altri non era se non Clarimonda, tanto appassionatamente amata. Un inginocchiatoio era accanto al letto; una fiamma bluastra fluttuava su una patèra di bronzo gettando in tutta la stanza una luce debole e incerta, traendo a tratti dall’ombra lo spigolo di un mobile o di una parete. Sulla tavola, in un’urna cesellata, appassiva una rosa bianca, i cui petali, a eccezione di uno solo rimasto sul ramo, erano tutti caduti ai piedi del vaso come lagrime profumate; una maschera nera spezzata, un ventaglio, travestimenti di ogni genere sparsi sulle poltrone, dimostravano che la morte era giunta in quella sontuosa dimora all’improvviso, senza farsi annunciare. Mi inginocchiai non osando guardare il letto, e cominciai a recitare i salmi con grande fervore, ringraziando Iddio per aver messo la tomba tra il pensiero di quella donna e me, affinché potessi aggiungere alle mie preghiere il suo nome ormai santificato. Ma a poco a poco il mio slancio rallentò, e io caddi in una sorta di fantasticheria. La camera non aveva nulla di una camera di morte. Non vi regnava Paria fetida e cadaverica che ero abituato a respirare nelle veglie funebri, ma un languido fumo di essenze orientali, non so quale amoroso profumo di donna ondeggiava dolcemente nell’aria tiepida. La luce pallida sembrava una penombra preparata per la voluttà, ben più che la luce dai riflessi giallastri che tremola presso i cadaveri. Pensavo allo strano caso che mi aveva ricongiunto a Clarimonda nel momento in cui la perdevo per sempre, e un sospiro di rimpianto mi sfuggì dal petto. Mi sembrò che qualcuno avesse sospirato alle mie spalle e mi volsi senza volerlo. Era l’eco. Ma in quel movimento lo sguardo mi cadde sul letto che avevo, sino ad allora, evitato di guardare. Le cortine di damasco rosso a grandi fiori, sollevate da cordoni d’oro, lasciavano vedere la morta distesa, le mani giunte sul petto. Era coperta da un velo di un candore abbagliante, che il cupo color porpora dei tendaggi metteva in risalto, e di una finezza tale da non nascondere la forma perfetta del suo corpo, permettendo di seguire le belle linee sinuose come il collo di un cigno che la morte stessa non aveva potuto irrigidire. Era simile a una statua di alabastro, scolpita da un abile scultore per collocarla sulla tomba di una regina, o a una giovane donna addormentata sotto la neve.
Non resistevo più; quell’atmosfera di alcova mi sfiniva, quel profumo febbrile di rosa appassita mi inebriava, e camminavo a grandi passi nella camera, fermandomi ogni volta davanti alla pedana del letto per guardare la bella morta sotto la trasparenza del sudario. Strani pensieri mi attraversavano lo spirito; immaginavo che non fosse morta veramente, che fosse soltanto una finzione per attirarmi nel suo castello e parlarmi d’amore. Per un istante credetti di averle visto muovere un piede sotto il candore dei veli, e che le pieghe immobili del sudario fossero mutate.
E mi domandavo: È davvero Clarimonda? quali prove ne ho? Il paggio negro non può essere passato al servizio di un’altra donna? Sono pazzo, a disperarmi e a turbarmi in tal modo. Ma il cuore mi rispose in un palpito: È lei, è proprio lei. Mi avvicinai al letto e guardai più attentamente l’oggetto della mia incertezza. Devo confessarvelo? Quella perfezione di forme, per quanto purificata e santificata dall’ombra della morte, mi turbava ben più voluttuosamente di quanto avrebbe dovuto, e il suo riposo assomigliava tanto a un sonno, che tutti ne sarebbero stati ingannati. Dimenticavo che ero giunto per un ufficio funebre, e immaginavo di essere un giovane sposo che entra nella camera della fidanzata, e lei nasconde per pudore il viso, e non vuol lasciarsi vedere.
