Movimenti sociali e rivendicazione egemonica
Il referente intersoggettivo dell’ordine politico vigente è quello che abbiamo denominato comunità politica. Al di là dell’individualismo metafisico liberale e al di qua del collettivismo sostanziale del socialismo reale, la comunità indica l’inserzione intersoggettiva originaria della soggettività singolare di ciascun cittadino. Nasciamo entro una comunità politica che è già sempre presupposta filo- (come specie umana) e ontogeneticamente (come singolo). Da un punto di vista politico, tuttavia, è ancora un’astrazione, senza le contraddizioni e i conflitti che sempre necessariamente la attraversano. Ascendiamo, quindi, dal semplice al complesso, dall’astratto al concreto. Passiamo adesso dalla comunità politica al popolo.
Se tutti i settori della comunità politica avessero realizzato le proprie richieste, non ci sarebbe protesta sociale, né formazione di movimenti popolari che lottano per il non soddisfacimento delle loro rivendicazioni. È a partire dalla negatività dei bisogni – di alcune dimensioni della vita o della partecipazione democratica che la lotta per il riconoscimento si trasforma spesso in mobilitazioni rivendicative (che non aspettano la giustizia come un dono dei potenti, bensì come risultati degli stessi movimenti). Ci saranno tanti movimenti quante rivendicazioni differenziali.
Il problema politico si scopre quando si considera che ci sono tante rivendicazioni come bisogni intorno ai quali nascono movimenti. Movimenti femministi, antirazzisti, della terza età, degli indigeni, dei marginali e disoccupati, che si aggregano a quelli della classe operaia industriale, dei contadini impoveriti o senza terra, e ai movimenti più geopolitici di lotta contro le metropoli colonialiste, l’eurocentrismo, il militarismo o movimenti pacificasti, ecologici, ecc. Ciascuno di questi movimenti ha rivendicazioni differenziali, che in principio si oppongono. Come si può passare da una rivendicazione particolare a una rivendicazione egemonica che possa unificare tutti i movimenti sociali di un paese in un momento dato? È la questione del passaggio da particolarità differenziali a una universalità che le inglobi.
La soluzione del passaggio di ciascuna rivendicazione alla rivendicazione egemonica universale è la proposta di E. Laclau. Il processo di questo passaggio è dettagliato e non possiamo analizzarlo qui. Direi che è l’univoco equivalente.
Boaventura de Sousa Santos, invece, pensa che ciascuna rivendicazione deve entrare in un processo di dialogo e di traduzione, al fine di ottenere una comprensione tra i movimenti che, tuttavia, non è quello di una universalità inglobante. Il postmodernismo critico lascia spazio a una ermeneutica dialogica aperta.
Sarebbe ancora possibile pensare che le rivendicazioni dei movimenti vanno incorporando le richieste degli altri movimenti nella propria. Il femminismo scopre che le donne di colore sono le peggio trattate; che le operaie ricevono minori salari; che le cittadine non occupano funzioni di rappresentanza; che le donne nei paesi periferici soffrono ancora maggiore discriminazione, ecc. Alla stessa maniera l’indigeno scopre lo sfruttamento della comunità nel capitalismo, nella cultura occidentale dominante, nel razzismo sottile ma vigente, ecc.; cioè, per mezzo di mutua informazione, dialogo, traduzione delle proprie proposte, prassi militante condivisa, si va costituendo lentamente un egemone analogico che include tutte le rivendicazioni in qualche maniera, benché possano, come sostiene E. Laclau , essercene alcune che hanno priorità. Nel processo dell’emancipazione contro la Spagna la Libertà riscosse un primato indiscutibile come richiesta unificante di tutti i gruppi del blocco patriottico in America Latina.
