Evidentemente un maestro miniatore medievale, che confezionava le immagini del suo libro d’ore per il committente, era ancorato a un rapporto artigianale: ogni immagine, se da un lato rimandava a un codice di credenze e convenzioni, dall’altro si rivolgeva al committente singolo, e instaurava con lui un rapporto preciso. Ma non appena qualcuno inventa la possibilità di stampare xilograficamente pagine di una bibbia riproducibile in più esemplari, succede un fatto nuovo. Una bibbia che si riproduce in più copie costa meno e può andare a più persone. Una bibbia che viene venduta a più persone non sarà una bibbia minore? E allora la si chiamerà biblia pauperum. D’altra parte il fattore esterno (diffusibilità e prezzo) influisce anche sulla natura del prodotto: il disegno si adatterà alla comprensione di una udienza più vasta, meno letterata. Non sarà più utile collegare il disegno al testo con un gioco di cartigli svolazzanti che ricorda da vicino il fumetto? La biblia pauperum incomincia a sottoporsi a una condizione che qualcuno, secoli dopo, attribuirà ai moderni mezzi di massa: l’adeguazione del gusto, e del linguaggio, alle capacità ricettive della media.
Poi Gutenberg inventa i caratteri mobili, e nasce il libro. Un oggetto di serie, che deve uniformare il proprio linguaggio alle possibilità ricettive di un pubblico alfabetizzato che ormai (e grazie al libro, sempre più) è più vasto di quello del manoscritto. Non solo: il libro, creando un pubblico, produce lettori che a loro volta lo condizioneranno.
Si vedano le prime stampe popolari del XVI secolo, che riprendono su un piano laico e su più affinate basi tipografiche la proposta della biblia pauperum. Sono stampate da tipografie minori, su richiesta di librai ambulanti e di cantimbanchi, per essere vendute al popolo minuto, nelle fiere e nelle piazze. Epopee cavalleresche, lamenti sui fatti politici o di cronaca, burle, barzellette o frottole, sono stampate male, trascurando spesso di menzionare e il luogo e la data perché dei prodotti della cultura di massa hanno già la prima caratteristica, l’esser effimeri. Del prodotto di massa hanno poi la connotazione primaria: offrono sentimenti e passioni, amore e morte già confezionati quanto all’effetto che debbono conseguire; i titoli di queste storie contengono già l’imbonimento pubblicitario e il giudizio esplicito sul fatto preannunciato, quasi il consiglio di come goderne: Danese Ugieri, Opera bella et piacevole d’armi et d’amore, nuovamente ristampata e corretta con la morte del gigante Mariotto, la quale negli altri non si ritrova; oppure: Nuovo racconto del crudele e compassionevole caso occorso in Alicante di una madre che ha ucciso il proprio figliuolo, e dato da mangiare gl’interiori a una cagna e li membri al marito. Per non parlare delle immagini livellate secondo uno standard sempre grazioso ma fondamentalmente modesto, teso alla presentazione di effetti violenti, come si conviene a un romanzo d’appendice o a un fumetto. Evidentemente non si può parlare di cultura di massa nel senso che si intende oggi: diverse erano le circostanze storiche, il rapporto tra il produttore di queste stampe e il popolo, diversa la divisione tra cultura dotta e cultura popolare, che cultura era nel senso etnologico del termine. Ma già ci accorgiamo come la riproducibilità in serie, e il fatto che i clienti si accrescessero in numero e si ampliassero in raggio sociale, poneva una tal rete di condizioni da caratterizzare a fondo questi libretti, così da farne un genere a sé con un proprio senso del tragico, dell’eroico, del morale, del sacro, del ridicolo, adeguato al gusto e all’ethos di un consumatore medio – medio tra gli infimi. Diffondendo tra il popolo i termini di una moralità ufficiale, questi libri svolgevano opera di pacificazione e di controllo, favorendo l’esplosione di umori bizzarri fornivano materiale di evasione. Ma in fin dei conti sostenevano l’esistenza di una categoria popolare di letterati, e contribuivano all’alfabetizzazione del loro pubblico.
Infine qualcuno stampa le prime gazzette. E con la nascita del giornale, il rapporto tra i condizionamenti esterni e fatto culturale si precisa ancor più: cos’è un giornale se non un prodotto, formato da un numero fisso di pagine, obbligato a uscire una volta al giorno, in cui le cose dette non saranno più soltanto determinate dalle cose da dire (secondo una necessità assolutamente interiore) ma dal fatto che una volta al giorno si dovrà dir tanto da riempire tante pagine? A questo punto siamo già, compiutamente, nell’industria culturale. Che appare quindi come un sistema di condizionamenti coi quali ogni operatore di cultura dovrà fare i conti, se vorrà comunicare ai suoi simili. Se vorrà cioè comunicare agli uomini, perché ora tutti gli uomini si sono avviati a diventare suoi simili, e l’operatore di cultura ha cessato di essere il funzionario di un committente per essere il funzionario dell’umanità.
Un oggetto di serie
Crediti
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