Di Vernon Lee, al secolo Violetta Paget (1856-1935), scrittrice inglese stabilitasi a Firenze, studiosa di storia e d’arte italiane, ha lasciato un bel ritratto Mario Praz (Il patto col serpente, Mondadori, 1972, e Voce dietro la scena, Adelphi, 1980).
Questo racconto in cui uno studioso polacco s’innamora d’una terribile dama del Cinquecento marchigiano, fa germogliare la rievocazione d’un’epoca spietata (nel gusto dello Stendhal delle Cronache italiane) dallo scenario quotidiano della piccola vita provinciale ottocentesca delle nostre città del silenzio. Dalla magia antiquaria degli oggetti si scatena l’allucinazione visionaria. Un secolo fa ancora gli stranieri potevano vedere l’Italia come il paese dove il passato eternamente ritorna, custodito immobilmente, come l’idolo d’argento dentro la statua equestre del duca Roberto.
Brani del diario di Spiridione Trepka Urbania, 20 agosto 1885. Per anni e anni avevo desiderato con tutto me stesso di venire in Italia e di trovarmi al cospetto del passato; ma era proprio questa l’Italia, questo il passato? Avrei potuto gridarlo, come poi feci in effetti, nella cocente delusione della mia prima passeggiata a Roma allorché, fornito d’un invito a colazione all’ambasciata tedesca, mi ritrovai scortato da tre o quattro vandali calati da Monaco o da Berlino che mi informavano su dove si potevano trovare crauti e birra e sul contenuto dell’ultimo articolo di Grimm o di Mommsen.
Era follia, questa? O pura menzogna? Non son forse io stesso un prodotto della moderna civiltà del settentrione; non è forse dovuta la mia discesa in Italia a questo moderno vandalismo scientifico che mi ha gratificato d’una borsa di studio perché ho scritto un libro simile a tutti gli altri orrendi volumi di erudizione e di critica d’arte? E poi, non mi trovo qui ad Urbania con l’esplicito impegno di scrivere un altro di quei libri entro qualche mese? Riesci a immaginare, tu, miserabile Spiridione, tu, polacco che ti sei volto in pedante tedesco, dottore in filosofia e professore per giunta, autore d’un premiato volume sui tiranni del quindicesimo secolo, riesci a immaginare che tu, malgrado le credenziali del ministero e le bozze di stampa nelle tasche della giacca nera da professore, non potrai mai cogliere in spirito la presenza del passato? Amara verità, ahimè! Ma lasciate almeno che lo dimentichi ogni tanto, come me ne sono dimenticato questo pomeriggio mentre un paio di candidi bovi trascinava il baroccio pian piano, serpeggiando per convalli interminabili, arrancando per interminabili pendii, nell’ascoso brusio del torrente giù nella forra, circondato soltanto dalle nude vette, grigie e rossastre, che salgono fino a questa cittadella di Urbania, dimentica degli uomini, turrita e merlata sul crinale alto dell’Appennino. Sigillo, Penna, Fossombrone, Mercatello, Montemurlo… nomi di villaggi che mi richiamavano alla memoria, mentre il conducente me li additava, il ricordo d’una qualche battaglia o d’un tradimento efferato dei giorni che furono. E mentre i gioghi dei monti celavano il sole calante, e si colmavano le valli di un’ombra azzurrina e di foschia esonerando soltanto la minacciosa retroguardia di vette fumiganti di rosso, là oltre le torri e le cupole della cittadina a cavallo del monte; mentre il suono del vespro aleggiava perdendosi oltre Urbania precipite, ad ogni svolta della strada m’aspettavo che comparisse un gruppo di cavalieri, gli elmi a becco e le scarpe artigliate, con le loro scintillanti armature e i pennoni che garrivano nel tramonto. Poi non più di due ore dopo, mentre facevo il mio ingresso nella città all’imbrunire, percorrendo le strade abbandonate, schiarite qua e là da un lume fumoso sotto una maestà o dinnanzi ad una bancarella di frutta, o dal riverbero del fuoco che avvampa l’antro del fabbro, passando sotto i merli e i torricini del palazzo… Ah, questa era l’Italia, questo il passato! 21 agosto. E questo il presente! Quattro lettere di presentazione da scrivere e un’ora di formale conversazione con il viceprefetto, il sindaco, il direttore dell’archivio e quel buon uomo a cui mi ha indirizzato il mio amico Max per trovare un alloggio.
22-27 agosto. Passata gran parte della giornata a bazzicare l’archivio e qui la maggior parte del tempo a morire di noia ascoltando il direttore che mi ha recitato a macchinetta i commentari di Enea Silvio, per tre quarti d’ora, senza riprender fiato. Cerco di sfuggire a questa sorta di martirio con lunghe passeggiate senza meta per la città. Una città, questa, che è una manciata di casipole alte, nere, ammucchiate sulla vetta dell’alpe, con vicoli angusti che scivolano lungo gli opposti pendii, simili agli sdruccioli che nella fanciullezza ricaviamo dai poggi, e nel bel mezzo la mole di cuprei mattoni, superba, merlata e turrita, del palazzo del duca Ottobuono dalle cui finestre lo sguardo corre su un mare, o meglio su un gorgo, di grigie, malinconiche montagne.
Poi c’è la gente: uomini dalla barba nera e cespugliosa che cavalcano come briganti, avvolti in ampi mantelli orlati di verde, in groppa a pelosi somari; e i giovinastri che bighellonano attorno, grandi, bruni, torvi, simili ai bravi multicolori degli affreschi del Signorelli; e i bei ragazzi di Raffaello dagli occhi bovini; e le femmine poderose, Madonne o Sante Elisabette a seconda dei casi, le cui salde dita mantengono i tacchi in non precario equilibrio e con essi le brocche di rame che torreggiano sulle loro teste mentre salgono e scendono le strade scure e scoscese. Non faccio granché parola a questa gente per paura che l’incantesimo svanisca. All’angolo di una via, proprio di rimpetto al bel portico di Francesco di Giorgio, c’è un cartellone rossazzurro con un angelo che piomba a incoronare Elias Howe per via delle sue macchine da cucire; e gli scrivani della viceprefettura che pranzano nella trattoria dove vado anch’io, e urlano parlando di politica: Minghetti, Cairoli, Tunisi, torpediniere ecc., o cantano certe romanze della Fille de Mme Angot che mi immagino abbiano da poco rappresentato da queste parti.
No, è un esperimento pericoloso parlare con quelli del posto, ad esclusione forse del mio buon padrone di casa, il signor notaro Porri, persona istruita e assai meno adusa ad impippiarsi il naso di tabacco, e comunque sempre pronto a strusciarselo via di dosso, di quanto non lo sia il direttore dell’archivio. Mi sono scordato che abito nella casa di un antiquario. La mia finestra prende d’infilata la via maestra che porta fin dove una colonnina sormontata da una statua di Mercurio s’erge fra i tendoni e i portici del mercato. Sporgendomi oltre le cocciole scheggiate e i testi di odoroso basilico, di chiodi di garofano e di maggiorana, riesco a scorgere la sagoma dei torricini e più oltre il tenue azzurro oltremare delle colline circostanti. La casa, che sul retro sprofonda nella scarpata, è un saliscendi buio e ininterrotto di stanze sbiancate a calce alle cui pareti sono appesi dipinti di Raffaello, del Francia e del Perugino, quadri che il mio ospite trasloca nella bottega quando è atteso un forestiero. Dattorno ci sono antichi seggioloni intagliati, sofà stile impero, cassoni matrimoniali in pastiglia dorata, credenze stipate di pezze di antichi damascati e di tovaglie da altare dalle quali si sprigiona un forte sentore d’incenso e di stantio. Su tutto presiedono le tre sorelle nubili del signor Porri: la sora Anna, la sora Ludovica e la sora Adalgisa, le tre parche in persona, fuso e conocchia compresi.
Il sor Asdrubale, è questo il nome del mio padrone di casa, fa anche il notaio.
Lui rimpiange il governo papalino poiché un suo cugino era camerlengo d’un cardinale, ed è convinto che se si apparecchia una tavola per due, si accendono quattro ceri ricavati dal grasso d’un morto, e si compiono dei riti sui quali è stato piuttosto evasivo, è possibile evocare San Pasquale Baylon, nella notte di Natale o in occasioni consimili, per farsi dare i numeri del lotto: Però bisogna colpire il santo su entrambe le guance e recitare tre avemarie: lui allora ti scrive i numeri sul retro di un piatto affumicato. Il difficile è avere il grasso dei defunti per fare le candele e non meno colpire il santo con il piatto prima che il suo ectoplasma si dissolva.
«Se non fosse per questo» sostiene il sor Asdrubale «il governo avrebbe abolito il lotto da un pezzo, eh, proprio così!» 9 settembre. Alla storia di Urbania non manca un suo romanzo, anche se viene trattato con sufficienza dai nostri storici pedanti. Ancor prima di arrivare qui sono stato attratto dalla strana figura d’una donna scaturita dalle aride cronache locali di Gualterio e di Padre De Sanctis. Si tratta di Medea, figlia di Galeazzo IV Malatesta signore di Carpi e moglie dapprima di Pierluigi Orsini, duca di Stimigliano, e quindi di Guidalfonso II, duca di Urbania, predecessore del granduca Roberto II.
La storia e il temperamento di questa donna la fanno assomigliare a Bianca Cappello e ad un tempo a Lucrezia Borgia. Nata nel 1556, all’età di dodici anni venne promessa sposa ad un cugino, un Malatesta di Rimini. Allorché decadde il prestigio di questa famiglia, la promessa fu ritirata e un anno dopo venne fatta fidanzare con un membro della famiglia Pico e a lui data in sposa per procura a quattordici anni.
Ma poiché questo matrimonio non soddisfaceva né la sua ambizione, né quella del padre, la procura venne dichiarata nulla con qualche espediente, mentre venivano incoraggiate le aspirazioni del duca di Stimigliano, un grande feudatario umbro della famiglia Orsini. Tuttavia lo sposo, Gianfrancesco Pico, si ribellò, ricorse in appello al Papa e rapì con la forza la sposa della quale era follemente innamorato e che appariva una fanciulla amabile, gaia e dolce, come recita un cronista anonimo. Pico l’attese al varco mentre si recava in portantina ad una delle ville paterne e la condusse al suo castello vicino a Mirandola. Qui cercò, seppur con rispetto, di far valere i diritti di legittimo sposo. Ma la donna fuggì calandosi con una corda di lenzuoli annodati giù nel fossato. Più tardi scoprivano il cadavere di Gianfrancesco Pico pugnalato al cuore dalla mano di Madonna Medea da Carpi. Era un bel giovane di diciotto anni, non più.