I movimenti, insieme a settori critici della comunità politica, tra i quali possono includersi la piccola borghesia in crisi di disoccupazione e la borghesia nazionale distrutta dalla concorrenza delle transnazionali, vanno costituendo un blocco che viene dal basso con sempre maggiore coscienza nazionale, popolare, piena di bisogni insoddisfatti e di rivendicazioni che si assumono con chiara coscienza delle loro esigenze.
Il referente intersoggettivo dell’ordine politico vigente è quello che abbiamo denominato comunità politica. Al di là dell’individualismo metafisico liberale e al di qua del collettivismo sostanziale del socialismo reale, la comunità indica l’inserzione intersoggettiva originaria della soggettività singolare di ciascun cittadino. Nasciamo entro una comunità politica che è già sempre presupposta filo- (come specie umana) e ontogeneticamente (come singolo). Da un punto di vista politico, tuttavia, è ancora un’astrazione, senza le contraddizioni e i conflitti che sempre necessariamente la attraversano. Ascendiamo, quindi, dal semplice al complesso, dall’astratto al concreto. Passiamo adesso dalla comunità politica al popolo.
Se tutti i settori della comunità politica avessero realizzato le proprie richieste, non ci sarebbe protesta sociale, né formazione di movimenti popolari che lottano per il non soddisfacimento delle loro rivendicazioni. È a partire dalla negatività dei bisogni – di alcune dimensioni della vita o della partecipazione democratica che la lotta per il riconoscimento si trasforma spesso in mobilitazioni rivendicative (che non aspettano la giustizia come un dono dei potenti, bensì come risultati degli stessi movimenti). Ci saranno tanti movimenti quante rivendicazioni differenziali.
Il problema politico si scopre quando si considera che ci sono tante rivendicazioni come bisogni intorno ai quali nascono movimenti. Movimenti femministi, antirazzisti, della terza età, degli indigeni, dei marginali e disoccupati, che si aggregano a quelli della classe operaia industriale, dei contadini impoveriti o senza terra, e ai movimenti più geopolitici di lotta contro le metropoli colonialiste, l’eurocentrismo, il militarismo o movimenti pacificasti, ecologici, ecc. Ciascuno di questi movimenti ha rivendicazioni differenziali, che in principio si oppongono. Come si può passare da una rivendicazione particolare a una rivendicazione egemonica che possa unificare tutti i movimenti sociali di un paese in un momento dato? È la questione del passaggio da particolarità differenziali a una universalità che le inglobi.
La soluzione del passaggio di ciascuna rivendicazione alla rivendicazione egemonica universale è la proposta di E. Laclau. Il processo di questo passaggio è dettagliato e non possiamo analizzarlo qui. Direi che è l’univoco equivalente.
Boaventura de Sousa Santos, invece, pensa che ciascuna rivendicazione deve entrare in un processo di dialogo e di traduzione, al fine di ottenere una comprensione tra i movimenti che, tuttavia, non è quello di una universalità inglobante. Il postmodernismo critico lascia spazio a una ermeneutica dialogica aperta.
Sarebbe ancora possibile pensare che le rivendicazioni dei movimenti vanno incorporando le richieste degli altri movimenti nella propria. Il femminismo scopre che le donne di colore sono le peggio trattate; che le operaie ricevono minori salari; che le cittadine non occupano funzioni di rappresentanza; che le donne nei paesi periferici soffrono ancora maggiore discriminazione, ecc. Alla stessa maniera l’indigeno scopre lo sfruttamento della comunità nel capitalismo, nella cultura occidentale dominante, nel razzismo sottile ma vigente, ecc.; cioè, per mezzo di mutua informazione, dialogo, traduzione delle proprie proposte, prassi militante condivisa, si va costituendo lentamente un egemone analogico che include tutte le rivendicazioni in qualche maniera, benché possano, come sostiene E. Laclau , essercene alcune che hanno priorità. Nel processo dell’emancipazione contro la Spagna la Libertà riscosse un primato indiscutibile come richiesta unificante di tutti i gruppi del blocco patriottico in America Latina.
