Introduzione
Héléne Cixous rilegge il saggio di Freud sulla Testa di Medusa per rivendicare il potere dell’écriture feminine, della scrittura femminile. Da terrificante e mostruosa, Medusa si trasforma in una figura sorridente e sovversiva in grado di destabilizzare la cultura patriarcale.
Parlerò della scrittura delle donne, di ciò che farà. Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dal loro corpo; per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa.
Queste riflessioni, inoltrandosi in un territorio sul punto di rivelarsi, portano necessariamente il segno dell’epoca di passaggio in cui viviamo, epoca in cui il nuovo si libera dal vecchio e, più precisamente, la nuova dal vecchio. Perciò, poiché non c’è un luogo a partire dal quale impostare un discorso, ma un suolo arido e millenario da scavare, ciò che dico ha almeno due aspetti e due intenti: distruggere, annullare; prevedere l’imprevisto, progettare.
Scrivo ciò in quanto donna rivolta alle donne. Quando dico la donna, parlo della donna nella sua lotta inevitabile con l’uomo tradizionale; e della donna-soggetto universale, che deve far arrivare le donne al(ai) loro senso(sensi) e alla loro storia. Ma bisogna anzitutto dire che una donna universale, una donna tipo non c’è neppure oggi, malgrado l’enormità della repressione che ha mantenuto le donne in quelloscurità che si cerca di far loro riconoscere come proprio attributo. Quello che esse hanno in comune dirò. Ma io sono più colpita dall’infinita ricchezza delle loro costituzioni individuali: non si può parlare di una sessualità femminile, uniforme, omogenea, dal percorso codificabile, come non si può parlare di un inconscio identico.
L’immaginario delle donne è inesauribile, come la musica, la pittura, la scrittura: il flusso delle loro visioni è incredibile. Ho provato più volte stupore per quello che una donna mi descriveva di un suo mondo, che ella inseguiva segretamente dalla più tenera età. Mondo di ricerca, di elaborazione di un sapere, a partire dalla sperimentazione sistematica dei meccanismi del corpo, da una interrogazione precisa e appassionata della sua erogenia. Questa pratica, in particolare della masturbazione, di una straordinaria ricchezza inventiva, si prolunga o si accompagna ad una produzione di forme, ad una vera e propria attività estetica, poiché ogni momento di piacere iscrive una visione sonora, una composizione, una cosa bella. La bellezza non sarà più vietata. In quelle occasioni desideravo che la donna scrivesse e proclamasse questo impero unico; affinché altre donne, altre sovrane inconfessate gridassero allora: anch’io trabocco, i miei desideri hanno inventato nuovi desideri, il mio corpo conosce canti straordinari, anch’io mi sono sentita tante volte così piena da far esplodere torrenti luminosi, forme molto più belle di quelle che si vendono incorniciate per sudicio denaro. E anch’io non ho detto niente, non ho mostrato niente; non ho aperto la bocca, non ho ri-dipinto la mia metà di mondo. Ho avuto vergogna. Ho avuto paura e ho ingoiato la mia vergogna e la mia paura. Mi dicevo: sei pazza! Che cosa sono queste montate, queste inondazioni, queste vampate? Quale donna in tumulto e senza limiti, immersa com’era nella sua ingenuità, mantenuta nell’oscurantismo e nel disprezzo di sé dalla grande morsa parentale-coniugale-fallogocentrica, non ha avuto vergogna della sua potenza? Quale donna, sorpresa e inorridita dalla confusione fantasiosa delle sue pulsioni (dal momento che le è stato fatto credere che una donna normale, con un ciclo mestruale regolare ha una calma… divina), non ha accusato se stessa di essere un mostro? Quale donna, sentendo l’agitarsi di un desiderio bizzarro (di cantare, scrivere, dire ad alta voce, insomma di far saltar fuori del nuovo), non si è creduta malata? Ora, questa malattia vergognosa è il suo resistere alla morte, il suo dare del filo da torcere.
