E poi, chi ha paura della psicanalisi? Troppo pochi sono coloro che rischiano di finire nell’ultima, miserabile territorialità, il divano, per ritrovare il padre simbolico, per farsi fare una castrazione tutta nuova, per riscoprire i piaceri un po’ sordidi del vecchio regime penitenziale, con il flusso di parole mercantilmente tariffato in più. […] Il pericolo è altrove; il pericolo è negli effetti sociali della psicanalisi, nel discorso diffuso, psicologizzato, medicalizzato, che si è venuto formando intorno ad essa e che si è infiltrato, familiarizzando, castrando, territorializzando, la dove si parla e ovunque si parla (e non solo del corpo, del desiderio, dell’affettività): un nuovo, formidabile strumento, per la sfiatata presse du coeur e i suoi mentori, per le nuove e sprovvedute, pedagogie sessuali, per le inceppate ermeneutiche accademiche, pronte a barattare l’esausta meccanica strutturalistica con i più elaborati congegni del vecchio freudismo rimesso a nuovo dal significante lacaniano: insomma per tutto quello che rappresenta, in una società a corto di fiato, una nuova direzione di coscienza. Nelle istituzioni reali che non funzionano più (la scuola, la famiglia, la caserma, la prigione, l’ospedale psichiatrico) si inietta il sapere psicanalitico per una nuova tecnologia del potere di sorvegliare, di controllare, di punire: non più la tecnologia della repressione dei corpi, ma la tecnologia neoumanitaria, neofilantropica, del controllo delle anime.
Una nuova direzione di coscienza
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