
Il principio normativo democratico permette con il suo compimento di effettuare azioni legittime e di organizzare nuove istituzioni di legittimazione. Il sistema vigente produce inevitabilmente effetti negativi. Si trasforma, lentamente nel tempo, in un feticcio dominatore a causa dell’entropia delle istituzioni. Il blocco storico egemonico è andato producendo vittime, gruppi di esclusi che si costituiscono in nuovi movimenti sociali, momenti costitutivi del popolo. Queste comunità o movimenti oppressi o esclusi si organizzano e prendono coscienza della loro oppressione, della loro esclusione, del non soddisfacimento dei loro bisogni. Poco a poco creano consenso sulla loro situazione intollerabile, causa della loro negatività, della necessità della lotta. Questo consenso è un consenso critico che adesso crea dissenso di fronte all’antico accordo vigente che costituiva gli stessi oppressi o esclusi come massa obbediente al potere come dominazione legittima (nella definizione di M. Weber, che in realtà era il potere feticizzato, con legittimità apparente). Il consenso dei dominati è il momento di nascita di un esercizio critico della democrazia.
Il principio di legittimazione critico o di democrazia liberatrice (completamente lontana dalla democrazia liberale) si potrebbe enunciare così: Dobbiamo raggiungere consenso critico, in primo luogo, con la partecipazione reale e in condizioni simmetriche degli oppressi e degli esclusi, delle vittime del sistema politico, perché sono i più colpiti dalle decisioni che si accordano istituzionalmente con il passato!
La democrazia fu sempre un sistema istituzionale, inoltre è un principio, che dovette superare i limiti della precedente definizione di quali erano i membri effettivi della comunità. Gli esclusi fecero sempre pressione (anche nel demos greco, per arrivare alla isonomia, l’eguale diritto) per partecipare alla creazione del consenso, e questa lotta per il riconoscimento dei loro diritti pose l’esigenza di trasformare il sistema democratico vigente e aprirlo a un grado superiore di legittimità, e, pertanto, di partecipazione, cioè di democrazia. Gli esclusi non debbono essere inclusi (sarebbe come introdurre l’Altro nello Stesso) nell’antico sistema, bensì debbono partecipare come eguali in un nuovo momento istituzionale (il nuovo ordine politico). Non si lotta per l’inclusione bensì per la trasfonnazione – contro Iris Young, J. Habermas e tanti altri che parlano di inclusione.
La democrazia critica, liberatrice o popolare (perché il popolo è l’attore principale) pone in questione il grado precedentemente raggiunto di democratizzazione; giacché la democrazia è un sistema da reinventare continuamente.
Deve essere chiaro, poiché esiste una gran confusione al riguardo, che la democrazia critica (sociale, che include anche la sfera materiale, i conflitti ecologici, economici e culturali che producono crisi: il problema sociale), da una parte, è un principio normativo (un obbligo del politico di vocazione, e del militante, del cittadino, in favore del popolo), ma anche è un sistema istituzionale che si deve sapere trasformare permanentemente. Nell’innovazione o creatività istituzionale dei momenti superati, feticizzati o che non rispondono alla realtà del nuovo momento democratico, si fonda la possibilità reale dello sviluppo politico, che non si interrompe mai (e inoltre non raggiunge mai la perfezione; si tratta, nuovamente, di un postulato: Lottiamo per un sistema sempre più democratico!, la cui perfetta istituzionalità empirica è impossibile).

La fattibilità, quindi, è l’ultimo anello della catena, lo abbiamo indicato ripetutamente. Poiché una volta che è stata affermata la vita (ecologicamente, economicamente e culturalmente) della vittima, e che questa è riuscita ad organizzarsi per arrivare a un consenso critico democratico, si tratta di portare il progetto politico, che si è andato generando, alla pratica, alla realtà storica, alla sua istituzionalizzazione effettiva. È qui dove il politico di vocazione, il politico critico, il cittadino partecipativo, ha molti scogli da evitare, e certamente difficoltà. Le azioni e le istituzioni da realizzare devono essere possibili. Ma a differenza della politica di un sistema vigente, che ha le sue tradizioni, tendenze, istituzioni installate, colui che trasforma il sistema vigente ingiusto, si trova con maggiori difficoltà strategiche. N. Machiavelli scrisse la sua piccola opera Il principe non per un politico tradizionale, bensì per un nuovo governante, che inizia il compito di una nuova tappa politica. In questo caso la possibilità di rendere reale ciò che si tenta, ha maggiori difficoltà; cioè, ha un grado minore di fattibilità. In questo caso la possibilità si trova posta nella maniera più chiara tra ciò che l’anarchico crede possibile empiricamente (e lo è soltanto come postulato), e ciò che il conservatore dell’ordine vigente crede impossibile. Il possibile del politico critico, liberatore, responsabile delle vittime, è più al di qua della possibilità anarchica (in realtà impossibile) e consiste in una impossibilità conservatrice (possibile, quindi, se si trasformano le condizioni di oppressione e di esclusione vigenti).
Il principio politico critico di fattibilità potrebbe formularsi nella seguente maniera: Dobbiamo operare il massimo possibile, ciò che appare come riformista per l’anarchico e suicida per il conservatore, avendo come criterio di possibilità nella creazione istituzionale (la trasformazione) la liberazione delle vittime, del popolo! Solo i movimenti sociali trionfanti o il politico di genio (che in realtà va avvalorando la capacità trasformatrice o l’iperpotentia dello stesso popolo) sa quanto sia fattibilmente possibile o impossibile, come tirare la corda al massimo fino a prima che si rompa.