Chiuso il capitolo con il Pico, tanto più che il matrimonio nel frattempo era stato dichiarato nullo dal Papa, Medea da Carpi andò sposa in pompa magna al duca di Stimigliano e risiedette nelle sue terre non lontano da Roma.
Due anni dopo uno scudiero del castello di Stimigliano, nei pressi di Orvieto, pugnalò a morte Pierluigi Orsini. Corsero dicerie sulla vedova tanto più che, subito dopo l’evento, lei stessa aveva fatto assassinare lo scudiero omicida da due suoi scherani, per di più in camera sua. Prima di morire lo sciagurato avrebbe confessato di avere ucciso il padrone su istigazione della donna e per amor suo. Sentendosi bruciare la terra sotto i piedi, Medea corse a Urbania e si gettò al cospetto del duca Guidalfonso II al quale dichiarò di aver fatto uccidere lo scudiero per preservare il buon nome che lui aveva oltraggiato, e di essere innocente circa la morte del marito. La folgorante beltà della vedova di Stimigliano, che era allora diciannovenne appena, fece girare la testa al duca. Questi mostrò subito di dar credito alla sua pretesa innocenza, rifiutò di rinviarla agli Orsini, parenti del defunto marito, e le assegnò i magnifici appartamenti che si trovano nell’ala sinistra del palazzo, compresa la sala con il famoso camino con putti marmorei su fondo azzurro.
Guidalfonso s’innamorò alla follia della bella ospite. Sino ad allora uomo schivo e ritirato, non si peritò di ostentare incuria per la moglie, Maddalena Varano da Camerino, con la quale era vissuto felicemente, sebbene i due fossero senza prole. E non solo trattò con disprezzo i consigli dei suoi fiduciari e del legato del Papa, ma arrivò al punto da predisporre il ripudio della moglie prendendo a pretesto la sua cattiva condotta, del tutto immaginaria. La duchessa Maddalena, incapace di sopportare questo voltafaccia, si rifugiò nel convento delle carmelitane di Pesaro dove si strusse a poco a poco, mentre Medea da Carpi regnò in Urbania usurpando il suo posto e invischiando il duca Guidalfonso in liti sia con i potenti Orsini, che continuavano a ritenerla un’assassina, che con i parenti dell’offesa Maddalena, i Varano. Alla fine, nel 1576, divenuto vedovo all’improvviso e in circostanze misteriose, il duca di Urbania convolò a nozze con Medea da Carpi due giorni dopo il decesso della prima moglie. Da questo matrimonio non nacquero figli, ma era tale l’infatuazione del duca Guidalfonso che la nuova duchessa lo convinse, dopo aver ottenuto con difficoltà l’assenso papale, a intestare il ducato al piccolo Bartolomeo. Il bambino era nato dal matrimonio di Medea con lo Stimigliano, ma gli Orsini l’avevano sempre rifiutato come loro parente, ritenendolo figlio di quel Gianfrancesco Pico al quale Medea era andata sposa per procura e che aveva pugnalato per difendere, come sosteneva, l’onore. L’investitura di uno straniero, e per di più bastardo, a duca di Urbania ledeva i diritti del Cardinal Roberto, fratello minore di Guidalfonso.
Nel maggio del 1579 il duca Guidalfonso spirò all’improvviso, in oscure circostanze, tanto più che Medea aveva sbarrato l’accesso alla sua camera nel timore che in punto di morte potesse reinvestire il fratello nei legittimi diritti.
La duchessa fece subito proclamare suo figlio, Bartolomeo Orsini, duca di Urbania e se stessa reggente. Avvalendosi dell’aiuto di due o tre giovani senza scrupoli, tra i quali un certo Oliverotto da Narni, che si diceva fosse suo amante, prese le redini del ducato che resse con strenuo vigore, muovendo guerra agli Orsini e ai Varano, che furono difatti sconfitti a Sigillo, e togliendo di mezzo quanti avessero osato sollevare dubbi sulla legittimità della successione. Nel frattempo il Cardinal Roberto, messi da parte i voti e la porpora, si recò a Roma, a Venezia, in Toscana… sì, perfino alla corte dell’imperatore, in Spagna, a chiedere aiuti contro gli usurpatori. In breve volger di tempo riuscì a sottrarre ogni appoggio alla duchessa reggente: il Papa dichiarò con solennità che l’investitura di Bartolomeo Orsini non aveva alcun valore legale e reinvestì del ducato il cardinale a cui fu imposto il nome di Roberto II, duca di Urbania; il granduca di Toscana e i veneziani lasciarono intendere il loro favore a patto che Roberto fosse in grado di imporre i propri diritti con la forza. A poco a poco le città del ducato passarono dalla parte di Roberto e Medea si trovò assediata fra le montagne della sua cittadella come uno scorpione accerchiato dal fuoco. Si badi che questa similitudine non è mia, ma di Raffaello Gualterio, storiografo di Roberto II. Ma Medea non seguì il destino dello scorpione e non si suicidò. Sbalordisce ancora che essa avesse potuto tenere a bada i nemici per tanto tempo, priva di mezzi e di alleati com’era. Gualterio l’attribuisce a quel fascino fatale che aveva portato a morte Pico e lo Stimigliano e che aveva trasformato il buon Guidalfonso in un volgare fellone. Un fascino tale che tutti i suoi amanti s’erano immolati per lei, anche dopo essere stati trattati con ingratitudine e soppiantati da altri rivali. Raffaello Gualterio arriva ad attribuire questo, potere ad una connivenza diabolica.
Alla fine l’ex cardinale Roberto riuscì ad imporsi ed entrò trionfante in Urbania nel novembre 1579. Il nuovo duca si comportò con moderazione e clemenza. Non ci furono esecuzioni capitali, se si esclude quella di Oliverotto da Narni che fu ucciso mentre tentava di pugnalare il duca al grido di «Lunga vita a Bartolomeo!». Il piccolo Bartolomeo fu spedito a Roma presso gli Orsini; la duchessa venne trattata con rispetto e confinata nell’ala sinistra del palazzo.
Si dice che lei avesse avuto la sfrontatezza di chiedere di incontrare il duca, ma che questi, con un modo di fare tutto pretesco, si fosse limitato a citare i versi che narrano di Ulisse e delle Sirene. È comunque incredibile che si fosse sempre rifiutato di vederla, giungendo al punto di abbandonare la sala un giorno in cui la donna vi era entrata di sotterfugio. Qualche mese più tardi fu scoperto un complotto per assassinare il duca, ordito come s’immagina da Medea. Eppure il giovane congiurato, certo Marcantonio Frangipani da Roma, negò anche sotto le più atroci torture la complicità della donna. Al duca Roberto, alieno dal ricorrere a soluzioni estreme, non rimase che trasferire la duchessa dalla villa di Sant’Elmo al convento delle clarisse in città, dove fu posta sotto attenta sorveglianza. Sembrava impossibile che Medea potesse tesser trame di alcun genere, nel suo isolamento. Pure riuscì a fare avere una lettera e una sua miniatura a un certo Prinzivalle degli Ordelaffi, un giovane di diciannove anni, discendente da una nobile famiglia della Romagna e fidanzato con una delle più belle fanciulle di Urbania. In breve volger di tempo questi ruppe il fidanzamento e poco dopo attentò alla vita del duca Roberto con un pistoletto da tasca mentre questi stava inginocchiandosi per la messa grande del giorno di Pasqua. Questa volta il duca Roberto volle ottenere a tutti i costi le prove della colpevolezza di Medea. Prinzivalle venne affamato per diversi giorni, sottoposto a terribili supplizi e quindi condannato. Pochi attimi prima di essere spellato vivo e di venir squartato dai cavalli gli venne assicurata la grazia a patto che avesse ammesso la complicità della duchessa. Lo stesso confessore e le monache, che assistevano all’esecuzione fuori Porta Romana, si fecero dattorno a Medea perché, ammettendo la propria colpa, salvasse lo sciagurato di cui si potevano sentire le grida strazianti fin dentro il convento. Medea chiese licenza di assistere alla scena da un balcone, da dove poteva vedere Prinzivalle ed essere vista. Gettò un gelido sguardo sulla creatura martoriata lasciando cadere il fazzoletto ricamato. Allora lui chiese che il boia gli asciugasse la bocca con quel panno, poi lo baciò e gridò che Medea era innocente. Spirò dopo alcune ore di agonia. Era troppo anche per un individuo paziente come il duca Roberto. Convinto ormai che fin quando fosse vissuta Medea egli sarebbe stato in pericolo, pur volendo evitare uno scandalo (rimaneva sempre in lui qualcosa del prete), fece strangolare Medea in convento. C’è da notare che l’incombenza fu affidata esclusivamente a delle donne, due accusate di infanticidio alle quali fu rimessa la pena.
«Questo principe pieno di clemenza» scrive Don Arcangelo Zappi nella vita di lui pubblicata nel 1725 «è biasimevole per una sola colpa, tanto più grave se si considera che egli stesso era stato uomo di chiesa fin tanto che il Papa non lo aveva esonerato dagli ordini sacri. Nel momento di sancire la morte dell’infame Medea, al fine di evitare che il suo incanto potesse aver presa su qualsiasi maschio, non solo ne affidò l’esecuzione alle donne, ma si sussurra che avesse interdetto preti e monaci dall’assisterla, così da farla morire senza assoluzione e in ogni caso senza che un soffio di penitenza avesse potuto alitare su quel cuore duro come il diamante».
20 settembre. Grande luminaria per il quindicesimo anniversario della breccia di Porta Pia. La gente, qui, si sente italianissima ad eccezione del sor Asdrubale che scuote la testa parlando, come dice lui, di piemontesi. Da quando Urbania cadde in possesso del Sacro Soglio, nel 1657, ha avvertito il peso del giogo.
28 settembre. Sto cercando a dritta e a manca i ritratti della duchessa Medea.