I movimenti, insieme a settori critici della comunità politica, tra i quali possono includersi la piccola borghesia in crisi di disoccupazione e la borghesia nazionale distrutta dalla concorrenza delle transnazionali, vanno costituendo un blocco che viene dal basso con sempre maggiore coscienza nazionale, popolare, piena di bisogni insoddisfatti e di rivendicazioni che si assumono con chiara coscienza delle loro esigenze.
Il 'popolo'. La 'plebs' e il 'populus'
Così sorge la necessità di avere una categoria che possa inglobare l’unità di tutti questi movimenti, classi, settori, ecc. in lotta politica. Ebbene, popolo è la categoria strettamente politica (poiché non è propriamente sociologica né economica) che appare come imprescindibile, malgrado la sua ambiguità – ma la sua ambiguità non è frutto di un equivoco bensì di una inevitabile complessità. In un famoso discorso, Fidel Castro descrisse la questione quando parliamo di lotta – cioè, quando usiamo questo concetto dentro l’orizzonte politico, strategico, tattico: Consideriamo popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta […], quella che aspira a grandi e sagge trasformazioni in ogni ordine e che per riuscirci è disposta, allorquando crede a qualcosa e in qualcuno, soprattutto quando crede in se stessa, a dare fino all’ultima goccia di sangue […]. Noi chiamiamo popolo, quando si tratta di lotta, quei seicentomila cubani che sono senza lavoro (Come tali non sono salariati, non possono riprodurre la loro vita, sono il pauper ante festum di Marx, i marginali, i lumen) […]; quei cinquecentomila braccianti che vivono nei miseri bohios (capanne miserabili) […]; quei quattrocentomila lavoratori dell’industria e quei manovali […] i cui salari passano dalle mani del padrone a quelle dello strozzino […]; quei centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro e che contemplano sempre con tristezza come Mosé la terra promessa (Si osservi l’uso di una metafora dell’immaginario religioso popolare non molto ortodosso per un marxista di questa epoca, benché al tempo del Medioevo sarebbe un esempio ovvio, usato da Tupac Amaru, J. M. Morelos, i sandinisti, ecc) […]; quei trentamila maestri e professori […]; quei ventimila piccoli commercianti oberati dai debiti […]; quei diecimila giovani professionisti […] desiderosi di lottare e pieni di speranza […]. Questo è il popolo, quello che patisce tutte le avversità ed è pertanto capace di combattere con estremo coraggio!
In testi posteriori include i bambini abbandonati, le donne nella società maschilista, gli anziani, ecc. In paesi come Bolivia, Peru (quello di J. C. Mariategui, accusato di essere populista dai marxisti dogmatici), Guatemala o Messico, ci sono da aggiungere le etnie indigene. Per mezzo del processo di urbanizzazione non si deve dimenticare le masse emarginate, gli immigranti poveri appena arrivati, gli esclusi politicamente nell’esteriorità dello Stato, ecc.
Tra gli atzechi l’altéptl, e tra i maya l’Amaq sono le parole che significano la comunità, il popolo, con un’intensità includente del noi sconosciuta dalle esperienze moderno-occidentali. Per questo in America Latina, per influenze indigene in tutto il continente, la parola popolo significa qualcosa di più profondo che nelle lingue romanze.
Il popolo stabilisce una frontiera o frattura interna nella comunità politica. Può avere cittadini membri di uno Stato, ma del blocco al potere che si distingue dal popolo, come gli insoddisfatti nei loro bisogni a causa dell’oppressione o dell’esclusione. Chiameremo plebs (in latino) il popolo come opposto alle elite, alle oligarchie, alle classi dirigenti di un sistema politico. Questa plebs, una parte della comunità, tende tuttavia ad inglobare tutti i cittadini (populus) in un nuovo ordine futuro, dove le attuali rivendicazioni saranno soddisfatte e raggiungeranno una eguaglianza grazie a una lotta solidale per gli esclusi.