Dato che il politico critico si confronta con tutta l’istituzionalità instaurata dell’antico regime, il blocco storico dell’esercizio feticizzato del potere, la lotta del popolo per la sua liberazione deve avere una maggiore intelligenza o ragione strategica di quella dei dominatori. Un errore di calcolo può rompere un’unghia al gatto; il topo perde la vita per lo stesso errore.
Il principio normativo politico critico spinge alla creatività, allo spirito di corpo, all’emergenza della iperpotentia del popolo. Un popolo deciso e ribelle, in Stato di ribellione, non può essere in definitiva neppure militarmente sconfitto, commentava K. von Clausewitz di fronte al disastro di Napoleone in Spagna, situazione oggi ripetuta dagli Stati Uniti in Vietnam o in Iraq.

Il politico che esercita il potere obbedienziale non significa che non possa commettere errori. Il giusto commette sette peccati al giorno!, enuncia un detto semita. Il detto popolare ci insegna: Errare è umano, perdonare è divino! Qualcuno potrebbe domandare: ma quante volte pecca l’ingiusto? Nessuna, perché l’ingiusto è esattamente colui che non riconosce mai con responsabilità l’effetto negativo della sua azione. Come sempre sta effettuando atti corrotti, e tenta di occultarli, non può differire l’effetto negativo inevitabile (e non-intenzionale) dell’atto volontariamente corrotto. Li nega tutti. In questa pretesa discolpa di tutti gli effetti negativi dei suoi atti consiste la sua ingiustizia, la sua corruzione. Per questo, il politico onesto non può essere perfettamente giusto. La perfezione è propria degli dei, impossibile per la condizione umana. Dato che è impossibile l’estrema perfezione, ciò che si esige normativamente al politico di vocazione è che onestamente compia il più seriamente possibile le condizioni di un atto giusto. Questo si denomina pretesa politica di giustizia.
Al politico, come ad ogni essere umano finito, non lo si può giudicare come un cattivo politico per aver commesso errori politici. L’umana finitezza non può evitare atti errati. Ma può seriamente tentare con buona volontà di compiere le condizioni per essere giusto. Di colui che tenta onestamente di compiere queste condizioni si dice che ha una pretesa di giustizia. La parola pretesa indica, esattamente, che colui che realizza un’azione può giustificarla, dando ragioni di aver tentato di affermare fattibilmente la vita, con il consenso del coinvolto. I tre principi critici sono le condizioni della pretesa di giustizia politica.
Ma c’è di più, i principi normativi enunciati sono anche quelli che permettono di scoprire che si sono commessi errori politici (nel momento del non compimento di uno di essi), e, inoltre, la maniera di correggere gli errori commessi dipende dagli stessi tre principi critici (materiale, formale e di fattibilità). Questi principi normativi critici sono, quindi, principi che costituiscono e illuminano le azioni liberatrici e la trasformazione delle istituzioni, quelli che permettono di scoprire gli errori e che, infine, operano come criteri di correzione delle ingiustizie commesse. Senza principi, il politico che tentasse di essere critico, rimarrebbe in mezzo alla tormenta come un capitano di nave senza bussola: sarebbe perduto!
Al contrario, colui che ha principi normativi critici, che negano affatto anzi che sussumono la creatività procedurale (delle azioni o istituzioni, dell’amministrazione, ecc.), può affrontare crisi profonde, lotte politiche devastanti e finanche sopportare il disprezzo, la sconfitta parziale e lavori pazienti di lungo termine. Infine, e nei casi limite, la stessa morte – come Miguel Hidalgo y Costilla – poiché colui che sa affrontare incorruttibilmente la morte è temibile soltanto per i dominatori. È la massima fattibilità possibile, quando per la vita del popolo si offra la propria vita. È l’avvenimento imprevedibile che gli eroi hanno affrontato, ma che si pondera in ogni azione ispirata per chiari e vigenti principi normativi politici critici.
Quando il politico esercita in forma delegata il potere obbendienziale, quando ha un’onesta pretesa critico-politica di giustizia, si può dire che adempie alla nobile funzione della politica. Servire obbedendo il popolo, in maniera militante, produce nella soggettività del cittadino, del politico, una certa allegria simile a quella del giovane studente di diciotto anni che scrisse: La guida principale che ci deve soccorrere nella scelta di una professione è il bene dell’umanità […] La storia considera come gli uomini più grandi coloro che, mentre operavano per l’universale nobilitarono se stessi; l’esperienza esalta come il più felice colui che reso felice il maggior numero di uomini; la religione stessa ci insegna che l’ideale al quale tutti aspirano si è sacrificato per l’umanità.Karl Marx, Riflessioni di un giovane nello scegliere la professione (Marx, 1956, MEW, I; 1982, Obras fundamentales, vol. I, Mexico, FCE, i982, p. 4) [tr. it. in Karl Marx – F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, i980, vol. I, pp. 6-7].
Questo ideale normativo-politico universalista, pubblico e umanista tanto esemplare, è molto lontano evidentemente dall’egoismo politico dell’individualismo privatizzante del liberalismo, e dell’avarizia economico competitiva del capitalismo.
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