Desolato dal dolore, esaltato dalla gioia, rabbrividendo di timore e di piacere, mi chinai su di lei e presi un angolo del velo; lo sollevai lentamente, trattenendo il respiro, nel timore di ridestarla. Le vene in me palpitavano così forte che le sentivo battere alle tempie, e la fronte era bagnata di sudore come avessi sollevato una lastra di marmo. Era in verità Clarimonda, quale l’avevo veduta in chiesa durante la mia ordinazione, incantevole come allora: la morte in lei sembrava una civetteria in più. Il pallore del viso, il rosa meno vivo delle labbra, le lunghe ciglia abbassate che disegnavano la loro frangia bruna su tanto candore le davano un’espressione di malinconica castità e di pensosa sofferenza inesprimibilmente seducente; i lunghi capelli sciolti, che trattenevano ancora piccoli fiori azzurri, le facevano da cuscino e proteggevano con i loro boccoli le nudità delle spalle; le belle mani, più pure, più diafane delle ostie, erano incrociate in atteggiamento di devoto riposo e silenziosa preghiera, e attenuavano quel che avrebbe potuto esservi di troppo seducente, fosse pure nella morte, nella squisita rotondità e nella levigatezza d’avorio delle braccia nude dalle quali non avevano tolto i braccialetti di perle. Rimasi a lungo assorto in muta contemplazione, e più la guardavo meno potevo credere che la vita avesse abbandonato per sempre quel bel corpo. Ignoro se fosse un’illusione o un riflesso della lampada, ma parve che il sangue ricominciasse a circolare sotto quel pallore opaco, e tuttavia lei giaceva sempre nella più completa immobilità. Le sfiorai il braccio; era freddo, ma non più freddo della mano nel giorno in cui aveva toccato la mia sotto il portale della chiesa. Mi risollevai, chinando il viso sul suo e lasciando cadere sul suo volto la tiepida rugiada delle lagrime. Quale amaro senso di disperazione e di impotenza, quale agonia fu quella veglia. Avrei voluto raccogliere in un pugno la mia vita per donargliela e alitare sulla spoglia gelida la fiamma che mi divorava. La notte avanzava, e sentendo avvicinarsi il momento dell’eterna separazione non volli rifiutarmi la triste e suprema dolcezza di deporre un bacio sulle labbra morte di colei che aveva avuto il mio amore. Oh, prodigio! un leggero respiro si unì al mio e la bocca di Clarimonda rispose alla pressione della mia; i suoi occhi si aprirono e ripresero una pallida luce; diede in un sospiro e sciogliendo le braccia mi circondò il collo con ineffabile rapimento. «Ah, sei tu, Romualdo» disse con voce languida e dolce come le ultime vibrazioni di un’arpa. «Finalmente! Ho atteso tanto a lungo da morire. Ma ora siamo fidanzati, potrò vederti e venire con te! Addio, Romualdo, addio! ti amo; è tutto quanto volevo dirti, e ti rendo la vita che tu hai ridestato in me per un istante con un bacio; a presto.»
La testa le ricadde sul cuscino, ma le sue braccia mi circondavano come a trattenermi. Un turbine di vento furioso spalancò la finestra e entrò nella camera; l’ultimo petalo della rosa bianca palpitò come un’ala sulla cima del ramo, poi si staccò e volò via dalla finestra aperta portando con sé l’anima di Clarimonda. La lampada si spense e io caddi svenuto sul seno della bella morta.
Quando tornai in me, ero coricato nel mio letto, nella piccola camera della canonica, e il vecchio cane mi leccava la mano abbandonata fuori dalla coperta. Barbara si affannava nella stanza in preda a un tremito senile, aprendo e chiudendo cassetti o mescolando polverine nei bicchieri.
Vedendomi aprire gli occhi, diede in un grido di gioia, il cane guaì e dimenò la coda; ma io ero tanto debole da non poter pronunciare parola né fare un cenno. Seppi, in seguito, che ero rimasto così per tre giorni, dando come unico segno di vita un respiro quasi insensibile. Quei tre giorni non contano nella mia esistenza, e ignoro dove fosse il mio spirito durante quel tempo; non ne conservo alcun ricordo. Barbara mi ha narrato che lo stesso uomo dalla pelle abbronzata venuto a cercarmi nella notte mi aveva riportato la mattina seguente in una lettiga chiusa ed era subito ripartito. Quando fui in grado di ricordare, mi riportai alla memoria tutti gli avvenimenti di quella notte fatale. Dapprima pensai di essere stato lo zimbello di una magica illusione; ma circostanze reali e palpabili distrussero presto le mie supposizioni. Non potevo credere di aver sognato, perché Barbara aveva visto come me l’uomo con i due cavalli neri, del quale descriveva l’abbigliamento e l’aspetto con esattezza. Tuttavia nessuno conosceva nei dintorni un castello corrispondente alla descrizione del castello nel quale avevo ritrovato Clarimonda.
Una mattina vidi entrare padre Serapione. Barbara gli aveva fatto sapere che ero ammalato, e lui era accorso in tutta fretta. Per quanto la premura dimostrasse affetto e interesse per me, la sua visita non mi recò il piacere che avrebbe dovuto. Padre Serapione aveva nello sguardo un che di penetrante e di interrogativo che mi metteva a disagio. Mi sentivo imbarazzato e colpevole di fronte a lui. Per primo aveva scoperto il mio turbamento interiore, e io non gli perdonavo tanta chiaroveggenza.