Non è strano che A. Negri opponga moltitudine (come lui la definisce) a popolo, respingendo quest’ultimo come una concezione sostanzialista e inadeguata: È possibile immaginare un nuovo processo di legittimazione che non riguardi più la sovranità del popolo, ma che si fondi sulla produttività biopolitica della moltitudine? Pensiamo di no, ma in ogni modo è necessario capire il popolo in una rinnovata maniera.
Così sorge la necessità di avere una categoria che possa inglobare l’unità di tutti questi movimenti, classi, settori, ecc. in lotta politica. Ebbene, popolo è la categoria strettamente politica (poiché non è propriamente sociologica né economica) che appare come imprescindibile, malgrado la sua ambiguità – ma la sua ambiguità non è frutto di un equivoco bensì di una inevitabile complessità. In un famoso discorso, Fidel Castro descrisse la questione quando parliamo di lotta – cioè, quando usiamo questo concetto dentro l’orizzonte politico, strategico, tattico: Consideriamo popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta […], quella che aspira a grandi e sagge trasformazioni in ogni ordine e che per riuscirci è disposta, allorquando crede a qualcosa e in qualcuno, soprattutto quando crede in se stessa, a dare fino all’ultima goccia di sangue […]. Noi chiamiamo popolo, quando si tratta di lotta, quei seicentomila cubani che sono senza lavoro (Come tali non sono salariati, non possono riprodurre la loro vita, sono il pauper ante festum di Marx, i marginali, i lumen) […]; quei cinquecentomila braccianti che vivono nei miseri bohios (capanne miserabili) […]; quei quattrocentomila lavoratori dell’industria e quei manovali […] i cui salari passano dalle mani del padrone a quelle dello strozzino […]; quei centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro e che contemplano sempre con tristezza come Mosé la terra promessa (Si osservi l’uso di una metafora dell’immaginario religioso popolare non molto ortodosso per un marxista di questa epoca, benché al tempo del Medioevo sarebbe un esempio ovvio, usato da Tupac Amaru, J. M. Morelos, i sandinisti, ecc) […]; quei trentamila maestri e professori […]; quei ventimila piccoli commercianti oberati dai debiti […]; quei diecimila giovani professionisti […] desiderosi di lottare e pieni di speranza […]. Questo è il popolo, quello che patisce tutte le avversità ed è pertanto capace di combattere con estremo coraggio!
In testi posteriori include i bambini abbandonati, le donne nella società maschilista, gli anziani, ecc. In paesi come Bolivia, Peru (quello di J. C. Mariategui, accusato di essere populista dai marxisti dogmatici), Guatemala o Messico, ci sono da aggiungere le etnie indigene. Per mezzo del processo di urbanizzazione non si deve dimenticare le masse emarginate, gli immigranti poveri appena arrivati, gli esclusi politicamente nell’esteriorità dello Stato, ecc.
Tra gli atzechi l’altéptl, e tra i maya l’Amaq sono le parole che significano la comunità, il popolo, con un’intensità includente del noi sconosciuta dalle esperienze moderno-occidentali. Per questo in America Latina, per influenze indigene in tutto il continente, la parola popolo significa qualcosa di più profondo che nelle lingue romanze.
Il popolo stabilisce una frontiera o frattura interna nella comunità politica. Può avere cittadini membri di uno Stato, ma del blocco al potere che si distingue dal popolo, come gli insoddisfatti nei loro bisogni a causa dell’oppressione o dell’esclusione. Chiameremo plebs (in latino) il popolo come opposto alle elite, alle oligarchie, alle classi dirigenti di un sistema politico. Questa plebs, una parte della comunità, tende tuttavia ad inglobare tutti i cittadini (populus) in un nuovo ordine futuro, dove le attuali rivendicazioni saranno soddisfatte e raggiungeranno una eguaglianza grazie a una lotta solidale per gli esclusi.