M’immagino che gran parte siano andati distrutti per opera di Roberto II, timoroso che la di lei letale bellezza potesse giuocargli qualche tiro birbone anche dopo la morte. Ne ho scoperti comunque tre o quattro: una miniatura che si trova nell’archivio e che si dice sia quella inviata al povero Prinzivalle per fargli dar di volta al cervello; un busto saltato fuori dai depositi del palazzo; poi un gran dipinto, attribuito al Barocci, che rappresenta Cleopatra ai piedi di Augusto. Augusto non è altro che la versione allegorica di Roberto II, e pur sotto i panni del romano si notano la tipica testa rotonda e rapata, il naso un po’ storto, la barba rasa e la ben nota cicatrice. Per quanto in fogge orientali e con parrucca nera, Cleopatra sta a rappresentare, almeno credo, Medea da Carpi. La donna, in ginocchio, ostenta il bel seno e l’offre all’ira del vincitore, ma più per ammaliarlo che per essere colpita, mentre l’uomo si volge con uno strano gesto di disgusto. Sono ritratti di fattura mediocre, esclusa la miniatura che è squisita. Con l’aiuto di quest’ultima e di certi indizi del busto non è difficile farsi un’idea della bellezza di questa femmina terribile. Si tratta del tipo di donna in voga nell’ultimo rinascimento e in certo senso immortalato da Jean Goujon e dalla scuola francese. Il volto è di un ovale perfetto, con la fronte piuttosto arrotondata, incorniciata di minuscoli riccioli, quasi fiocchi di lana, color biondo rame, lucenti; il naso tende appena all’aquilino e gli zigomi sono un po’ bassi; gli occhi grigi, grandi, prominenti, sotto le sopracciglia dal disegno perfetto, si schiudono fra le palpebre un po’ troppo tirate agli angoli; anche la bocca, d’un rosso vivo e dal contorno irreprensibile, sembra leggermente tesa e con essa le labbra con quel loro arricciarsi vago sui denti candidi. La tensione appena percettibile delle palpebre e delle labbra le conferisce un che di raffinato e di misterioso, una sinistra seduzione. Occhi e labbra sembrano fatti per prendere e non per dare.
Con quella sorta di broncio infantile, la bocca pare adatta a mordere o a suggere come una sanguisuga. L’incarnato è abbagliante: il bianco rosato, trasparente, di una bella donna dalle chiome rosse. Il capo, col suo diadema di riccioli elaborati e la capigliatura trapunta di perle, tirata per mettere in risalto l’ovale del volto, poggia come quello dell’antica Aretusa, sul collo lungo, pieno, di cigno. Una beltà a suo modo inconsueta, ma a prima vista convenzionale, artificiosa, piena di voluttà eppur gelida. E tuttavia più la si guarda e più comunica un senso di inquietudine. Porta al collo una catena d’oro dalle maglie intervallate da losanghe che recano inciso un motto, o un gioco di parole (secondo la moda francese del tempo), «Amour Dure -Dure Amour». Il medesimo motto si trova nell’incavo del busto e suo tramite mi è stato possibile identificarlo per quello di Medea da Carpi. Ho esaminato con cura questi tragici ritratti e mi son chiesto sovente cosa esprimesse questo volto, capace di condurre tanti uomini a morte, quando ancora parlava e sorrideva, quando affascinava le sue vittime di un amore funereo: «Amour Dure – Dure Amour», duro l’amor, l’amor che dura; già, proprio così, quando si pensa alla cieca fedeltà e al destino dei suoi amanti.
13 ottobre. Questi giorni non ho avuto nemmeno il tempo di scrivere un rigo del diario. Le mattinate le ho passate tappato nell’archivio, i pomeriggi ho fatto lunghe passeggiate in questo incantevole autunno (le colline più alte recan già tracce di neve). Le sere poi scrivo una confusa relazione sul palazzo ducale, richiestami dal governo, giusto per tenermi occupato in qualcosa di inutile. Della mia storia non sono stato capace di scrivere nemmeno una parola… A proposito, devo annotare un particolare curioso che ho trovato quest’oggi in un manoscritto sulla vita del duca Roberto. Quando il duca fece sistemare nel cortile del palazzo la propria statua equestre, opera di Antonio Tassi, discepolo del Gianbologna, ordinò di fondere in tutta segretezza una statuirla d’argento del suo genio familiare o angelo protettore, come recita il MS «familiaris ejus angelus seu genius, quod a vulgo dicitur idolino»; quindi la statuetta, dopo essere stata consacrata dagli astrologi, «ab astrologis qui – busdam ritibus sacrato», fu riposta nella cavità del torso della statua eseguita dal Tassi, affinché la sua anima potesse riposare fino al giorno della resurrezione universale. È una notizia curiosa, sconcertante; come poteva l’anima del duca Roberto attendere la resurrezione quando, da buon cattolico, avrebbe dovuto credere che ogni anima, una volta liberatasi dalla carne, non ha altra via che la mondazione del purgatorio? Forse una qualche superstizione pagana, propria del rinascimento anche se improbabile in uno che aveva vestito la porpora cardinalizia, stabiliva un nesso fra l’anima e il genio tutelare, tanto da credere che la confissione di quest’ultimo nella creta per forza di magici riti («ab astrologis sacrato», recita il MS), potesse permettere all’anima di riposare nel corpo sino al giorno del giudizio? Ammetto che questa faccenda mi frastorna. Mi chiedo addirittura se sia mai esistito, o se esista ancora, questo idolino dentro la statua bronzea del Tassi.
20 ottobre. In questi ultimi tempi mi incontro spesso con il figlio del viceprefetto: un giovane piacente, dal volto malato d’amore e un tiepido interesse per la storia e l’archeologia dì Urbania della quale non sa nulla.
Questo giovane, che è vissuto a Lucca e a Siena prima che il padre fosse trasferito qui, veste pantaloni troppo lunghi e attillati che gli impediscono di piegare i ginocchi, porta sempre colletti inamidati e occhialini, oltre a un paio di guanti di pelle finissima infilati nel panciotto. Di Urbania parla come Ovidio parlava del Ponto e si lagna sempre dei rozzi giovanotti, gli scrivani che pranzano alla taverna dove mangio anch’io e che gridano e cantano come forsennati, e dei signorotti locali che vanno in giro con i calessini, tutti scollacciati come signore al ballo. Lui mi parla a lungo dei suoi amori, passati, presenti e futuri. Deve trovarmi un individuo strano dal momento che non ho esperienze amatorie da narrargli a mia volta. Per strada ha l’abitudine di indicarmi a dito le servette carine (o brutte) sulle quali ci imbattiamo, o le sartine; oppure si mette a fare il cascamorto e a canticchiare dietro ogni donna appena passabile. Alla fine mi ha condotto a casa della donna del suo cuore, una contessa imponente, baffuta e dalla voce da pescivendola. Qui, dice lui, potrò incontrare il gran mondo e qualcuna delle belle di Urbania… troppo belle, ahimè! La casa consiste in tre stanzoni semi ammobiliati, dai pavimenti in mattoni senza uno straccio di tappeto, con lampade a petrolio e orribili quadri appesi alle pareti lerce come quelle d’una latrina. E tutte le sere la solita cricca seduta in cerchio che chiacchiera a voce alta riferendo novità vecchie d’un anno. Le signore più giovani, in abiti verdi o gialli, sgargianti, si sventolano, mentre io batto i denti dal freddo, allorché i loro damerini sussurrano qualche sciocchezza dietro il ventaglio agitando i favoriti irti come scopettoni. E queste sarebbero le donne di cui dovrei innamorarmi? Dopo l’attesa vana della cena, o almeno di un tè, corro a rintanarmi a casa mia, deciso a non frequentar più il beau monde di Urbania.
Che non abbia amori è vero, sebbene il mio amico non lo voglia intendere.
Quando venni in Italia, da principio, ero assetato di avventure romantiche.
Come Goethe a Roma sospiravo in attesa che si schiudesse una finestra e apparisse una creatura incantevole, «Welch mich versengend erquickt». Forse dipende dal fatto che Goethe era tedesco, abituato alle Fraus del suo paese, ed io dopo tutto un polacco avvezzo a qualcosa di molto diverso dalle Fraus. Ad ogni buon conto, per quanti sforzi facessi a Roma, a Firenze e a Siena, non mi capitò di incontrare donne che andassero pazze per me, né fra le signore che masticavano un francese orribile, né fra le popolane, furbe e fredde come strozzini. Così mi tengo alla larga dalle femmine italiane, dalle loro voci acute e le sgargianti toilettes. Ho contratto matrimonio con il passato, la storia, con donne come Lucrezia Borgia, Vittoria Accoramboni o, come oggi, con Medea da Carpi. Un giorno, chissà, avrò una grande passione, una donna per la quale fare il Don Chisciotte, da quel polacco che sono; una donna per la quale bere nelle sue scarpine, per il cui piacere morire. Ma qui, no di certo! Ci sono poche cose che mi colpiscono come la decadenza delle donne italiane. Che ne è stato della razza delle Faustine, delle Marozie, delle Bianche Cappello? Dove trovare oggi (ammetto che mi perseguita questa donna) una Medea da Carpi? Se fosse mai possibile incontrare una donna di sì raffinata beltà, di indole così tremenda, seppur solo in potenza, sono convinto che me ne innamorerei fino al giorno del giudizio, come accadde a Oliverotto, al Frangipane e al Prinzivalle.
27 ottobre. Sentimenti di gran distinzione questi per un professore, un erudito? A suo tempo ho giudicato gli artisti che frequentavo a Roma troppo fanciulleschi perché schiamazzavano di notte per le vie o si lasciavano andare a burle tornando dal Caffè Greco o dalla cantina di via Palombella. Quasi non fossi io stesso ancor più ragazzo… io, il melanconico, il tetro Amleto o il Cavalier Dolente, come mi chiamavano loro.
5 novembre. Non riesco a liberarmi del pensiero di Medea da Carpi. Durante le passeggiate, le mattine in archivio, le serate solitarie mi sorprendo spesso a pensare a questa donna. Mi chiedo se sto diventando un romanziere invece di uno storico. Eppure mi sembra di capirla, molto meglio comunque di quanto lo consentano i dati di cui dispongo. Innanzi tutto dobbiamo metter da parte la pedantesca, moderna distinzione di ciò che è giusto da ciò che non lo è.