E perché non scrivi? Scrivi! La scrittura è per te, tu sei per te, il tuo corpo è tuo, prendilo. Io lo so perché non hai scritto (e perché io non ho scritto prima dei ventisette anni). Perché la scrittura è il troppo alto e il troppo grande per te, riservato ai grandi, vale a dire ai grandi uomini, ed è, contemporaneamente, una sciocchezza. D’altro canto tu hai scritto un po’, ma di nascosto. E così non andava bene, ma perché era di nascosto, perché ti punivi del fatto di scrivere, perché non andavi fino in fondo; o perché lo scrivere, come il masturbarsi di nascosto, non era per andare più lontano, ma per attenuare un po’ la tensione, quel tanto che bastava perché il troppo cessasse di tormentare. E poi dopo aver goduto, si ha una gran fretta di colpevolizzarsi – per farsi perdonare, oppure fretta di dimenticare, di seppellire fino alla prossima volta.
Scrivi, che nessuno ti trattenga, che nulla ti fermi: né uomo; né stupida macchina capitalista, in cui le case editrici sono gli astuti e ossequienti ripetitori degli imperativi di un’economia che funziona contro di noi e sulle nostre teste; né tu stessa.
I veri testi delle donne, testi con i sessi delle donne, non fanno loro piacere, fanno loro paura, li disgustano. Fauci dei lettori, capi da collezione e patroni troneggianti. Scrivo donna: bisogna che la donna scriva la donna, che l’uomo scriva l’uomo. Perciò qui si troveranno solo riflessioni trasversali sull’uomo; a lui spetta dire a che punto è per lui la sua mascolinità e la sua femminilità: ciò ci riguarderà quando avrà aperto occhi per vedere se stesso. – Loro, gli uomini, hanno ancora tutto da dire e tutto da scrivere sulla loro sessualità. Poiché ciò che hanno enunciato sull’argomento deriva dall’opposizione attività-passività, dal rapporto di forza in cui si immagina una virilità obbligatoria, invasiva, colonizzatrice, mentre la donna è invece immaginata come continente nero da penetrare e pacificare (si sa quel che pacificare significa, come operazione scotomizzante dell’altro e misconoscenza di sé). Per conquistare, si è fatto in fretta ad allontanarsi dai propri confini, a perdersi di vista e di corpo. Il modo che l’uomo ha di uscire da se stesso per rientrare in colei che prende non per l’altro, ma per sua, lo priva, lo sa, del suo territorio corporeo. Confondendosi col suo pene e gettandosi all’assalto, è comprensibile che l’uomo abbia la sensazione e il timore di essere preso dalla donna, di essere, in lei, preso, assorbito o solo.
Esse ritornano da lontano: da sempre; dal di fuori, dalle lande dove le streghe si mantengono in vita; dal di sotto, dal di qua della cultura; dalla loro infanzia, che quelli fanno loro dimenticare con grande fatica, che condannano all’eterno riposo. Sono, murate, le bambine dal corpo mal educato; conservate, intatte da loro stesse, nel ghiaccio; rese frigide. Ma che cosa ribolle là sotto! E che sforzi devono fare i piedipiatti del sesso, sempre da capo, per ostacolare il loro ritorno minaccioso. Vi è stato un tale spiegamento di forze, da una parte e dall’altra, che la lotta si è immobilizzata per secoli nell’instabile equilibrio di un punto morto.
Contro le donne essi hanno commesso il crimine più grande: le hanno portate insidiosamente, violentemente, a odiare le donne, ad essere le proprie nemiche, a mobilitare la propria immensa potenza contro se stesse, ad essere le esecutrici dei loro bisogni di uomini.
Essi hanno fatto loro un anti-narcisismo! Un narcisismo che si compiace unicamente nel farsi amare per ciò che non si ha! Essi hanno fabbricato l’infame logica dell’anti-amore.
Noi, le precoci, le respinte della cultura, le belle bocche tappate col bavaglio, polline, respiri rotti, noi i labirinti, le scale, gli spazi calpestati; noi, le frustrate – siamo nere e siamo belle.
Tempestose, ciò che è nostro si stacca da noi senza che temiamo di indebolirci: i nostri sguardi se ne vanno, i nostri sorrisi filano, il riso di tutte le nostre bocche, tutto il nostro sangue scorre e noi ci espandiamo senza inaridirci: i nostri pensieri, i nostri segni, i nostri scritti noi non li tratteniamo e non abbiamo paura di mancare. Fortunate noi, le omesse, le allontanate dalla scena delle eredità, noi ci inspiriamo e ci espiriamo senza perdere il fiato, siamo dovunque!