Non è strano che A. Negri opponga moltitudine (come lui la definisce) a popolo, respingendo quest’ultimo come una concezione sostanzialista e inadeguata: È possibile immaginare un nuovo processo di legittimazione che non riguardi più la sovranità del popolo, ma che si fondi sulla produttività biopolitica della moltitudine? Pensiamo di no, ma in ogni modo è necessario capire il popolo in una rinnovata maniera.
Il 'blocco sociale degli oppressi', il popolare e il populismo
Il popolo si trasforma così nell’attore politico collettivo, no in un soggetto storico sostanziale feticizzato. Il popolo appare in congiunture politiche critiche, quando prende coscienza esplicita dell’egemone analogico di tutte le rivendicazioni, da dove si definisce la strategia e le tattiche, trasformandosi in un attore, costruttore della storia a partire da un nuovo fondamento. Così come lo esprimono i movimenti sociali: Il potere si costruisce dal basso.
A. Gramsci, per evitare questa sustanziazione (la classe operaia come soggetto storico del marxismo standard), usa il concetto di blocco. Un blocco non è una pietra, riguardo alla sua consistenza, è soltanto un insieme integrabile e disintegrabile; può avere contraddizioni nel suo seno (come proponeva Mao Ze Dong); appare con forza in un momento e sparisce, quando ha compiuto il suo compito (se vi riesce, e anche i popoli falliscono, e anche spesso). È un blocco sociale perché procede dai conflitti dei campi materiali (estinzione ecologica, povertà economica, distruzione dell’identità culturale), e che lentamente passa il primo livello della società civile e da lì il secondo livello della società politica. Questi sono stati chiaramente compiuti da Evo Morales, che esercita la leadership del movimento contadino dei cocaleros; partecipe alla mobilitazione nella società civile; fondatore di un partito politico (nella società politica), ed eletto Presidente della Repubblica Boliviana. Popolo è un blocco sociale degli oppressi ed esclusi. In questo si distingue la plebs di tutta la comunità dominante, e della comunità futura (il populus ). Nel caso di Evo Morales, il popolo, il blocco sociale degli oppressi arriva a costituirsi in blocco storico del potere (potere obbedienziale, nelle sue azioni e dichiarazioni di principio all’inizio del 2006).
Si può adesso capire che il popolare è ciò che è proprio del popolo nel senso stretto (il referente al blocco sociale degli oppressi), che in politica è l’ultimo riferimento e riserva rigenerativa (hiperpotentia), ma ancora in sé. Il popolare rimane come cultura, come costumi, come economia, come ecologia sotto tutti i processi, in particolare quando ci sono popoli premoderni (come i maya, gli aymara, i quechua, ecc.), che seguendo la modernità andranno al di là di essa (nella civilizzazione transcapitalista, transmoderna – non post-moderna ché ancora è moderna -, eurocentrica, metropolitana).
Quando il popolo si dà istituzioni (potestas), per esempio in America Latina approssimativamente tra il 1930 e il 1954, organizza soltanto regimi populisti. Non si tratta, quindi, soltanto del passaggio dal blocco storico al potere, quando si tenta, come nel caso latinoamericano indicato, un progetto semplicemente borghese di emancipazione contro le borghesie metropolitane o del centro geopolitico, e di integrazione sociale con il rafforzamento del mercato nazionale protetto (possibile tra le due guerre mondiali). Le quasi-rivoluzioni di G. Vargas, di L. Cárdenas, o di J. D. Perón furono gli avvenimenti che raggiunsero la maggiore egemonia nel xx secolo; tuttavia, non furono che riforme dentro un orizzonte capitalista di patto sociale con la nascente classe operaia industriale e i contadini tradizionali. Fino alla fine del xx secolo il populismo fu l’istituzionalizzazione che riuscì a mantenere molte richieste popolari. Oggi, invece, un Donald Rumsfeld usa la parola populista come insulto, come critica, con un significato vicino al demagogico, al fascista, di estrema destra. Questo eventuale significato non rimarrà per molto tempo, perché non ha alcuna teoria che lo fondi. È una denigrazione superficiale, retorica dell’oppositore.