Giusto e ingiusto non hanno sudditanza in un’epoca di violenze e di tradimenti, e men che meno per creature come Medea. Sarebbe come volerlo insegnare ad una tigre! Esiste al mondo essere più nobile di questa possente creatura, di questa molla d’acciaio, di questo passo vellutato, quando allunga il corpo flessibile, o si liscia il pelo superbo, o serra con le potenti ganasce il corpo della vittima? Sì, Medea riesco a capirla. Immaginiamo una donna di eccelsa beltà, temeraria, padrona di sé, una donna di grandi risorse, geniale, allevata da un signorotto che le abbia fatto leggere Tacito e Sallustio e le abbia narrato le storie dei Malatesta, di Cesare Borgia e personaggi consimili… una donna che ha una unica passione: il potere: il comando… immaginiamola quando, alla vigilia delle nozze con un potente come il duca di Stimigliano, viene reclamata, anzi rapita da un mediocre come Pico, racchiusa nel suo castellaccio di brigante e costretta a subire l’assalto amoroso di questo pazzo, quasi fosse un atto necessario e onorevole! Il solo pensiero di far violenza ad una simile creatura è di per sé un oltraggio; e se Pico preferisce abbracciarla, col rischio di incontrare fra le braccia di lei la lama gelida d’un pugnale, è affar suo. È un atto spregevole, ma se si vuole anche eroico, pensare di comportarsi con lei come con qualsiasi ragazzotta del villaggio. Medea impalma il suo Orsini: un matrimonio, si noti bene, fra un vecchio d’armi e una giovinetta sedicenne. E cosa significa questo? Significa che questa donna dal carattere volitivo vien presto considerata come un oggetto, un possesso, una buona soltanto a scodellare l’erede al suo signore; una che deve far la riverenza ai consiglieri del duca, ai capitani, alle damigelle; che non deve porre domande, che rischia percosse e improperi al minimo segno di rivolta, o di venir gettata in una segreta o strangolata o fatta morire d’inedia al minimo sospetto d’infedeltà. Supponiamo allora che lei sappia che il marito la sospetta per aver guardato con troppa insistenza questo o quello, o che qualche cortigiano, o una damigella gli abbiano sussurrato all’orecchio che, dopo tutto, il piccolo Bartolomeo può essere benissimo un Orsini come un Pico. Supponiamo dunque che lei sappia che deve colpire o esser colpita.
Sferra il colpo o ne affida ad altri l’esecuzione. E a quale prezzo? Una promessa d’amore, amore per uno scudiero, il figlio d’una sguattera! Già, costui deve essere matto transito o ubriaco per crederci; il fatto stesso che l’abbia ritenuto possibile lo rende punibile con la morte. E poi osa anche piatire! Costui è peggiore del Pico. Medea è costretta a difendere una seconda volta il proprio onore: se ha potuto pugnalare il Pico, non ci sono problemi con questo stolto, sia che lo faccia lei o l’affidi ad altri.
Inseguita dall’orda dei parenti, si rifugia a Urbania. Come prima gli altri uomini, anche il duca si invaghisce di Medea e prende a trascurare la consorte; diciamo pure che le spezza il cuore. È forse colpa di Medea? Dipende da lei se i ciottoli che ruzzolano sotto le ruote del suo carro son destinati ad essere stritolati? Pensate forse che una donna come Medea abbia potuto nutrire un qualche malanimo verso una donnetta come la duchessa Maddalena? Diciamo che ne ignora semplicemente l’esistenza. È grottesco definirla una donna crudele, o magari immorale. Il suo destino è quello di trionfare, prima o dopo, sui nemici; di volgere le loro vittorie in cocenti sconfitte. È in suo potere rendere schiavi quanti si trovano sul suo cammino; quanti la vedono ne restano folgorati, e il destino dei suoi schiavi è segnato fin da principio. Ad eccezione del duca Guidalfonso, i suoi amanti corrono verso la morte; e anche in questo non c’è nulla di ingiusto. Possedere una donna come Medea è una felicità troppo grande per un mortale; ciò lo manda via di senno, gli fa dimenticare perfino di quanto le sia debitore. A nessuno che possa accampare diritti su di lei è concesso di sopravvivere; sarebbe un sacrilegio. Solo la morte, la volontà di immolarsi per una tale beatitudine rende l’uomo degno di essere suo amante. Costui deve amare sapendo che ciò implica sofferenza e distruzione. Ecco il significato dell’enigma che porta su di sé: «Amour Dure – Dure Amour». L’amore di Medea è imperituro, seppur letale, per l’amante: un amore duraturo e crudele.
11 novembre. Ci avevo preso in pieno. Ho scovato… Pieno di esultanza ho invitato il figlio del viceprefetto ad una cena di cinque portate alla Trattoria Stella d’Italia… Ho scovato nell’archivio un pacchetto di lettere di cui ignorava l’esistenza persino il direttore… lettere del duca Roberto su Medea e di Medea stessa! Sì, proprio la scrittura di Medea… una grafia rotonda, di persona colta, con diverse abbreviazioni, un’aria grecizzante quale doveva addirsi ad una principessa di rango capace di leggere Platone come Petrarca. Di per sé le lettere contan poco, minute di affari da passare al copista, scritte durante il periodo in cui signoreggiava sul gracile Guidalfonso. Ma sono pur sempre le sue lettere e quasi mi sembra che da questi frammenti cartacei che si riducono in polvere aliti il profumo di una chioma femminile.
Le poche lettere del duca Roberto gettano una nuova luce su questo personaggio. Un prete fino in fondo all’anima, gelido, astuto, e codardo. Il solo pensiero di Medea lo fa tremare… «la pessima Medea»… peggiore dell’omonima eroina della Colchide, come la definisce lui. La clemenza dimostrata per lunghi anni è solo il frutto della paura che lo attanaglia ogni volta che pensa di sbarazzarsi di lei. Ne è terrorizzato quasi fosse qualcosa di sovrannaturale; gli piacerebbe farla bruciare come una strega. Le missive inviate al cardinale Sanseverino, a Roma, narrano delle infinite precauzioni che deve prendere giornalmente, come l’indossare un corsetto di maglia d’acciaio sotto il giustacuore, bere solo quel latte che ha visto mungere, gettar bocconi al cane per evitare d’essere avvelenato, sfuggire le candele di cera per via del loro profumo, astenersi dalle passeggiate fuori porta affinché nessuno possa fargli rompere l’osso del collo imbizzarrendo il cavallo… e oltre questo, un due anni dopo che Medea è stata sepolta, lui blatera ancora della paura che ha di incontrarne l’anima dopo la morte e scherza a proposito di quell’ingegnosa trovata (opera d’un astrologo e di un certo Fra Gaudenzio, un cappuccino) grazie alla quale sarà in grado di assicurarsi la requie eterna fino a quando l’anima della malvagia Medea sarà per sempre «confitta nei gorghi di pece bollente o nel ghiaccio di Caina». Ecco allora la spiegazione della statuetta d’argento – «quod a vulgo dicitur idolino» — che fece saldare nella cavità della sua stessa effigie plasmata dal Tassi. Finché l’immagine della sua anima fosse rimasta attaccata a quella del corpo avrebbe riposato in attesa del giorno del giudizio. E mentre quella di Medea sarebbe rimasta impaniata nella pece infernale, la sua sarebbe volata dritta in cielo. E pensare che non più di due settimane fa lo consideravo un eroe. Mio caro duca Roberto, narrerò di te nella mia storia e nemmeno cento idoli potranno salvarti dal ludibrio.
15 novembre. Strano! Sebbene mi abbia sentito parlare di Medea da Carpi tante volte, quello stolto del figlio del viceprefetto si ricorda all’improvviso che quando era bambino qui a Urbania, la nutrice soleva spaventarlo dicendogli che sarebbe venuta a prenderlo Madonna Medea, quella che vola a cavallo d’un caprone.
20 novembre. Sono stato in giro con un professore bavarese di storia medievale a fargli vedere le località circostanti. Fra le altre siamo andati a Rocca Sant’Elmo per visitare l’antica villa dei duchi di Urbania dove fu confinata Medea nel periodo che va dall’avvento del duca Roberto al complotto del Frangipani. È stata una lunga cavalcata lungo le valli desolate dell’Appennino, brullo oltre ogni dire, accompagnati dalla frangia trasparente di quercioli color ruggine, fra chiazze d’erba cui il gelo conferisce lo splendore della seta e le ultime foglie ingiallite dei pioppi che rabbrividiscono e sciamano via lungo i fossi al soffio della tramontana. Le cime dei monti sono avvolte di grigia caligine; se domani continua il vento si staglieranno come bianche masse contro il cielo gelido e azzurro. Sant’Elmo è un misero villaggio appollaiato sul crinale dell’Appennino, lassù dove la macchia mediterranea ha da tempo lasciato il posto ad una vegetazione nordica. Si prosegue per miglia fra boschi di castagni spogli, nell’aria satura dell’afrore di foglie marcescenti, assordati dai rovinosi ruscelli che le piogge d’autunno han reso lutulenti e gagliardi, salendo e risalendo sull’orlo del precipite botro. Poi all’improvviso i nudi castagni lasciano il posto, come a Vallombrosa, alla cintura nera e densa dell’abetaia. Superata questa barriera si giunge ad uno spiazzo: pascoli inariditi dal gelo, rocce coperte di neve fresca, incombenti; poi nel bel mezzo, su un poggio, fra due larici rattrappiti, ecco la villa ducale di Sant’Elmo, un gran cubo di pietra nera con uno stemma d’arenaria, le finestre protette da grate e due rampe di scale sul prospetto. Ai giorni nostri l’hanno data in affitto al proprietario dei boschi circostanti che se ne serve come deposito di castagne, di fascine e per raccogliervi i prodotti delle carbonaie che fumigano dattorno. Legammo i cavalli agli anelli rugginosi ed entrammo; dentro c’era solo una vecchia scarmigliata. La villa è un casino di caccia, fatto costruire dal duca Ottobuono IV, padre di Guidalfonso e di Roberto, intorno al 1530. Un tempo alcune stanze dovevano essere state affrescate o foderate di quercia intagliata, anche se oggi non resta alcuna traccia di decorazione. Solo in uno dei saloni rimane un gran camino in marmo, simile a quello del palazzo ducale, con putti scolpiti di contro alla campitura azzurra, mentre su entrambi gli stipiti un amorino nudo regge un bacile, l’uno colmo di garofani, l’altro di rose. La stanza è un ammasso di fascine.
Ripartimmo molto tardi. Il mio compagno era di pessimo umore per la ricerca infruttuosa. Entrando nel bosco di castagni fummo sfiorati da una bufera di neve. La vista della neve, nonché della terra e dei cespugli imbiancati mi fece sentire per un attimo a Posen, ancora bambino. Mi misi a cantare e a gridare con grande sdegno del mio compagno. Se lo riferirà a quelli di Berlino non tornerà certo a mio vantaggio. Figuriamoci, uno studioso di storia che si mette a gridare e a cantare mentre il collega impreca contro le strade sconnesse e la neve! Sono rimasto sveglio tutta la notte a contemplare i tizzoni spenti del camino, riandando col pensiero a Medea intrappolata, nel cuore dell’inverno, nel remoto castello di Sant’Elmo, fra il gemito delle abetaie, il rombo dei torrenti, la neve che pone l’assedio, miglia e miglia lontana dagli esseri viventi. Mi sembrava di vederla, la scena, ed io che corro a liberarla… Ma era solo l’effetto della stanchezza, dell’aria pungente per la prima neve, o forse del punch che il professore mi aveva fatto trangugiare a tutti i costi dopo cena.
