Nella nicchia vuota dell’esemplare struttura narrativa vitruviana, sostituiamo il simulacro della vergine di Corinto e della sua lunga ombra Kore, rapita dal dio dei morti, con quello di Menemosine, amata da
Eros. In parte cambierà anche il contesto, perché qui si narra di un idillio travagliato, né più né meno di quello fra Amore e Psiche. Il mito ellenico è stato ripreso e adattato da Deleuze in Differenza e ripetizione
Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, capitolo La ripetizione per sé, in cui sono affrontati problemi relativi alla ricezione del tempo e ai suoi effetti sulla soggettività. Per la verità, nell’originale la dea della rimembranza
era amata da
Zeus e madre delle Muse; da parte di Deleuze, è da supporre una platonica contaminazione con la fabula philosophica di Apuleio. Comunque, Mnemosine sta per memoria. Finché l’accordo con
Eros dura, tutto fila liscio o quasi. Come di sovente, ricordi piacevoli si alternano agli spiacevoli. Di norma, però, i primi vengono selezionati e rappresentati alla coscienza con maggiore frequenza.
Ogni reminiscenza è erotica, si tratti di una città o di una donna, sottolinea l’autore, aggiungendo che l’éros è l’unico noumeno a farci penetrare nel passato puro in sé. Un passato rassicurante è prefigurazione accettabile del futuro. L’equilibrio della personalità è salvo. Ma può verificarsi che i brutti ricordi prevalgano o prendano il sopravvento. O che vengano meno i punti di riferimento per il tempo presente, e che ciò sia causa di ansia o di intollerabile nostalgia: come per l’Ermengarda manzoniana, la quale si sforza di ingannarsi e di convincere che
Ogni passata cosa è nulla per me Adelchi, atto I, scena III, vv. 37-38. Quella che
era mobile frontiera o ritmica cesura, tra un prima e un dopo, diventa allora incrinatura. La stessa soggettività può entrare in crisi e il disagio mutarsi in follia. Già nell’Iliade di Omero ricorre l’espressione
non riconoscere il nesso tra passato e futuro per designare la follia, e il contrario per un criterio assennato
I, 343 e III, 109. E l’Amleto di Shakespeare, simulante la pazzia, delira:
Il tempo è uscito dai propri cardini. Ma è nelle Note all’
Edipo di Hölderlin che si rileva:
Al confine estremo del dolore non sussiste null’altro che le condizioni del tempo o dello spazio. In tale estremo l’uomo dimentica sé stesso, poiché egli è tutto nel momento e così pure il dio poiché non è se non il tempo; ed entrambi sono infedeli: il tempo, perché in tali momenti si rivolge categoricamente e inizio e fine in esso non si lasciano assolutamente accordare; l’uomo, perché in questo momento deve seguire il rivolgimento categorico, per cui successivamente non può più in nessun modo essere eguale a come era all’inizio. La nudità aprioristica delle categorie kantiane, qui evocata dal poeta tedesco, fa sì che il tempo si riduca in spazio del tempo. E questo, fissato una volta per tutte, è per elezione la scena della tragedia. In tal senso andrebbe intesa l’unità di tempo e di luogo dell’azione teatrale, consigliata da Aristotele nella Poetica e formalmente contestata dai romantici fra cui lo stesso Manzoni. Il
null’altro dell’Edipo re di Sofocle/Hölderlin è il
nulla di Ermengarda nell’Adelchi. È l’interrogarsi sull’
essere o non essere del principe Amleto. Ma il nobile Laerte si meraviglia, circa la vera e lucida follia di Ofelia:
Questo vaneggiare è più di un parlar da senno. […] Un insegnamento nella pazzia: i pensieri e la rimembranza erano a proposito Amleto, atto IV, scena V. Più ancora che tentativo di rimuovere i ricordi, assistiamo a una negazione del soggetto quale venuto a costituirsi o a pretendersi attraverso gli eventi pregressi, e a una vertiginosa contrazione delle sue coordinate spazio-temporali. Il sentimento di un’intima coesione dipende da tali coordinate. È il risultato di una sorta di equilibrio acrobatico. In effetti, più che di coordinate definite si tratta di variabili, le quali richiedono continui impercettibili aggiustamenti. In circostanze favorevoli e in una visione ottimistica, è quanto consente al soggetto di essere un crocevia aperto verso l’alterità o al limite verso l’alienità. In situazioni estreme, esso può invece fungere da imprevisto nodo scorsoio. È un presupposto dell’alienazione. Nella sua suggestiva leggenda ancestrale, con amarezza dovette accorgersi di ciò Edipo: eroe dell’
essere per la morte, così gettato nella sua irripetibile individualità, stando a Heidegger in Essere e tempo. Nel frontone fittile di un tardo tempio etrusco presso Talamone in Toscana, egli è raffigurato in posizione centrale, nel vano gesto di impedire che questo mondo venga trascinato all’inferno dai propri istinti distruttivi e fratricidi. Il tempo edipico è appunto un tempo amletico,
fuori dei propri cardini. Con la sua ironia sulle diverse età dell’uomo, tale d’altronde
era stato il criptico messaggio rivolto all’eroe tebano, nel puerile indovinello della Sfinge suggerito dalle apollinee Muse. Ma in realtà la vergine alata inviata dalla potente dea Hera non aveva fatto che ergersi a intransigente paladina di un ordine arcaico e di un tempo ciclico, di ascendenza matriarcale, che il parricida e incestuoso Edipo aveva osato inconsapevolmente infrangere.
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