Noi, coloro che tornano da sempre, se parliamo, chi potrebbe ormai vietarcelo? È tempo di liberare, conoscendola e amandola, la Nuova dall’Antica, di allontanarsene, di superare l’Antica senza indugio, andando oltre ciò che sarà la Nuova, come la freccia lascia l’arco, unendo e separando musicalmente le onde d’un sol tratto, per essere più se stessa.
Affermo che è necessario: infatti non è ancora esistita una scrittura che registri la femminilità, salvo qualche rara eccezione. Così rara che, nel percorrere le letterature attraverso i tempi, le lingue, le culture – Qui mi riferisco solo al posto riservato alla donna dal mondo occidentale., si può solo tornare spaventati da questa battuta quasi vana: si sa che il numero delle scrittrici (nonostante sia aumentato, pochissimo, a partire dal XIX secolo), è sempre stato irrisorio. Conoscenza inutile e illusoria se da questa specie di scrivane non si sottrae in primo luogo la stragrande maggioranza il cui stile non si distingue in nulla dalla scrittura maschile, e che occulta la donna o riproduce le rappresentazioni classiche della donna (sensibile – intuitiva – sognatrice, ecc.)– Allora quali sono le scritture di cui si potrebbe dire che sono femminili? Qui accennerò solo a degli esempi: bisognerebbe produrne dei brani che facessero sorgere nella loro significazione quanto di femminilità si diffonde da essi, ma lo farò altrove. In Francia (è stata notata la nostra infinita povertà in questo campo? I paesi anglosassoni hanno avuto delle risorse nettamente più consistenti) per sfogliare quello che il XX secolo si è lasciato scrivere, ed è ben poco, non ho visto registrare la femminilità che da Colette, Marguerite Duras… e Jean Genet..
Apro qui una parentesi: dico proprio scrittura maschile. Sostengo senza equivoci, che ci sono delle scritture distintive; che la scrittura è stata fino ad ora repressiva in modo molto più esteso di quanto non si sospetti o si confessi, gestita da un’economia libidica e culturale – dunque politica, tipicamente maschile – un luogo dove si è riprodotta più o meno consciamente, e in modo temibile perché spesso nascosto, o adorno del fascino mistificatorio della finzione, la repressione della donna; un luogo che ha esagerato volgarmente tutti i segni dell’opposizione sessuale (e non della differenza) e dove la donna non ha mai avuto la sua parola, cosa tanto più grave e imperdonabile perché la scrittura è proprio la possibilità stessa del cambiamento, lo spazio da cui può librarsi un pensiero sovversivo, il movimento foriero di una trasformazione delle strutture sociali e culturali.
Salvo eccezioni, perché l’enorme macchina che gira e ripete la sua verità da secoli ha perduto dei colpi, altrimenti io (io-donna, superstite) non scriverei. Ci sono stati i poeti per far passare a tutti i costi qualcosa di eterogeneo alla tradizione – uomini capaci di amare l’amore; di amare dunque gli altri e di volerli, di pensare la donna che resistesse all’oppressione e si costituisse in soggetto superbo, uguale, dunque impossibile, intenibile nel quadro sociale reale: questa donna il poeta non l’ha potuta desiderare che a costo di infrangere i codici che la negano, dal momento che la sua apparizione ha come necessaria conseguenza se non una rivoluzione, – poiché il bastione è inamovibile – almeno delle esplosioni laceranti. D’altronde talvolta è nella frattura causata da un terremoto, in occasione di quel radicale mutamento delle cose ad opera di un ribaltamento materiale, quando tutte le strutture sono un attimo disorientate, e quando un’effimera barbarie spazza via l’ordine, che il poeta fa passare, per un breve lasso di tempo, la donna: così fece Kleist, fino a morire dalla voglia che vivessero le sorelle-amanti figlie-materne madri-sorelle che non hanno mai piegato la testa. Ma dopo, appena rimessi in piedi i palazzi di giustizia, bisogna pagare: immediata messa a morte di questi elementi incontrollabili.
Solo i poeti, non i romanzieri, sono solidali con la rappresentazione. I poeti perché la poesia altro non è che prender forza nell’inconscio e perché l’inconscio, l’altra contrada senza limiti, è il luogo in cui sopravvivono le rimozioni: le donne o, come direbbe Hoffmann, le fate.