23 novembre. Grazie a Dio il professore bavarese se n’è andato, finalmente. La sua presenza minacciava di farmi ammattire. Parlandogli del mio lavoro, un giorno gli raccontai di Medea e delle mie teorie. Lui si degnò di rispondere che si trattava delle solite leggende frutto della tendenza mitopoetica (vecchio scemo!) del rinascimento; che la ricerca storica le avrebbe in massima parte sconfessate, così come era accaduto con quelle dei Borgia; e che una donna come gliela avevo descritta io non aveva alcun fondamento reale, né psicologico, né fisiologico. Volesse il cielo che si potesse dire lo stesso di certi professori come lui e i suoi colleghi! 24 novembre. Non riesco ad esprimere la gioia per essermi liberato di quello stolto. Ero spinto dall’impulso di strozzarlo ogni volta che nominava la Signora dei miei pensieri – perché tale è diventata – Metea, come la chiamava quell’animale! 30 novembre. Mi sento scombussolato da quanto è appena successo. Temo che quella calìa del vecchio abbia ragione quando sostiene che faccio male a vivere tutto solo in un paese straniero e che la mia condotta ha un che di malsano. È ridicolo sentirmi così eccitato per la casuale scoperta, e non altro, del ritratto d’una donna deceduta trecento anni fa. Con il caso di mio zio Ladislao e il sospetto di altre tare mentali in famiglia, dovrei guardarmi davvero da certe folli eccitazioni.
Eppure è stato un avvenimento drammatico, misterioso. Avrei giurato di conoscere a menadito tutti i quadri del palazzo e soprattutto i ritratti di lei.
Sia come sia, mentre stamattina stavo sortendo dall’archivio son passato per uno dei tanti sgabuzzini – veri e propri studioli dalla pianta irregolare – che articolano l’entrata e l’uscita di questo curioso palazzo munito di torricini come uno château francese. Dovevo esserci passato altre volte perché la vista che si scorgeva dalla finestra mi era familiare: l’inconfondibile tratto della torre cilindrica di rimpetto, i cipressi dall’altra parte della scarpata, più oltre il campanile e, contro il cielo, il profilo del monte Sant’Agata e della Leonessa coperta di neve. Credo che ci siano due stanzini uguali e forse avevo imboccato quello sbagliato, o magari avevano aperto un’imposta, tirato una tenda, non so. Passando scorsi uno specchio antico, stupendo, dimenticato sulla parete scura chiazzata di giallo. Mi avvicinai e, mentre osservavo la cornice, l’occhio mi cadde inavvertitamente sulla luce dello specchio. Ebbi un sussulto e quasi uscii in un grido. Dietro la mia immagine riflessa ce n’era un’altra, una figura che mi stava a ridosso, il volto accanto al mio. La figura, il volto, erano proprio i suoi! Medea da Carpi! Mi girai di botto, bianco, credo, come il fantasma che m’aspettavo di vedere.
Sulla parete di fronte allo specchio, a un paio di passi da dove mi trovavo, era appeso un ritratto. E che ritratto! Nemmeno il Bronzino ne ha dipinto uno simile. Sullo sfondo d’un azzurro cupo, aspro, si stacca la figura della Duchessa seduta, in statica positura, su un seggiolone dall’alto schienale, irrigidita, per così dire, dalla veste d’un metallico broccato e dal corsetto reso ancor meno flessibile da placche a fiorami ricamate in argento e intessute di fili di perle. Trapunta d’argento e di perle, la veste ha un colore strano, un rosso spento, il colore malefico del succo di papavero, contro il quale la carne delle mani esili, lunghe e dalle dita affusolate, e quella del collo elegante e del volto dalla fronte nuda assume un biancore gelido, come di alabastro.
Il volto è il medesimo degli altri ritratti: la stessa fronte ricurva incorniciata di riccioli corti e morbidi fra il rosso ed il giallo; le stesse sopracciglia dalla fine arcatura, accennate appena; le stesse palpebre appena socchiuse; le stesse labbra vagamente tirate, ma il tutto con una purezza di tratti, un abbagliante fulgore dell’incarnato e un’intensità dello sguardo che non hanno paragone con gli altri ritratti.
Ella guarda dalla cornice con uno sguardo freddo, misurato; eppure le labbra accennano ad un sorriso. Una mano regge una rosa dal colore rosso spento; l’altra, esile e lunga, giocherella con un cordoncino d’oro e di seta e con i gioielli che le pendono sul petto; attorno al collo, che ha il candore del marmo ed è delimitato dal rosso smorto dell’attillato corsetto, porta un collare d’oro con un medaglione smaltato sulla cui faccia è inciso il motto: «Amour Dure – Dure Amour».
A ripensarci bene non c’ero mai entrato in quello stanzino o studiolo che fosse; dovevo aver sbagliato porta. Per quanto la spiegazione sia così semplice, dopo diverse ore mi sento ancora scosso in tutta la persona. Se continua questa tensione, dovrò andare a Roma per Natale a prendermi qualche giorno di vacanza. Mi sento come se qualche pericolo stesse incombendo su di me, qui; eppure, eppure, non vedo come riuscirò a staccarmene.
10 dicembre. Anche se a malincuore ho accettato l’invito del figlio del viceprefetto ad andare a vedere la spremitura delle olive nella loro villa, non lontano dal mare. La villa, oggi una fattoria, era un tempo una fortezza turrita; s’eleva sul pendio d’un colle schiarito dagli ulivi e da ciuffi di vincastri che sembrano fiammate arancioni. Le olive le spremono in una cantina buia, paurosa, simile a una segreta. Al riverbero della luce del giorno bigia e lontana, al bagliore giallognolo e fumigante di resinosi stoppaccini messi a bruciare nei barattoli, si scorgono bovi bianchi che girano attorno a un immenso frantoio; figure indefinite armeggiano con stanghe e pulegge: mi sembra di rivivere una scena dell’inquisizione. Il Cavaliere volle farmi assaggiare il suo vino buono e dei biscotti. Camminai a lungo sulla spiaggia.
Avevo lasciato Urbania avvolta in una bufera di nevischio; sulla costa splendeva un bel sole che, insieme all’aria salmastra e al traffichìo del porticciolo sull’Adriatico, mi rinfrancarono. Tornai ad Urbania che ero un altro. Il sor Asdrubale, il padrone di casa, ramestando fra le casse dorate, i sofà impero, le antiche chicchere e i piatti e i quadri che non trovano acquirenti, si congratulò per la mia buona cera. «Lei lavora troppo, sa. I giovani si devono divertire: il teatro, il passeggio, gli amori. Quando avrà la zucca pelata, sarà il tempo di metter giudizio» e così dicendo si tolse la papalina rossa, bisunta. Sì, mi sento proprio meglio. Lo avverto da come riesco ad applicarmi al lavoro. Gliela farò vedere io a quelle mummie di Berlino.
14 dicembre. Il lavoro mi approda come non mi è capitato mai. Mi appare tutto chiaro: il duca Roberto, volpino e codardo, la malinconica duchessa Maddalena, il fragile, pretenzioso duca Guidalfonso innamorato della cavalleria, e soprattutto la splendida figura di Medea. Mi sembra di essere lo storico più famoso di tutti i tempi, ed un ragazzetto di dodici anni. Ieri è nevicato sulla città, per due ore filate. Quando smise, scesi per strada e insegnai ai ragazzi a fare un pupazzo di neve, anzi una pupattola. Mi venne il ghiribizzo di chiamarla Medea. «La pessima Medea!» gridò uno di loro.
«Quella che vola a cavallo d’un caprone?» «No» dissi «era una donna bella, la duchessa di Urbania, la più bella che sia mai esistita». Le feci una coroncina di filo argentato e spinsi i ragazzi a gridare: «Evviva Medea!». Ma uno di loro si indispettì: «È una strega, diamole fuoco!». Al che corsero tutti a raccogliere rami secchi e a procurarsi della stoppa. In pochi minuti quei demoni urlanti l’avevano fatta liquefare.
15 dicembre. Gonzo che non sono altro, e pensare che ho ventiquattro anni e un nome in campo letterario! Durante le mie lunghe passeggiate ho composto un’aria che la gente ora canta e fischietta per via, dai versi in un italiano impossibile: «Medea, mia dea…» e altre sciocchezze del genere.
Il padrone di casa credo che l’abbia presa per una donna che avrei incontrato al mare. Anche le tre parche pensano a qualcosa del genere. Oggi pomeriggio, al tramonto, mentre mi rassettava la stanza, la sora Ludovica mi ha detto: «Come ha imparato a cantar bene il signorino!». Non m’ero nemmeno accorto che stavo canticchiando «Vieni, Medea, mia dea», mentre la vecchia ballonzolava qua e là attizzando il fuoco. Smisi subito. Mi son fatta una bella reputazione! Son sicuro che presto lo sapranno a Roma, e poi a Berlino. La sora Ludovica intanto si spenzolava al davanzale per tirar su il gancio che regge il lume davanti alla loro casa. Mentre stava smoccolando la candela prima di far calare di nuovo la lanterna, ammiccò con quel suo modo strano e ritroso: «Fai male a smettere di cantare, figlio mio, perché giù c’è una giovane che si è fermata ad ascoltare».
Corsi alla finestra. Sotto un arco c’era una donna avvolta in uno scialle nero che guardava verso la finestra.
«Eh, eh! Il signor professore ha chi l’ammira!» disse la sora Ludovica.
«Medea, mia dea!» gridai forte, nell’intento fanciullesco di mettere in imbarazzo la curiosa passante. Quella si volse all’improvviso per andarsene, agitando la mano verso di me. Nel medesimo istante la sora Ludovica fece ricalare al suo posto la lanterna. Una chiazza di luce illuminò la strada. Mi sentii gelare. Quella donna aveva il volto di Medea da Carpi.
Sono proprio matto, matto da legare.