Il popolo si trasforma così nell’attore politico collettivo, no in un soggetto storico sostanziale feticizzato. Il popolo appare in congiunture politiche critiche, quando prende coscienza esplicita dell’egemone analogico di tutte le rivendicazioni, da dove si definisce la strategia e le tattiche, trasformandosi in un attore, costruttore della storia a partire da un nuovo fondamento. Così come lo esprimono i movimenti sociali: Il potere si costruisce dal basso.
A. Gramsci, per evitare questa sustanziazione (la classe operaia come soggetto storico del marxismo standard), usa il concetto di blocco. Un blocco non è una pietra, riguardo alla sua consistenza, è soltanto un insieme integrabile e disintegrabile; può avere contraddizioni nel suo seno (come proponeva Mao Ze Dong); appare con forza in un momento e sparisce, quando ha compiuto il suo compito (se vi riesce, e anche i popoli falliscono, e anche spesso). È un blocco sociale perché procede dai conflitti dei campi materiali (estinzione ecologica, povertà economica, distruzione dell’identità culturale), e che lentamente passa il primo livello della società civile e da lì il secondo livello della società politica. Questi sono stati chiaramente compiuti da Evo Morales, che esercita la leadership del movimento contadino dei cocaleros; partecipe alla mobilitazione nella società civile; fondatore di un partito politico (nella società politica), ed eletto Presidente della Repubblica Boliviana. Popolo è un blocco sociale degli oppressi ed esclusi. In questo si distingue la plebs di tutta la comunità dominante, e della comunità futura (il populus ). Nel caso di Evo Morales, il popolo, il blocco sociale degli oppressi arriva a costituirsi in blocco storico del potere (potere obbedienziale, nelle sue azioni e dichiarazioni di principio all’inizio del 2006).
Si può adesso capire che il popolare è ciò che è proprio del popolo nel senso stretto (il referente al blocco sociale degli oppressi), che in politica è l’ultimo riferimento e riserva rigenerativa (hiperpotentia), ma ancora in sé. Il popolare rimane come cultura, come costumi, come economia, come ecologia sotto tutti i processi, in particolare quando ci sono popoli premoderni (come i maya, gli aymara, i quechua, ecc.), che seguendo la modernità andranno al di là di essa (nella civilizzazione transcapitalista, transmoderna – non post-moderna ché ancora è moderna -, eurocentrica, metropolitana).
Quando il popolo si dà istituzioni (potestas), per esempio in America Latina approssimativamente tra il 1930 e il 1954, organizza soltanto regimi populisti. Non si tratta, quindi, soltanto del passaggio dal blocco storico al potere, quando si tenta, come nel caso latinoamericano indicato, un progetto semplicemente borghese di emancipazione contro le borghesie metropolitane o del centro geopolitico, e di integrazione sociale con il rafforzamento del mercato nazionale protetto (possibile tra le due guerre mondiali). Le quasi-rivoluzioni di G. Vargas, di L. Cárdenas, o di J. D. Perón furono gli avvenimenti che raggiunsero la maggiore egemonia nel xx secolo; tuttavia, non furono che riforme dentro un orizzonte capitalista di patto sociale con la nascente classe operaia industriale e i contadini tradizionali. Fino alla fine del xx secolo il populismo fu l’istituzionalizzazione che riuscì a mantenere molte richieste popolari. Oggi, invece, un Donald Rumsfeld usa la parola populista come insulto, come critica, con un significato vicino al demagogico, al fascista, di estrema destra. Questo eventuale significato non rimarrà per molto tempo, perché non ha alcuna teoria che lo fondi. È una denigrazione superficiale, retorica dell’oppositore.
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