«Cultura» è un termine vago, una parola autobus su cui sale chi vuole, spesso senza nemmeno pagare il biglietto. Perciò, bisogna intendersi su cosa parliamo quando parliamo di cultura e, soprattutto, di rapporti fra cultura ed economia. In un suo articolo su «l’Espresso», in risposta alla famosa battuta di Tremonti, Umberto Eco aveva scritto: «Non mi occuperò dell’accezione antropologica del termine (cultura come insieme di valori e comportamenti) per cui esiste una cultura del cannibalismo, una cultura mafiosa, o una cultura del velinismo berlusconiano. Parlerò di cultura nei termini più banali, come di produzione creativa (pittura e letteratura, musica e architettura), di consumo di questa produzione, di organizzazione dell’educazione (scuole di ogni grado) e di ricerca scientifica».
Attenzione, perché Umberto Eco ha cesellato, con la capacità che gli è propria, i vertici del «triangolo della cultura che si mangia», ovvero dell’economia della conoscenza:
1) l’industria culturale (ma sul termine non del tutto appropriato avremmo e avremo da ridire) del design, dell’artigianato, delle arti visive, degli audiovisivi, dell’editoria, dello spettacolo e dei nuovi media;
2) la formazione (scuola primaria, scuola secondaria, università, long life learning);
3) la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e la produzione di beni e servizi hi-tech.
Tuttavia, nel cesellare quei vertici, Umberto Eco ci ha spiegato anche perché l’Italia dà credito a persone che la pensano come Tremonti e perché il Paese è fuori da quel triangolo della conoscenza dove il resto del mondo si riunisce (anche) per mangiare. E già, perché i mali del nostro Paese, da almeno un quarto di secolo a questa parte, nascono dall’egemonia (non assoluta, ma soffocante sì) di un modello economico: quello dello «sviluppo senza conoscenza». Un modello che ci tiene fuori dal triangolo che conta e che, se in passato ci ha consentito una crescita economica notevole, è ormai – da un quarto di secolo a questa parte – del tutto desueto. Di più: del tutto insostenibile.
Perché? Ma perché il mondo – con le sue bolle e le sue crisi finanziarie, le inaccettabili e inedite disuguaglianze, i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, l’impronta umana sull’ambiente che è diventata ormai quella di un piedone da gigante che esplode dalla scarpa di un bambino – sta andando da tutt’altra parte. Verso uno «sviluppo fondato sulla conoscenza».
La cultura si mangia
Bruno Arpaia e Pietro Greco
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