Mentre mi chiedeva notizie della mia salute con ipocrita aria melliflua, fissava su di me le sue fulve pupille leonine e affondava come una sonda il suo sguardo nel mio animo. Poi mi fece qualche domanda sul modo in cui conducevo la parrocchia: se mi piaceva starci, come passavo il tempo che il mio ministero mi lasciava libero, se avevo fatto conoscenze tra gli abitanti del luogo, quali fossero le mie letture preferite, e molti altri particolari. Io rispondevo brevemente, e lui stesso, senza lasciarmi finire, passava a altro. La conversazione non aveva palesemente alcun rapporto con quel che voleva dirmi. Quindi, senza preamboli e come fosse una notizia che ricordava in quel momento e temeva di dimenticare in seguito, mi disse con voce chiara e vibrante che risuonò alle mie orecchie come la tromba del giudizio finale:
«La grande cortigiana Clarimonda è morta di recente, in seguito a un’orgia durata otto giorni e otto notti. Un’orgia di infernale splendore. Si sono rinnovati gli abominii dei festini di Baldassarre e di Cleopatra. In che secolo viviamo mai! Schiavi dal colorito bruno servivano gli invitati parlando una lingua sconosciuta, e erano ai miei occhi autentici demoni; la livrea del meno importante avrebbe potuto essere l’abito di gala di un imperatore. Si sono sempre dette cose molto strane sul conto di Clarimonda, e tutti i suoi amanti sono finiti in modo miserevole o violento. Si è detto che era una vampira; ma io credo fosse Belzebù in persona.»
Tacque e mi osservò più attentamente del consueto, per vedere quale effetto avessero avuto su di me le sue parole. Non avevo saputo evitare un moto improvviso al nome di Clarimonda, e la notizia della sua morte non soltanto mi causava dolore per la strana coincidenza con la scena notturna della quale ero stato testimone; mi gettò in un turbamento e in un terrore che apparvero sul mio viso, a dispetto dei miei sforzi per dominarmi. Serapione mi guardò con aria inquieta e severa; poi disse: «Figlio mio, devo avvertirvi: avete un piede sull’abisso, badate di non cadervi. Satana ha lunghi artigli, e le tombe non sono sempre fedeli. La pietra tombale di Clarimonda dovrebbe essere sigillata tre volte; poiché, a quanto si dice, non è la prima volta che muore. Iddio vegli su di voi, Romualdo».
Pronunciate queste parole, si avviò lentamente verso la porta e io non lo rividi più, poiché partì per S. quasi subito.
Ero ormai pienamente ristabilito e avevo ripreso le mie funzioni abituali. Il ricordo di Clarimonda e le parole del vecchio abate mi erano sempre presenti allo spirito; tuttavia nessun avvenimento straordinario aveva confermato le funebri previsioni di Serapione, e cominciavo a credere che i suoi timori e i miei terrori fossero eccessivi; ma una notte feci un sogno.
Avevo appena assaporato le prime sorsate di sonno, quando sentii aprire le tende del mio letto e scorrere gli anelli sui bastoni con un rumore stridente; mi appoggiai bruscamente sul gomito e vidi l’ombra di una donna, in piedi davanti a me. Riconobbi immediatamente Clarimonda. Aveva in mano una piccola lampada simile a quelle che si mettono sulle tombe, la cui luce dava alle sue dita affilate una rosea trasparenza che sfumava lievemente fino al candore opaco e latteo del braccio nudo. Per tutto vestito aveva il sudario di lino che la ricopriva sul letto di morte, e ne tratteneva le pieghe sul petto, come vergognosa di un abito tanto succinto, ma la sua piccola mano non era sufficiente; era così bianca che il colore del drappeggio si confondeva con quello delle carni, sotto il pallido raggio della lampada. Avvolta in quel sottile tessuto che tradiva tutti i contorni del corpo, sembrava la statua di marmo di un’antica bagnante, più che una donna viva. Morta o viva, statua o donna, ombra o corpo, la sua bellezza era tuttavia intatta; il solo splendore verde degli occhi era un poco spento, e la bocca, un tempo vermiglia, non aveva più che un colore rosato, lieve e tenero, simile quasi a quello delle guance. I piccoli fiori azzurri che avevo veduto tra i suoi capelli erano secchi e avevano perduto quasi tutte le foglie; non per questo era meno incantevole, tanto incantevole che, pur con la singolarità dell’avventura e il modo inspiegabile in cui era entrata nella mia stanza, non conobbi un solo istante di spavento.
