Rodin sapeva che tutto doveva partire da una conoscenza infallibile del corpo umano. Infine fu su questa superfice che concentrò la sua ricerca. Essa consisteva di infiniti contatti tra luce e materia, e ognuno di questi contatti si rivelò diverso da ogni altro, e ognuno singolare. In un punto sembravano fondersi, in un altro salutarsi con titubanza, in un terzo passati a fianco come estranei; e c’erano punti senza fine e non uno in cui qualcosa non accadesse. Il vuoto non esisteva. Rodin aveva scoperto l’elemento fondamentale della sua arte, per così dire la cellula del suo mondo. Era la superfice, la superfice di grandezza variabile, diversamente sottolineata, definita con esattezza, da cui tutto poteva nascere. Il lavoratore severo e raccolto, che non si era mai curato dei soggetti e non cercava altro compimento se non quello ottenibile dal suo strumento sempre più maturo, giunse a questa dimensione attraverso tutti i drammi della vita: ora si aprivano dinnanzi gli abissi delle notti d’amore, la vastità oscura, colma di voluttà e di pena dove, come in un mondo ancora eroico, non c’è posto per le vesti, dove i volti erano cancellati e imperavano i corpi. Egli si accostò con sensi infiammati al caos immenso di questi abbracci convulsi, cercando la vita: e ciò che vide era vita. Attorno a lui nulla si fece angusto, esiguo o torbido. Tutto acquistò ampiezza. L’atmosfera delle alcove era lontana. Qui c’era solo vita, mille volte rinnovava in un solo istante, nello struggimento e nel dolore, nella follia e nell’angoscia, nella perdita e nella vincita. Qui c’era un desiderio incommensurabile, una sete così grande che esauriva tutte le acque terrestri come fossero un’unica goccia, qui non c’erano menzogna e rinnegamento, i gesti del dare e del prendere erano qui autentici e grandi. Qui c’erano i vizi e le bestemmie, le dannazioni e le beatitudini, e di colpo apparve chiaro quanto fosse povero un mondo che celava e affossava tutto questo, come se non esistesse. Esisteva.
Vastità oscura colma di voluttà
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