Bisogna che la donna si scriva, perché è l’invenzione di una scrittura nuova, insorta che le permetterà di effettuare, venuto il momento della sua liberazione, le rotture e le trasformazioni indispensabili nella sua storia, a partire da due livelli inseparabili:
- Individualmente: scrivendosi, la donna farà ritorno a quel corpo che le è stato più che confiscato, che è stato trasformato nell’inquietante straniero in piazza, nel malato o nel morto, e che così spesso è il cattivo compagno, causa e luogo delle inibizioni. Censurando il corpo viene censurato, già che ci siamo, il respiro, la parola.
Scriviti: bisogna che il tuo corpo si faccia sentire. Allora sgorgheranno le immense risorse dell’inconscio. La nostra nafta si riverserà sul mondo, senza dollari-oro o petro-dollari, valori non quotati che cambieranno le regole del vecchio gioco. Scrivere, atto che non solo realizzerà rapporti de-censurati della donna con la sua sessualità, col suo essere-donna, restituendole l’accesso alle proprie forze, ma che le renderà i suoi beni, i suoi piaceri, i suoi organi, i suoi immensi territori corporei tenuti sigillati; che la strapperà alla struttura soggetta al super-io nella quale le era riservato sempre lo stesso posto di colpevole (colpevole di tutto, ogni volta: di avere dei desideri, di non averne; di essere frigida, di essere troppo calda; di non essere le due cose contemporaneamente; di essere troppo madre, di non esserlo abbastanza; di avere dei figli e di non averne; di allattare e di non allattare…) con quel lavoro di ricerca, di analisi, di illuminazione, con quell’affrancamento del testo meraviglioso di se stessa, cosicché le diventa necessario imparare urgentemente a parlare. Una donna senza corpo, una muta, una cieca, non può essere una buona combattente. È ridotta ad essere la serva del militante, la sua ombra. Bisogna uccidere la falsa donna che impedisce alla donna viva di respirare. Tracciare il respiro della donna intera. - Atto che segnerà la Presa della Parola da parte della donna, dunque la sua entrata fragorosa nella Storia, che si è sempre costituita sulla sua repressione. Scrivere per forgiare l’arma anti-logos. Per diventare finalmente parte che prende e che inizia a suo piacere, per il diritto che le spetta, in ogni sistema simbolico, in ogni processo politico.
È tempo che la donna sferzi i suoi colpi nella lingua scritta e orale.
Ogni donna ha conosciuto il tormento di parlare pubblicamente, il cuore che batte all’impazzata, la caduta talvolta nella perdita del linguaggio, a terra, mentre la lingua si tira indietro, a tal punto parlare – direi anzi aprir la bocca – in pubblico è per la donna un atto temerario, una trasgressione. Doppio sgomento perché anche se ella trasgredisce, la sua parola cade quasi sempre sull’orecchio da mercante dell’uomo che nella lingua capisce solo i discorsi al maschile.
È scrivendo da e verso la donna, e raccogliendo la sfida del discorso governato dal fallo che la donna affermerà la donna in un posto diverso da quello riservatole nel e dal simbolo, cioè il silenzio. Che esca dal silenzio disseminato di trappole. Che non si lasci rifilare per dominio i margini o l’harem.
Ascolta parlare una donna in un’assemblea (se non ha perduto dolorosamente il respiro): non parla, lancia in aria il suo corpo tremante, si abbandona, vola, è tutta intera che passa nella sua voce, è col suo corpo che sostiene vitalmente la logica del suo discorso. La sua carne dice il vero. Ella si espone. In un certo modo fa scrittura di ciò che dice, perché non rifiuta alla pulsione la parte indisciplinabile e appassionata che questa riveste nella parola. Il suo discorso, anche teorico o politico, non è mai semplice o lineare, o oggettivato, generalizzato: nella storia ella trascina la sua storia. Non c’è quel taglio, quella divisione che opera l’uomo comune, teso com’è dal suo antico rapporto opprimente e calcolatore verso il dominio, fra la logica del discorso orale e la logica del testo. Da ciò il discorso meschino e compiacente, che non impegna che la minima parte del corpo, più la maschera.