Lei posò la lampada sulla tavola e sedette ai piedi del letto, quindi disse chinandosi verso di me, con quella voce argentina e vellutata a un tempo che io ho sentito solo da lei:
«Mi sono fatta attendere, caro Romualdo, e avrai creduto che ti avessi dimenticato. Ma vengo da molto lontano e da un luogo dal quale nessuno era mai tornato: non vi è luna né sole nel paese da cui giungo; non vi è che spazio e ombra; né cammino, né sentiero; non terra per i piedi, né aria per le ali; e tuttavia eccomi qui, poiché l’amore è più forte della morte, e finirà per vincerla. Quanti visi tetri e quante cose orribili ho veduto nel mio viaggio. Quale affanno per la mia anima, rientrata nel mondo con la potenza della volontà, ritrovare il mio corpo e riprenderne possesso. Quanti sforzi ho dovuto compiere per sollevare la pietra con la quale mi avevano coperta. Guarda: le palme delle mie povere mani sono tutte ferite. Baciale per guarirle, amore mio!»
Mi mise le mani gelide, una dopo l’altra, sulla bocca; io le baciai più di una volta, e lei mi guardava con ineffabile compiacimento.
Lo confesso a mia vergogna: avevo completamente dimenticato gli avvertimenti di padre Serapione, e l’abito che rivestivo. Ero caduto senza resistere, al primo assalto, senza soltanto tentare di respingere il tentatore; la freschezza della pelle di Clarimonda penetrava nella mia, e il mio corpo era percorso da brividi voluttuosi. Povera creatura, pur dopo tutto quello che ho visto stento ancora a credere che fosse un demonio; certo non ne aveva l’aria, e mai Satana ha nascosto meglio i suoi artigli e le sue corna. Aveva ripiegato le gambe sotto di sé e rimaneva accovacciata ai bordi del letto in un atteggiamento pieno di svagata civetteria. Di quando in quando mi passava la piccola mano tra i capelli e li arricciava a boccoli come a provare nuove acconciature. Io la lasciavo fare con colpevole compiacimento, e lei accompagnava i suoi gesti con un delizioso cinguettio. È davvero singolare che io non provassi alcuna meraviglia per un’avventura tanto straordinaria; al contrario, con la facilità che si ha nel sogno di accettare come fossero semplici gli eventi più bizzarri, io non vedevo in quanto avveniva nulla che non fosse naturale.
«Ti amavo molto tempo prima di vederti, mio caro Romualdo; e ti cercavo dappertutto. Eri il mio sogno; e ti scorsi in chiesa nel momento fatale; dissi subito: È lui!. Ti gettai uno sguardo in cui misi tutto l’amore che avevo avuto, che avevo e che dovevo avere per te; uno sguardo da dannare un cardinale, da far inginocchiare un re ai miei piedi, davanti a tutta la corte. Tu rimanesti impassibile e preferisti il tuo Dio.
«Ah, quanto sono gelosa di Dio, che hai amato e che ami ancora più di me! «Infelice, infelice che io sono; non avrò mai il tuo cuore tutto per me, io che tu hai restituito alla vita con un bacio, Clarimonda la morta, che forza per te le porte della tomba e viene a consacrarti la vita che ha ripreso solo per renderti felice!»
Le sue parole erano pronunciate fra deliranti carezze che mi stordirono i sensi e la ragione, al punto che non temetti, per consolarla, di pronunciare una terribile bestemmia e di dirle che l’amavo quanto amavo Dio.
Le sue pupille si ravvivarono e brillarono come crisopazi. «È vero, è proprio vero: quanto ami Iddio!» disse stringendomi tra le belle braccia. «Verrai dunque con me, mi seguirai dove vorrò. Lascerai queste povere vesti nere; sarai il più fiero e il più invidiato dei cavalieri, sarai il mio amante. È bello essere l’amante di Clarimonda, che ha rifiutato un papa. Ah, che bella vita vivremo, che esistenza dorata. Quando partiamo, mio bel gentiluomo?»
«Domani! domani!» gridai nel mio delirio.
«E sia, domani! Avrò tempo di cambiare abito: questo è troppo succinto e non è adatto a un viaggio. E dovrò avvertire la mia gente che mi crede morta davvero e si dispera. Il denaro, gli abiti, le carrozze, tutto sarà pronto; verrò a prenderti a quest’ora. A domani, caro amore.» E mi sfiorò la fronte con le labbra. La lampada si spense, le tende ricaddero, e non vidi più nulla; un sonno di piombo, un sonno senza sogni, pesò su di me e mi intorpidì fino all’indomani. Mi risvegliai più tardi del consueto, e il ricordo della strana visione mi turbò per tutto il giorno; infine mi convinsi si trattasse dei fumi della mia immaginazione esaltata. Tuttavia si era trattato di sensazioni così vive che era difficile non crederle reali, e mi coricai con una certa ansia per quanto poteva accadermi, dopo aver pregato Iddio di allontanare da me i cattivi pensieri e di proteggere la castità del mio sonno.