17 dicembre. Temo che questa infatuazione per Medea sia diventata la storiella del giorno, grazie alle mie sciocche chiacchiere e alle stupide canzoncine. Il figlio del viceprefetto, o l’impiegato dell’archivio, o magari qualcuno degli amici della contessa, chissà, sta cercando di farmi uno scherzo. Ma state attenti, cari signori, che vi risponderò pan per focaccia. Immaginate quel che ho provato questa mattina allorché ho visto sopra la scrivania un foglio piegazzato in quattro, sul quale appariva il mio nome in una calligrafia strana eppure familiare. Un attimo, e ho riconosciuto il tratto inconfondibile delle lettere di Medea da Carpi che si trovano nell’archivio. Ho avuto un tuffo al cuore. Questione di un secondo e ho pensato subito al regalino di qualcuno che la sa lunga sul mio interessamento per Medea… a una delle sue lettere autografe sulla quale qualche bellimbusto avesse scritto il mio indirizzo invece di infilarla dentro una busta. Ma non si trattava di una antica missiva, bensì di quattro righe, asciutte, indirizzate proprio a me: «Una persona che ben sa l’interessamento che Spiridione ha mostrato nei suoi confronti si farà trovare questa sera alle nove nella chiesa di S. Giovanni Decollato. Cerchi dunque una donna con uno scialle nero e una rosa in mano nella navata sinistra».
A questo punto capii di essere vittima di una congiura, di una beffa. Rigirai la lettera fra le mani. L’avevano scritta su carta antica, proprio di quella comune nel sedicesimo secolo, e con una calligrafia che sembrava ricalcata su quella di Medea. Chi l’aveva vergata? Passai in rassegna gli eventuali esecutori.
Doveva essere stato proprio il figlio del viceprefetto, forse con lo zampino della sua innamorata, la contessa. Senza dubbio avevano strappato un foglio bianco da qualche antica missiva, e fin qui poco male. Quello che mi sconcerta è che uno dei due abbia avuto l’ingenuità di giocarmi questo tiro e allo stesso tempo l’abilità di creare un falso irreprensibile. Questa gente la sa più lunga di quanto pensassi. Come devo comportarmi con loro? Facendo finta di niente? Contegno e indifferenza ci vuole. No, andrò. Forse ci sarà qualcuno e così potrò scoprire l’artefice. Già, ma se non ci trovo nessuno, come faccio a canzonarli per il loro scherzo mal riuscito? Forse si tratta di una trovata del cavalier Muzio per farmi incontrare quella che in cuor suo pensa che sarà la mia futura fiamma. È probabile che sia così. Sarebbe troppo sciocco e presuntuoso respingere un invito simile. Dopo tutto merita fare la conoscenza di una donna capace di simulare a questo modo la scrittura del cinquecento. Quel damerino di Muzio non ne sarebbe capace. Andrò, in nome del cielo! E li ripagherò come si meritano. Sono le cinque… come passa lento il tempo.
18 dicembre. Mi dà di volta il cervello o i fantasmi esistono per davvero? Quello che è successo ieri notte mi ha sconvolto.
Uscii alle nove, secondo l’ingiunzione della lettera. Era un freddo terribile: bruma e nevischio nell’aria. Non una bottega aperta, serrate le imposte, deserto assoluto. La luce smorta delle rare lanterne con il loro riflesso giallastro e tremolante sui drappi intirizziti rendeva ancor più tenebrose le buie e anguste piole che si scapicollano fra le alte mura e sotto i presuntuosi archivolti. San Giovanni Decollato è una chiesa minuscola, o piuttosto un oratorio, che ho sempre visto chiusa come capita qui a molte altre chiese, ad eccezione dei giorni di gran festa. Si trova dietro il palazzo ducale su una ripida piaggia; da essa si dipartono due vicoli lastricati e scoscesi. Ci son passato tante volte davanti e non vi avrei prestato attenzione, se non fosse stato per l’altorilievo marmoreo sopra la porta che raffigura la testa bigia del Battista deposta sul vassoio, e per la gabbia di ferro che gli penzola accanto nella quale un tempo venivano esposte le teste mozze dei giustiziati.
Giovanni Battista, il decapitato, o come lo chiamano qui il decollato, sembra che sia il patrono del ceppo e della mannaia. Arrivai alla chiesa in un batter d’occhio. Ero in preda all’eccitazione, l’ammetto; dopo tutto ho ventiquattro anni e sono di sangue polacco. Quando fui in quella specie di spazio da dove prendono a scendere i due vicoli, scoprii con stupore che dalle finestre dell’oratorio non filtrava alcuna luce e che la porta era sbarrata. Ecco quale era lo scherzo che mi avevano giuocato: farmi andare di notte, col freddo e col gelo, fin ad una chiesa esclusa al culto da anni. Non so cosa avrei fatto in quel momento. Volevo sfondare la porta dell’oratorio, o piuttosto correre dal figlio del viceprefetto per scaraventarlo giù dal letto. Sentivo che lo scherzo me l’aveva fatto proprio lui. Decisi per questa ultima soluzione e già mi stavo avviando verso casa sua lungo il fianco sinistro della chiesa, quando mi giunse improvviso il suon di un organo, vicinissimo; un organo, sì, dal ronfante sottofondo, e con esso le voci d’un coro e la nenia strascicata delle litanie. Allora la chiesa non era chiusa! Tornai indietro all’imbocco del vicolo.
Buio e silenzio di tomba. All’improvviso di nuovo il suono di voci e dell’organo, come una folata. Prestai l’orecchio; veniva da su per l’altro vicolo, quello sul fianco destro dell’oratorio. Forse ci dava una porta laterale.
Passai sotto l’arco e presi a discendere verso il luogo da dove sembrava provenisse quel suono. Nessuna porta: solo il buio, le fosche pareti, i paramenti neri, bagnati, con il debole lucore delle lanterne. Su tutto silenzio assoluto. Mi fermai un attimo e il canto riprese. Questa volta non avevo dubbi, veniva proprio dal vicolo che avevo appena percorso. Tornai indietro… nulla. Quel suono sembrava spuntare ora qua, ora là, sempre dalla parte opposta da quella in cui ero.
Alla fine persi la pazienza. Sentivo che stavo per cadere in preda al terrore e che solo un gesto violento e repentino me l’avrebbe fatto vincere. Se quei suoni misteriosi non risalivano né dal vicolo di destra, né da quello di sinistra, venivano per forza dalla chiesa. Preso dal furore salii di corsa gli scalini e fui sul punto di dare un gran scossone alla porta, con tutte le mie forze; ma quella, con mio grande stupore, cedette dolcemente. Entrai; il canto delle litanie risuonava più distinto di prima mentre indugiavo fra la porta e la pesante tenda di cuoio. La sollevai e feci il mio ingresso. Ceri e candelieri a più braccia illuminavano l’altare. Doveva trattarsi d’una funzione serale, una novena natalizia o qualcosa del genere. Le navate erano abbastanza affollate ma immerse nell’oscurità. Mi aprii il passo lungo il braccio destro, verso l’altare. Appena i miei occhi si furono abituati a quel luccichio improvviso, cominciai a guardarmi intorno col cuore in gola. Non mi sfiorava più la mente che potesse trattarsi di una burla, e che vi avrei potuto trovare uno degli amici del cavaliere. Cercavo. La gente era intabarrata, gli uomini nei loro mantelli, le donne in grandi scialli di lana. Lontano dall’altare era quasi buio e quindi non riuscivo a distinguere bene le persone. Eppure mi sembrava che sotto scialli e mantelli questa gente indossasse vestiti di eccezionale fattura. Notai per esempio che l’uomo davanti a me faceva sfoggio sotto il mantello d’una calzamaglia gialla; la donna che gli era accanto doveva avere un corsetto rosso, allacciato sul retro da fermagli d’oro. Erano forse campagnoli scesi dai monti per le feste, o erano i più facoltosi di Urbania che indossavano antichi abiti in onore del Natale? Guardando dattorno, l’occhio mi cadde all’improvviso su una donna che stava in piedi dall’altra parte dell’altare, inondata dalla luce. Era avvolta in un manto nero ma portava in mano, quasi ostentandola, una rosa rossa, un lusso quasi inconcepibile in un posto come Urbania, nel cuore dell’inverno.
Anche lei mi vide e volgendosi in piena luce aprì il manto lasciando intravedere un vestito color rosso cupo sul quale rilucevano ricami d’oro e d’argento. Girò verso di me il volto nel barbaglio dei ceri e delle candele: era il volto di Medea da Carpi! Mi slanciai verso di lei facendo la mossa di scansare in modo rude la gente, ma passando mi parve di attraversare ombre di corpi. La donna si volse e s’incamminò lesta verso la porta. La seguii ma inspiegabilmente non mi riuscì raggiungerla. Quando arrivò al paramento di cuoio si volse di nuovo. Le ero quasi a ridosso ormai. Sì, era proprio Medea, Medea in carne ed ossa; non era una visione, né un’illusione ottica, né una simulazione: lo stesso ovale del volto, lo stesso incarnato di alabastro e quelle labbra appena arricciate, quelle palpebre tese agli angoli dell’occhio. Sollevò il drappo e scivolò fuori. La seguii, ci separava solo il paramento di cuoio.
Vidi richiudersi la porta alle sue spalle. Appena un passo di vantaggio su di me. Spalancai la porta. Doveva essere ancora sugli scalini, a portata di mano.
Fuori della chiesa mi fermai. Non c’era anima viva; solo il lastricato umido e il riflesso giallognolo delle pozzanghere. Mi sentii preso in una morsa di gelo.
Impossibile procedere. Cercai di rientrare in chiesa, ma la porta era chiusa.
Corsi a casa come un ossesso, i capelli irti sul capo, tremebondo, e per un’ora rimasi come imbambolato. S’è trattato d’una illusione? O sto forse ammattendo? 19 dicembre. Una giornata sfolgorante di sole; anche l’ultima neve fuligginosa ha smontato l’assedio della città, abbandonando alberi e siepi. Le montagne ancora candide scintillano contro l’azzurro intenso del cielo. È domenica, e tempo da domenica. Le campane suonano a stormo annunciando il Natale.
Giù nella piazza con il colonnato stanno montando una specie di fiera; rovesciano sui banchi indumenti colorati, di cotone e di lana, scialli e fazzoletti sgargianti, specchi, nastri, lampade di peltro, tutto l’emporio insomma del venditore ambulante che s’incontra nel Racconto di Natale. Le macellerie sono decorate di fiori di carta e di ghirlande, i prosciutti e le gote del maiale fan mostra di sé infiocchettati e impreziositi di verdi ramoscelli.
