Alex Stoddard
Lo scrittore turco Orhan Pamuk, che ha vissuto quasi esclusivamente a Istanbul, salì su uno di questi traghetti dopo una delusione d’amore quando aveva ancora meno di venti anni. Era uno studente di architettura e sognava di diventare un grande pittore. Scendendo verso l’attracco del battello provò la sensazione di entrare in un altro tempo, in un tempo passato, mentre la città, poco sopra, dava l’idea di riuscire a rimanere nel presente. Era appena trascorso un istante da quando aveva comperato il biglietto, che l’organo che osserva e s’emoziona s’era già messo in moto. La fermata successiva è al quartiere di Kasimpasa. Poi Fener, con le case in legno, le chiese e le sinagoghe. È qui che, dopo la caduta di Costantinopoli, vissero i greci che rimasero in Turchia. Poi Balat, un tempo quartiere ebraico di Istanbul, Hasköy e Ayvansaray. È come attraversare un intero universo, uno spaccato infinito di civiltà e culture. Il traghetto si ferma a Sütlüce e infine arriva a Eyüp. A Pamuk, fino ad allora, quel quartiere pareva una fantasia chiusa, misteriosa, religiosa, lontana dal fasto di Istanbul. Quando arrivò al termine di quel piccolo viaggio di oltre trent’anni fa, ebbe termine anche la sua malinconia. In quel panorama di rovine e storia capì «di amare Istanbul proprio per i suoi ruderi, per la sua malinconia, e per il fatto che avesse perduto il prestigio di un tempo». A volte, anche durante un cammino breve, nel limitato spazio che si impiega per colmare una distanza minuta, anche tra una fermata e l’altra del percorso di un mezzo pubblico che attraversa il cuore della città in cui si vive, si può celare l’ipotesi di un viaggio e scoprire che è possibile approdare.

Crediti
 Federico Pace
 Senza volo
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