Mi addormentai subito profondamente, e il sogno continuò. Le tende si aprirono e io vidi Clarimonda, non più come la prima volta, pallida nel suo pallido sudario, le viole della morte sulle guance, ma gaia, svelta, attraente, con un superbo abito da viaggio in velluto verde ornato di cordoncini dorati, rialzato di lato a mostrare la gonna di raso. I capelli biondi sfuggivano in grossi riccioli di sotto un largo cappello di feltro nero, capricciosamente ornato di piume bianche arricciate; aveva in mano un frustino che terminava con un fischietto d’oro. Mi sfiorò leggermente e mi disse: «Ebbene, mio bel dormiente, così fate i vostri preparativi? Contavo di vedervi in piedi. Alzatevi, presto, non abbiamo tempo da perdere». Balzai dal letto.
«Andiamo. Vestitevi e partiamo» mi disse mostrandomi un pacchetto che aveva portato. «I cavalli si annoiano e mordono il freno alla porta. Dovremmo già essere a dieci leghe da qui.»
Mi vestii in fretta mentre mi tendeva lei stessa gli indumenti, ridendo del mio impaccio e indicandomi come dovevo usarli, quando sbagliavo. Mi pettinò i capelli, e quando fui pronto mi tese un piccolo specchio da tasca, in cristallo di Venezia bordato di filigrana d’argento, e mi disse: «Come ti trovi? Vuoi prendermi al tuo servizio come valletto?».
Non ero più lo stesso, e non mi riconobbi. Non rassomigliavo a me stesso più di quanto una statua finita assomigli a un blocco di pietra. Il mio antico aspetto sembrava soltanto l’abbozzo di quel che ora lo specchio rifletteva. Ero bello, e la mia vanità fu solleticata dalla metamorfosi. Gli abiti eleganti, la bella giacca ricamata, mutavano completamente la mia persona, e io ammiravo la potenza di qualche metro di stoffa tagliata in un certo modo. Lo spirito dell’abito mi penetrava nella pelle e in capo a dieci minuti ero già vanesio.
Girai intorno alla stanza per darmi un tono disinvolto. Clarimonda mi guardava con compiacenza materna e sembrava soddisfatta della sua opera. «Basta con queste sciocchezze ora; in viaggio, mio caro Romualdo. Andiamo lontano e così non arriveremo mai.» Mi prese la mano e mi condusse. Tutte le porte si aprivano davanti a lei appena le toccava, e passammo davanti al cane senza svegliarlo.
Alla porta trovammo Margheritone; era lo scudiero che mi aveva già accompagnato; teneva le briglie di tre cavalli neri come i primi, uno per me, uno per lui, uno per Clarimonda. Dovevano essere cavalli di Spagna nati da giumente fecondate dallo zèffiro; perché andavano veloci come il vento, e la luna, sorta al momento della nostra partenza a rischiararci la strada, rotolava nel cielo come una ruota che si sia distaccata dal carro; la vedevamo, alla nostra destra, saltare da un albero all’altro correndo a perdifiato per tenere il nostro passo. Arrivammo presto a una pianura, dove, presso un boschetto, attendeva una carrozza tirata da quattro cavalli vigorosi; vi montammo e i postiglioni li lanciarono a un galoppo sfrenato. Io avevo passato un braccio intorno alla vita di Clarimonda, e una delle sue mani era abbandonata nella mia; appoggiava la testa sulla mia spalla, e sentivo il suo seno sfiorarmi il braccio. Non avevo mai provato tanta felicità. Avevo dimenticato tutto in quel momento, e non ricordavo di essere prete come non ricordavo che cosa avessi fatto nel seno di mia madre, tanto era grande il fascino che lo spirito del male esercitava su di me. Da quella notte la mia natura si è in qualche modo sdoppiata, e vi sono stati in me due uomini dei quali l’uno non conosceva l’altro. A volte mi credevo un prete che sognava ogni sera di essere un gentiluomo, altre, un gentiluomo che sognava di essere prete. Non distinguevo più il sogno dalla veglia, né sapevo dove cominciava la realtà e dove finiva l’illusione. Il gentiluomo vanesio e libertino si prendeva gioco del prete, il prete detestava le dissolutezze del gentiluomo. Due spirali aggrovigliate l’una all’altra, confuse senza toccarsi mai, sono un’immagine espressiva di quella mia esistenza bicefala. Pure, a dispetto della stranezza di un tale stato di cose, credo di non avere un solo istante sfiorato la follia. Ho sempre avuto con chiarezza la percezione delle mie due esistenze. Vi era solo un fatto assurdo che non potevo spiegarmi: il senso di uno stesso io esistente in due uomini tanto diversi. Era quella una anomalia che non avvertivo, sia che credessi di essere il parroco del piccolo villaggio di…, o il signor Romualdo,In italiano nell’originale (N.d.T.). amante in carica di Clarimonda.