Sono uscito fuori di porta per vedere la fiera delle bestie: una foresta di corna intricate, di teste che ammusano e di zampe scalcianti, centinaia di bovi, bianchi e poderosi, dalle lunghe corna e le nappe rosse, ammassati nella piccola piazza d’armi sotto le mura cittadine. Ma non so nemmeno io perché sto scrivendo queste futili note. A che cosa servono poi? Mentre m’impegno a scrivere delle campane, delle feste natalizie e di questa fiera paesana, ho dentro la testa come un chiodo fisso: l’ho vista davvero, Medea, o è stato un segno della mia insania? Due ore dopo. Il padrone di casa mi informa che, a memoria d’uomo, la chiesa di San Giovanni Decollato è rimasta sempre chiusa. Allora è stata un’allucinazione, un sogno? Sono tornato a vedere la chiesa. Eccola dinnanzi allo spiazzo ove si biforcano i due vicoli in discesa, con la testa del Battista, a bassorilievo, sopra l’architrave della porta. Sembra proprio che questa sia rimasta chiusa per anni e anni. Fra le connessure prosperano le ragnatele.
Come dice il sor Asdrubale, la chiesa è diventata il rifugio dei topi e dei ragni.
Eppure… eppure, mi è rimasto un ricordo nitido, la coscienza fresca dell’accaduto. Sull’altare c’era un quadro che raffigurava la figlia di Erodiade in movenze di danza; mi rammento il suo turbante bianco con un ciuffo di penne scarlatte, e il caftano azzurro di Erode. E mi rammento anche la forma del candelabro che pendeva dal soffitto, sì, quello centrale, e la sua lenta oscillazione dovuta alla corrente d’aria e una delle candele che s’era piegata a metà per il calore.
Tutte cose, queste, che posso aver scorto altrove, immagini stipate nella memoria e recuperate a caso, non so come, in un sogno. L’ho sentito dire anche a qualche fisiologo. Ci tornerò di nuovo e, se la chiesa risulterà chiusa, vuol dire che è stato frutto d’un sogno, d’una visione dovuta all’eccitazione.
Devo partire subito per Roma e farmi visitare, perché temo di ammattire. Se viceversa… Basta! In casi come questi non c’è alcun viceversa. Ma se ci fosse… allora avrei visto Medea per davvero, e potrei rivederla ancora e parlarle. Il solo pensiero mi fa salire il sangue alla testa, ma non è orrore, bensì… non so come chiamarlo. È un sentimento di terrore ma anche di delizia. Matto che non sono altro! Ho qualche rotellina fuori posto… ecco tutto! 20 dicembre. Ci sono tornato, ho risentito la musica, sono entrato di nuovo in chiesa e l’ho vista! Non posso più dubitare dei miei sensi. E perché poi dovrei? Quei noiosi di storici sostengono che i morti sono morti e che il passato è passato per sempre. Per loro, senza alcun dubbio; ma perché la regola dovrebbe valere anche per me? Per uno che è innamorato e che si consuma nell’amore di una donna… una donna che, certamente… sì, debbo finire la frase. Perché non dovrebbero esistere fantasmi per coloro che riescono a vederli? Perché lei non dovrebbe ritornare in terra, sapendo che c’è un uomo che non pensa e non desidera altro che lei? Un’allucinazione? Ma io l’ho veduta, come vedo la carta sulla quale sto scrivendo, in piedi presso l’altare, illuminata dai ceri. E ho sentito il fruscio delle gonne, ho avvertito il profumo dei capelli, ho sollevato la cortina ancora tremula del suo tocco. L’ho perduta di nuovo. Ma questa volta, mentre mi precipitavo fuori sulla strada deserta e illuminata dalla luna, ho trovato una rosa sugli scalini della chiesa… quella stessa rosa che le avevo visto in mano un attimo prima.. l’ho presa tra le dita, l’ho odorata; una rosa, una rosa vera, appena colta, di un rosso intenso. L’ho messa in un bicchiere pieno di acqua dopo averla baciata non so quante volte; poi l’ho riposta lassù, in cima alla credenza, e ho deciso di non guardarla per ventiquattro ore per scoprire se è stata un’allucinazione. Ma ora la devo guardare, devo… Buon Dio, è orribile, orribile! Peggio che se avessi scorto uno scheletro. La rosa che appena ieri notte sembrava fresca, piena di colore e di profumo, è diventata scura, secca – una reliquia sigillata per secoli fra le pagine d’un libro – e mi si è sfarinata fra le dita. Ma perché poi dovrei meravigliarmene? Non ho forse la consapevolezza di essere innamorato d’una donna morta tre secoli fa? Se avessi voluto rose appena colte, avrei potuto rivolgermi alla contessa Fiammetta o ad una delle sartine di Urbania. La rosa si è sbriciolata, e con ciò? Se solo potessi avere fra le braccia Medea e baciare le sue labbra come ho baciato i suoi petali, sarei felice e accetterei di vederla mutare in polvere l’attimo appresso e di farmi polvere io stesso.
22 dicembre, all’una di notte. L’ho vista un’altra volta e sono stato sul punto di parlarle. Mi ha promesso il suo amore! Avevo ragione quando dicevo di non esser fatto per un amore terreno. Mi sono recato alla solita ora presso la chiesa di San Giovanni Decollato. Una tersa notte d’inverno. Gli alti palazzi e i campanili si stagliavano contro il cielo d’un azzurro intenso, nitidissimo. La luna non s’era ancora levata. Le finestre non erano illuminate, ma con un piccolo sforzo riuscii ad aprire la porta della chiesa e ad entrare. L’altare era come sempre illuminato. Compresi allora che quella folla, quei preti salmodianti che trafficavano attorno all’altare erano morti, che esistevano solo per me. Toccai senza avvedermene la mano del mio vicino: era fredda, come se fosse umida creta. Si volse ma sembrò che non mi vedesse; aveva il volto terreo, gli occhi sbarrati, fissi come quelli di un cieco o di un cadavere.
Sentii l’impulso irresistibile di fuggire. In quel preciso istante lo sguardo mi cadde su di lei, ritta presso l’altare, come sempre, avvolta in un manto nero, illuminata dalle candele. Si volse di tre quarti. La luce le illuminò il volto, il volto dalle fattezze delicate, con quelle labbra e quelle palpebre appena tese, l’incarnato d’alabastro impercettibilmente soffuso d’un rosa pallido. I nostri occhi s’incontrarono.
Traversai la chiesa per andarle incontro, ma lei si girò e prese a camminare lungo la navata. Le fui subito dietro. Ebbe un attimo d’incertezza e credetti di poterla raggiungere. Ma ancora una volta, quando uscii dalla chiesa un secondo dopo di lei, era svanita. Sui gradini della chiesa c’era qualcosa di bianco. Non si trattava di un fiore, questa volta, ma di una lettera. Cercai di rientrare in chiesa per leggerla, ma la porta era sbarrata, come se non l’avessero aperta da anni. Leggerla alla luce incerta di qualche tabernacolo sarebbe stato impossibile. Mi precipitai a casa, accesi la lampada ed estrassi la lettera da sotto la giacca. Eccola qui davanti a me. È la sua calligrafia, la stessa dei manoscritti che si trovano nell’archivio, della sua prima lettera: «A Spiridione. Se il tuo coraggio sarà pari all’amore, l’amore sarà ricompensato. Per la vigilia di Natale procurati una sega e un’ascia. Usa questa ultima per sfondare il torso del bronzeo cavaliere che è nella corte sul lato sinistro. Poi sega il corpo e cercavi dentro l’effigie d’un genietto alato. Prendilo, riducilo in mille pezzi e getta i frammenti in ogni direzione affinché possano disperderli i venti. Quella stessa notte colei che tu ami verrà a ricompensarti per la tua fedeltà».
Sulla ceralacca scura si leggeva il motto: AMOUR DURE – DURE AMOUR 23 dicembre. Allora è vero! Ero destinato a vivere un’esperienza eccezionale.
Finalmente ho trovato ciò a cui ha sempre teso la mia anima. L’ambizione, l’amore per l’arte, quello per l’Italia, gli interessi culturali che hanno sorretto il mio spirito e che mi han sempre lasciato insoddisfatto non erano il fine a cui tendeva il mio destino. Ho bramato la vita come si brama un fonte nel deserto, ma la vita sensuale degli altri e quella intellettuale non hanno placato questa sete. Vita significherà per me l’amore per una donna morta? Le superstizioni del passato ci fanno sorridere, ma dimentichiamo che anche la conclamata scienza d’oggi sembrerà un giorno superstizione. Perché poi il presente dovrebbe essere nel giusto e in errore il passato? Quelli che dipinsero quadri ed edificarono palazzi tre secoli or sono erano composti di fibre delicate e dotati di intelletto sottile né più né meno dei moderni che stampano stoffe e costruiscono vaporiere. Sono pervenuto a queste conclusioni dopo aver scoperto il segno sotto il quale son nato grazie ad un vecchio libro del sor Asdrubale e guarda… il mio oroscopo collima esattamente con quello che un antico cronista assegna a Medea. Questo può spiegare qualcosa? Nulla, assolutamente nulla. L’unica spiegazione consiste nel fatto ché ho amato questa donna fin dal primo momento che ne ho letto la vita e ne ho visto il ritratto. Invano ho cercato di nascondere questo amore a me stesso sotto la forma della ricerca storica. Un interesse storico profondo, non c’è che dire! Mi son procurato l’ascia e la sega. La sega l’ho comprata da un povero carpentiere in un villaggio dei dintorni. In un primo momento non riusciva a capire cosa volessi da lui, e deve avermi preso per matto. E forse lo sono. Ma se la felicità consiste nella follia, che farci? L’ascia l’ho trovata nel cortile dove sbozzano i tronchi di abete che crescono sugli Appennini, dalle parti di Sant’Elmo. Non c’era nessuno in giro e non ho resistito alla tentazione. L’ho maneggiata un po’, ho saggiato il filo e l’ho portata via. È la prima volta in vita mia che rubo qualcosa. Perché poi non sia entrato in una bottega e non l’abbia comprata, non saprei dirlo. È come se non avessi potuto resistere al fascino della lama scintillante. Quello che sto per fare è senza dubbio un atto di vandalismo ed io non ho alcun diritto di deturpare i beni di questa città.
