Spinoza eleva un’immagine di vita positiva, affermativa, contro i simulacri di cui gli uomini si accontentano.
Non solo se ne contentano: ma l’uomo che ha in odio la vita, che se ne vergogna, l’uomo dell’autodistruzione che moltiplica i culti della morte, che fonda la sacra unione del tiranno con lo schiavo, il prete, il giudice e il guerriero, sono sempre impegnati a perseguitare la vita, a mutilarla, a farla morire a fuoco rapido o lento, a mascherarla o a soffocarla con leggi, proprietà, doveri, autorità: ecco ciò che Spinoza diagnostica nel mondo, questo tradimento dell’universo e dell’uomo.
Il suo biografo Colerus riporta che amava i combattimenti di ragni: «Cercava dei ragni che faceva combattere insieme, o delle mosche che gettava nella tela del ragno, e stava poi a guardare quella battaglia con tanto gusto che talvolta scoppiava a ridere».
Il fatto è che gli animali ci insegnano se non altro il carattere irriducibilmente esteriore della morte. Loro non la portano dentro, benché si diano la morte necessariamente gli uni con gli altri: la morte in quanto cattivo incontro inevitabile nell’ordine delle esistenze naturali.
Ma essi non hanno mai inventato questa morte interiore, questo sadomasochismo universale dello schiavo-tiranno.
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