In ogni caso vivevo, o credevo di vivere, a Venezia; non ho ancora compreso quanto fosse illusione e quanto realtà in quella bizzarra avventura. Abitavamo in un grande palazzo sul Canale, adorno di affreschi e di statue, con due Tiziano dell’epoca migliore nella camera da letto di Clarimonda: un palazzo degno di un re. Avevamo ognuno la nostra gondola e i barcaioli in livrea, la sala da musica e il poeta personale. Clarimonda amava vivere grandiosamente, e aveva in sé parte della natura di Cleopatra. Quanto a me, conducevo una vita da principe e mi sentivo importante come appartenessi alla famiglia di uno dei dodici apostoli o dei quattro evangelisti della Serenissima; non mi sarei fatto da parte per lasciar passare il doge; e non credo che, dopo la caduta di Satana dal cielo, ci sia stato qualcuno più orgoglioso e insolente di me. Andavo al Ridotto e giocavo per poste altissime. Vedevo la migliore società del mondo: figli di famiglie cadute in rovina, attrici, scrocconi, parassiti e spadaccini. Tuttavia, nonostante la vita dissipata che conducevo, ero fedele a Clarimonda. L’amavo perdutamente. Avrebbe saputo risvegliare la sazietà e rendere fedele l’incostanza. Avere Clarimonda era come avere venti amanti, come avere tutte le donne; tanto era mobile, mutevole, diversa da se stessa: un autentico camaleonte. Si commettevano con lei le infedeltà che si sarebbero volute commettere con altre, poiché lei assumeva il carattere, il portamento, la bellezza della donna che sembrava piacervi. Mi rendeva centuplicato l’amore, e invano i giovani patrizi e i vecchi del Consiglio dei Dieci le fecero meravigliose proposte. Un Foscari giunse a proporle di sposarla; lei rifiutava tutto. Aveva quanto danaro voleva; non desiderava altro che l’amore, un amore giovane, nuovo, risvegliato da lei, che doveva essere il primo e l’ultimo. Sarei stato perfettamente felice senza un incubo che tornava ogni notte, quando io credevo di essere un parroco di campagna che si macerava e faceva penitenza per i miei eccessi del giorno. Rassicurato dall’abitudine di stare con lei, non pensavo quasi più al modo strano in cui avevo conosciuto Clarimonda. Tuttavia quello che mi aveva detto padre Serapione mi ritornava a volte alla memoria, e mi turbava.
Da qualche tempo la salute di Clarimonda si indeboliva; il suo colorito diventava di giorno in giorno più smorto. I medici che vennero chiamati non comprendevano la sua malattia, e non sapevano che cosa fare. E lei impallidiva a vista d’occhio e diventava sempre più fredda. Era quasi bianca e morta come quella famosa notte, nel castello sconosciuto. Io mi disperavo nel vederla lentamente deperire. Lei, commossa dal mio dolore, mi sorrideva dolcemente e tristemente, con il fatale sorriso di chi si sa prossimo alla morte.
Una mattina ero seduto vicino al suo letto e facevo colazione su un tavolino, per non abbandonarla un solo minuto. Sbucciando un frutto, mi feci un profondo taglio a un dito. Il sangue sgorgò subito rosso porpora, e qualche goccia schizzò su Clarimonda. Le si illuminarono gli occhi, la sua fisionomia prese un’espressione di gioia feroce e selvaggia che non le avevo mai veduto. Balzò dal letto con l’agilità di un animale, un’agilità di scimmia o di gatto, e si precipitò sulla mia ferita che incominciò a succhiare con voluttà indicibile. Beveva il sangue a piccole gocce, lentamente e preziosamente, come un buongustaio assapora un vino di Xères o di Siracusa; socchiudeva gli occhi e le pupille verdi non erano più rotonde, ma oblunghe. Di tanto in tanto si interrompeva per baciarmi la mano, poi ricominciava a premere le labbra sulle labbra della ferita per farne uscire ancora qualche goccia. Quando vide che il sangue si era fermato, sollevò gli occhi umidi e brillanti, più rosea di un’aurora di maggio, il viso pieno, la mano tiepida e umida, più bella che mai e in perfetta salute.
«Non morirò, non morirò!» disse pazza di gioia, abbracciandomi. «Potrò amarti ancora per molto tempo. La mia vita è nella tua, e tutto quel che sono io viene da te. Poche gocce del tuo ricco e nobile sangue, più prezioso e più efficace di tutti gli elisir del mondo, mi hanno ridato la vita.»