Non intendo recare offesa né alla statua né alla città. Se potessi saldare il bronzo e restaurarlo al suo stato primitivo lo farei di buon grado. Ma debbo obbedire a lei, debbo vendicarla, debbo agguantare quella statuetta d’argento che Roberto si fece fare e consacrare affinché la sua anima vile potesse giacere in pace, sfuggendo quella dell’essere che più aborriva al mondo! Ah! duca Roberto, tu l’hai costretta a spirare senza l’estremo conforto e hai rinserrato l’immagine della tua anima nell’effigie del tuo corpo… Hai avuto paura di lei pensando a quando entrambi sareste stati morti e hai disposto le cose per ogni evenienza. Ma non sarà così, Altezza Serenissima. Proverai anche tu cosa vuol dire vagare dopo la morte ed incontrare chi hai mortalmente offeso.
Che giornata interminabile. Ma questa sera la vedrò di nuovo.
Ore undici. No, la chiesa era sbarrata. L’incanto è finito. Non la vedrò fino a domani. Ah, Medea, c’è stato nessuno dei tuoi amanti che ti abbia amato come ti amo io? Ancora ventiquattro ore al momento della beatitudine… momento per il quale mi sembra di aver atteso l’intera esistenza. E dopo, cosa accadrà? Mi appare sempre più chiaro: dopo, tutto sarà finito. Coloro che hanno amato Medea da Carpi, che l’hanno adorata e che sono stati al suo servigio sono morti. L’amore di una donna come lei è tutto ed è fatale: «Amour Dure», come recita il suo motto. Anch’io morrò, perché non dovrei? Potrei forse vivere ancora per amare un’altra donna? E come potrei continuare a trascinare un’esistenza come la presente dopo le delizie che mi attendono? Sarebbe impossibile. Se gli altri sono morti, morrò anch’io. L’ho sempre saputo che non sarei vissuto a lungo. In Polonia me lo profetizzò una zingara leggendomi nella mano il segno della morte violenta. Avrei potuto incontrare la morte in un duello con qualche compagno d’università, o in un incidente ferroviario. Ma non sarà quella la mia morte. La morte… ma non è morta anche lei? Quali strane visioni mi schiude questo pensiero! E gli altri, saran tutti presenti di là? Ma lei amerà me sopra tutti e in me colui che l’ha amata dopo essere stata trecento anni nella tomba.
24 dicembre. Ho sistemato tutto. Sguscerò via alle undici quando il sor Asdrubale e le sorelle dormiranno come ghiri. Mi sono informato in proposito: temono troppo i reumatismi per andare alla messa di mezzanotte.
Per fortuna fra qui e la corte non ci sono chiese e mi troverò quindi fuori del traffico della notte di Natale. Le finestre del viceprefetto s’aprono dall’altra parte del palazzo e sulla piazza si affacciano soltanto quelle degli uffici e dell’archivio, oltre i portoni delle stalle e delle rimesse. E poi farò un lavoretto pulito e veloce.
Ho già provato a segare un vaso di bronzo che ho comprato dal sor Asdrubale; figuriamoci quanto potrà resistere il bronzo della statua, che è cava, in buona parte già consunto e con non poche mende, specie dopo aver assaggiato un fendente dell’ascia affilata. Ho sistemato gli scritti per il Governo che mi ha mandato quaggiù con una borsa di studio. Mi dispiace di non aver potuto redigere, com’era nei patti, una storia di Urbania. Ho fatto una lunga passeggiata per trascorrere questa giornata che sembra non finisca mai e per placare l’impazienza. È il giorno più freddo che abbiamo avuto. Il sole splendente non dà alcun calore, anzi sembra aumentare la sensazione di gelo facendo scintillare i monti nevosi e balenare come una lama l’azzurro del cielo. I pochi che s’arrischiano ad uscire sono intabarrati e paiono coccolare sotto i mantelli gli scaldini di terracotta. Dalla fontana con il Mercurio pende una corona di pincaroli. Non è difficile immaginarsi frotte di lupi che, usciti dalla stenta boscaglia, s’apprestano a porre sotto assedio la città. Questo gelo mi rende straordinariamente calmo; ha il potere di riportarmi alla mia infanzia.
Ho camminato su per le viottole ripide, sconnesse, scivolose e goduto della vista delle montagne innevate; sono passato dinnanzi ai gradini della chiesa cosparsi di ramoscelli di bosso e d’alloro, nel tenue profumo di incenso che alitava da dentro: sensazioni che mi hanno riportato alle vigilie natalizie di tanti anni fa, a Posen e a Breslavia, quando ancora bambino percorrevo le ampie vie ed era tutto un occhieggiare alle vetrine dove cominciavano ad accendere le candele dell’albero, e assaporavo il momento in cui anch’io sarei entrato nella stanza delle meraviglie, nel bagliore delle luci e delle noci dorate e di ninnoli di cristallo. Su al settentrione staranno oramai dipanando gli ultimi nastri metallici rossi e azzurri e attaccando le ultime noci d’oro e d’argento all’albero, fuori di casa; e staranno accendendo le candele, rosse e azzurre anche loro, mentre la cera comincia a gocciolare sulle rame virenti e incantevoli dell’abete e i bambini aspettano fuori dalla porta col cuore in gola per sentirsi dire che è arrivato il Gesù Bambino. Ed io che cosa mi aspetto? Non saprei rispondere: mi sembra di vivere avvolto in un sogno, tutto m’appare sfuocato, impalpabile, come se il tempo avesse cessato di esistere e nulla potesse accadere. Inaridito ogni mio desiderio ed io stesso confuso nelle nebbie del sogno. Desidero arrivare a questa notte? Forse temo quel momento? Ma poi arriverà questa notte? Mi chiedo se riesco ad avvertire qualcosa attorno a me. Mentre mi siedo mi sembra di vedere quella via di Posen, l’ampia via con le luminarie di Natale e i rami verdi degli alberi che sfiorano le vetrine.
Vigilia di Natale. Mezzanotte. È fatta. Sono sgattaiolato via in silenzio. Il sor Asdrubale e le sorelle dormivano della grossa. Ho temuto per un istante di averli svegliati poiché, passando per l’anticamera dove il sor Asdrubale tiene i suoi ammennicoli di antiquariato che mette in vendita, l’accetta, sfuggitami di mano, ha urtato contro un’antica armatura.
L’ho sentito gridare qualcosa ancora mezzo assonnato; allora ho smorzato il moccolo e mi sono rintanato giù per le scale. È uscito di camera in vestaglia ma vi è subito rientrato quando ha visto che era tutto in ordine: «Sarà stato uno di quei soliti gattacci!», ha detto. Ho richiuso il portone di casa pian pianino. Il cielo s’era fatto tempestoso fin dal pomeriggio, alternando al fulgore della luna piena striature di vapori grigi e color del camoscio che eclissavano a tratti il disco lunare. Non un’anima viva; solo le case alte e desolate che sembravano fissarti nel gelido chiarore.
Non so perché, ma ho fatto una deviazione per andare alla corte passando davanti alla porta di due chiese da dove sortiva il riverbero incerto della luminaria di mezzanotte. Per un attimo ho avuto la tentazione di entrare, ma qualcosa me lo ha impedito. Ho colto le note dei canti di Natale. Cominciavo ad avvertire una certa spossatezza, per cui mi sono diretto verso la corte.
Mentre passavo sotto il portico di San Francesco ho avvertito dei passi dietro di me: era come se qualcuno mi stesse pedinando. Mi sono fermato per far passare colui che mi seguiva. Mentre si avvicinava il suo passo ha rallentato.
Mi è passato accanto bisbigliando: «Non andare: sono Gianfrancesco». Mi sono volto di scatto, non c’era più. Un freddo improvviso sembrava intorpidirmi le membra, ma ho proseguito.
Giù per il vicolo, dietro l’abside della cattedrale, ho scorto un tale appoggiato al muro. Era illuminato dalla luna. Mi sembrava che il suo volto, incorniciato dalla barba a punta, grondasse di sangue. Ho affrettato il passo ma quando gli sono stato vicino ha sussurrato: «Non obbedire ai suoi comandi, torna a casa: sono Marcantonio». Mi battevano i denti, ma mi sono precipitato ugualmente per il vicolo screziato dal bianco delle pareti di contro alle ombre azzurre.
Ecco finalmente la corte: la piazza era inondata dal chiarore lunare, le finestre del palazzo sembravano intensamente illuminate e la statua del duca Roberto, sfavillante di verde, venirmi incontro sul cavallo. Mi sono immerso nell’ombra. Dovevo passare sotto una volta a botte. Una figura, come se fosse scaturita dal muro, mi ha sbarrato il passo aprendo il braccio e con esso la lunga ala del mantello. Ho cercato di passare; lui mi ha afferrato il braccio con una presa che sembrava di gelo gridando: «Non passerai!», e mentre rifulgeva di nuovo la luna, a intermittenza, ho visto il suo volto bianco come quello d’uno spettro, le mascelle serrate da un fazzoletto ricamato; sembrava quasi un bimbo. «Non passerai!» gridò «non l’avrai, tu. Sono Prinzivalle».
Avvertivo la sua gelida morsa, ma con l’altro braccio ho menato un fendente brandendo l’accetta che tenevo sotto il mantello. L’ascia ha scheggiato la pietra del muro, con suono secco. Lui, svanito.
Ho cercato di fare in fretta quello che avevo deciso. Ho intaccato il bronzo e poi aperto uno squarcio più ampio. Ho estratto la statuetta d’argento e a furia di colpi d’ascia l’ho ridotta in mille pezzi. Mentre sperdevo dattorno gli ultimi frammenti, la luna si è velata all’improvviso. Si è alzato un gran vento che si è perso ululando nella piazza. Forse ha tremato anche la terra, non so.
Ho gettato via l’ascia e la sega correndo a casa. Era come se fossi inseguito da una muta di armigeri fantasma.
Ora sono tranquillo. È la mezzanotte: un attimo ancora e lei sarà qui.
Sopporta ancora, mio cuore. Sento che batti forte. Son convinto che il sor Asdrubale non ci andrà di mezzo. Ad ogni modo voglio scrivere due righe all’autorità, caso mai dovesse succedere qualcosa… Ecco il rintocco del campanile: «Io sottoscritto Spiridione Trepka dichiaro, sano di corpo e di mente, che qualsiasi cosa dovesse succedermi questa notte, la responsabilità è solo mia…». Un passo su per le scale… È lei finalmente! Ah, AMOUR DURE – DURE AMOUR! Finisce qui il diario di Spiridione Trepka. Il giornale più diffuso della provincia informò i lettori che la mattina di Natale dell’anno 1885 era stata gravemente danneggiata la statua equestre di Roberto II. Dava anche la notizia che un professore, Spiridione Trepka, originario di Posen nell’impero Germanico, era stato pugnalato al cuore. Ignoto l’assassino.
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