Quella scena mi angosciò a lungo, fece sorgere in me strani dubbi, e la sera stessa, quando il sonno mi riportò alla mia canonica, vidi padre Serapione più grave e ansioso del consueto. Mi guardò attentamente e mi disse: «Non contento di perdere l’anima, volete perdere anche il corpo. Sfortunato ragazzo, in quale trappola siete caduto!». Il tono in cui pronunciava quelle parole mi colpì vivamente; ma, a dispetto della sua vivezza, quell’impressione non tardò a svanire, e altre preoccupazioni la cancellarono dal mio spirito. Tuttavia una sera vidi nello specchio, del quale lei non aveva calcolato la perfida posizione, Clarimonda versare una polvere nella coppa di vino speziato che era solita preparare dopo i pasti. Presi la coppa, finsi di portarla alle labbra, e la posai su un mobile come per riprenderla quando ne avessi il desiderio, quindi, profittando di un attimo in cui la bella mi voltava la schiena, ne gettai il contenuto sotto la tavola; allora mi ritirai nella mia camera e mi coricai, risoluto a non addormentarmi e a vedere che cosa sarebbe accaduto. Non dovetti attendere molto; Clarimonda entrò già vestita per la notte, e dopo essersi sbarazzata dei veli si distese nel letto, accanto a me. Quando fu certa che io dormissi, mi scoprì il braccio e si tolse uno spillone d’oro dalla testa; poi cominciò a mormorare a bassa voce:
«Una goccia, solo una piccola goccia rossa sulla punta del mio spillo!… Poiché tu mi ami ancora, io non devo morire… Ah, amore mio, il tuo bel sangue color porpora, il tuo sangue brillante ora lo berrò. Dormi, mio unico bene; dormi, mio dio, bambino mio; non ti farò male, prenderò dalla tua vita non più di quanto è necessario per non lasciar spegnere la mia. Se non ti amassi tanto, potrei indurmi a avere altri amanti ai quali inaridirei le vene; ma da quando ti conosco tutti mi fanno orrore… Ah, che bel braccio rotondo, bianco! Non oserò mai pungere questa graziosa vena blu.» E mentre parlava piangeva, e io sentivo cadere le sue lagrime sul braccio che lei teneva tra le mani. Infine si decise, mi punse appena con lo spillo e cominciò a succhiare il sangue che usciva. Per quanto ne avesse bevuto appena qualche goccia, fu presa dal timore di sfinirmi, e mi fasciò attentamente il braccio dopo aver massaggiato la ferita con un unguento che la cicatrizzò immediatamente.
Non potevo più dubitare. Padre Serapione era nel giusto. E tuttavia, pur con tale certezza, non sapevo impedirmi di amare Clarimonda, e le avrei volentieri dato tutto il sangue che le era necessario per sostenere la sua esistenza fittizia. D’altronde non avevo grandi timori. La donna rispondeva innanzi a me del vampiro; e quanto avevo sentito e visto mi rassicurava completamente; avevo allora vene ricche di sangue che non si sarebbero esaurite presto, e non mercanteggiavo la mia vita goccia a goccia. Mi sarei aperto il braccio io stesso e le avrei detto: Bevi, e che il mio amore entri nel tuo corpo con il mio sangue!.
Non accennavo mai al narcotico che aveva versato nella mia coppa e alla scena dello spillone, e vivevamo in un perfetto accordo. Tuttavia i miei scrupoli di prete mi tormentavano, e non sapevo più quale penitenza inventare per domare e mortificare la mia carne. Sebbene quelle visioni fossero involontarie e io non vi avessi parte, non osavo toccare il Cristo con le mie mani impure, lo spirito insozzato da tali dissolutezze reali o sognate. Per non cadere più in quelle allucinazioni che mi sfinivano, cercai di non dormire; mi tenevo le palpebre aperte con le dita e rimanevo in piedi lungo i muri, lottando contro il sonno con tutte le mie forze; ma la nebbia dell’assopimento mi velava presto gli occhi, e vedendo che ogni lotta era inutile lasciavo cadere le braccia, stanco e scoraggiato, e la corrente mi riportava verso le perfide rive. Serapione mi esortava con veemenza e rimproverava duramente la mia debolezza e il mio scarso fervore. Un giorno, in cui ero stato più turbato del consueto, mi disse: «Per liberarvi da questa ossessione non c’è che un mezzo, e per quanto sia estremo, bisogna usarlo: a estremi mali estremi rimedi. So dove Clarimonda è sepolta; dovremo dissotterrarla e voi vedrete in quale stato pietoso è l’oggetto del vostro amore; non sarete più tentato di perdere l’anima per un cadavere immondo divorato dai vermi e prossimo a diventare polvere; quella vista vi farà rientrare in voi stessi». La duplice vita che conducevo era per me così penosa, che accettai: volevo sapere una volta per tutte chi dei due, il prete o il gentiluomo, era vittima di un’illusione, risoluto a uccidere, a favore dell’uno o dell’altro, uno dei due uomini che erano in me, o a ucciderli entrambi, poiché una vita simile non poteva durare. Padre Serapione si munì di un piccone, di una leva e di una lanterna, e a mezzanotte ci dirigemmo verso il cimitero di… del quale egli conosceva il luogo e l’ubicazione delle tombe. Dopo aver proiettato la luce della lanterna sulle iscrizioni di molte tombe, arrivammo infine a una pietra per metà coperta da grandi erbe e divorata dal muschio e da piante parassite e deciframmo l’inizio di un’iscrizione:
QUI GIACE CLARIMONDA CHE LUNGO LA SUA VITA FU LA PIÙ BELLA DEL MONDO.
«È proprio qui» disse Serapione, e posando a terra la lanterna fece scivolare la leva nell’interstizio della pietra e cominciò a sollevarla. La pietra cedette e Serapione si mise al lavoro con il piccone. Io lo guardavo agire, nero e silenzioso più della notte; quanto a lui, curvo sulla sua opera funebre, grondava sudore, ansimava, e il suo respiro assomigliava al rantolo di un agonizzante. Era uno strano spettacolo e chi ci avesse visto ci avrebbe preso per profanatori di tombe e ladri di sudari, ben più che ministri di Dio. Lo zelo di Serapione aveva in sé qualcosa di duro, di selvaggio, che lo faceva assomigliare a un dèmone più che a un apostolo o a un angelo; e il suo viso dai grandi lineamenti austeri e profondamente scolpiti dai riflessi della lanterna appariva minaccioso. Mi sentivo imperlato da un sudore glaciale e i capelli mi si drizzavano sulla testa, dolorosamente; ai miei occhi l’azione del severo Serapione appariva un abominevole sacrilegio, e avrei voluto che dalle scure nuvole che scorrevano pesantemente sopra di noi scaturisse un triangolo di fuoco a ridurlo in polvere. I gufi appollaiati sui cipressi, spaventati dalla luce della lanterna, venivano a battere pesantemente contro il vetro le loro ali polverose, gemendo lamentosamente; le volpi uggiolavano lontano, e rumori sinistri uscivano dal silenzio. Infine il piccone urtò la bara le cui assi vibrarono di un suono sordo e sonoro, il suono pauroso del nulla, quando lo si sfiora. Serapione sollevò il coperchio e io vidi Clarimonda pallida come il marmo, le mani giunte, il bianco sudario disteso dalla testa ai piedi. Una piccola goccia rossa splendeva come una rosa all’angolo della bocca esangue. Serapione alla sua vista si infuriò: «Eccoti demonio, cortigiana impudica, che succhi il sangue e l’oro!», e asperse di acqua benedetta il corpo e la bara sulla quale tracciò il segno della croce con l’aspersorio. La povera Clarimonda era appena stata toccata dalla santa rugiada, che il suo corpo si dissolse in polvere; non fu più che un insieme terribilmente informe di cenci e di ossa a metà calcinate. «Ecco la vostra amante, signor Romualdo» disse l’inesorabile prete indicando le tristi spoglie. «Sarete ancora tentato di passeggiare al Lido e a Fusina in compagnia di tanta bellezza?» Chinai il capo, un’enorme rovina si era scavata in me. Tornai alla canonica, e il signor Romualdo, l’amante di Clarimonda, si separò dal povero prete, al quale aveva tenuto per tanto tempo una compagnia così bizzarra. Ma la notte seguente rividi Clarimonda; come la prima volta, sotto il portale della chiesa, mi disse: «Disgraziato! disgraziato! Che hai fatto? Perché hai dato ascolto a quel prete? Non eri felice? E che cosa ti avevo fatto per violare la mia povera tomba e mettere a nudo le miserie del mio nulla? Ogni rapporto fra le nostre anime e i nostri corpi è ormai finito. Addio, mi rimpiangerai». Si dissolse nell’aria come fumo e non la rividi più.
Ahimè! non aveva mentito; l’ho rimpianta più di una volta, e la rimpiango ancora. La pace dell’anima mi è costata molto cara; l’amore di Dio non era troppo per sostituire il suo. Ecco, fratello, la storia della mia giovinezza. Non guardate mai una donna; camminate sempre con gli occhi fissi a terra, poiché, per quanto sereno e puro siate, basta un istante per farvi perdere l’eternità.


Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  Volume primo
  Il fantastico visionario
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