Nella parola come nella scrittura femminile non cessa mai di risuonare ciò che avendoci una volta attraversato, toccato impercettibilmente, profondamente, conserva il potere di colpirci, il canto, la prima musica, quella della prima voce d’amore, che ogni donna preserva, custodisce viva. Corne mai questo rapporto privilegiato con la voce? Perché nessuna donna alza sull’altra tante difese anti-pulsionali come un uomo. Tu non metti puntelli, non costruisci muri come lui, non ti allontani prudentemente, come lui, dal piacere. Anche se la mistificazione fallica ha generalmente contaminato i buoni rapporti, la donna non è mai lontana dalla madre (che io intendo non come ruolo, la madre come non-nome e come sorgente di beni). Sempre in lei sussiste almeno un po’ del buon latte materno. La donna scrive con l’inchiostro bianco.
Poiché la sua economia pulsionale è prodiga, ella non può, prendendo la parola, non trasformare direttamente e indirettamente tutti i sistemi di scambio, fondati sul risparmio maschile. La sua libido produrrà effetti di rimpasto politico e sociale molto più radicale di quel che si vuol pensare.
Poiché da sempre ella arriva, viva, siamo all’inizio di una nuova storia, o meglio di un divenire a più storie che si attraversano a vicenda. In quanto soggetto della storia, la donna si presenta simultaneamente in parecchi luoghi. Dis-piega la storia unificante, ordinatrice, che omogeneizza e incanala le forze e che riconduce le contraddizioni nella pratica di un solo campo di battaglia. Nella donna sono ritagliate la storia di tutte le donne, la sua storia personale, la storia nazionale e internazionale. In quanto combattente la donna fa corpo con tutte le liberazioni. Deve guardare lontano, non situazione per situazione. Ella prevede che la sua liberazione farà di più che modificare i rapporti di forza o rinviare la palla nell’altro campo, causerà un mutamento delle relazioni umane, del pensiero, di tutte le pratiche; non si tratta solo della lotta di classe, che infatti ella trascina in un movimento più vasto. Non che per essere donna-in-lotta si debba uscire dalla lotta di classe o negarla; ma bisogna aprirla, fenderla, spingerla, riempirla della lotta fondamentale, per impedire che la lotta di classe, e ogni altra lotta di liberazione di una classe o di un popolo, operi come istanza di rimozione, pretesto per differire l’inevitabile, la sconvolgente alterazione dei rapporti di forza e di produzione delle individualità. Questa alterazione è già in atto: negli U.S.A, ad esempio, dove milioni di talpe stanno facendo saltare la famiglia e stanno disintegrando tutta la socialità americana– Ma ciò all’interno di una chiusura economico-metafisica il cui limite, poiché essa resta non analizzata, non teorizzata, fermerà, sbarrerà molto presto – (a meno di un cambiamento attualmente impossibile da prevedere) – la portata del movimento..
Arriva, la nuova storia, non è un sogno, ma oltrepassa l’immaginazione maschile, e a buon diritto: sta per privarli della loro ortopedia concettuale, comincia col rovinare la loro macchina degli inganni.
Impossibile definire una pratica femminile della scrittura, ed è una impossibilità che si manterrà, poiché non si potrà mai teorizzare, rinchiudere, codificare questa pratica; senza con questo voler dire che essa non esista. Ma eccederà sempre il discorso retto dal sistema fallocentrico; essa ha e avrà luogo fuori dai territori subordinati alla dominazione filosofico-teorica. Essa si lascerà pensare solo dai soggetti che rompono gli automatismi, da coloro che percorrono i bordi che nessuna autorità soggioga mai.
- che l’opposizione sessuale, che si è sempre fatta a vantaggio dell’uomo, al punto da ridurre anche la scrittura alle sue leggi, non è che un limite storico-culturale. C’è, ci sarà ora, e sempre più forte e rapida, una letteratura che produrrà degli effetti irriducibili di femminilità;
- che è per misconoscenza che la maggior parte dei lettori, dei critici, degli scrittori dei due sessi esita ad ammettere, o nega francamente, la possibilità o la pertinenza di una distinzione scrittura femminile/scrittura maschile.
Si dirà correntemente, sgombrando così la differenza sessuale: o che ogni scrittura, nella misura in cui si fa strada, è femminile; e inversamente, ma è la stessa cosa, che il gesto della scrittura è l’equivalente di una masturbazione maschile (e allora la donna che scrive si ritaglia un pene di carta); o, ancora, che la scrittura è bisessuale, perciò neutra, rigettando la differenziazione.
Ammettere che scrivere è precisamente lavorare (nel) il reciproco, interrogare il processo dei sé e dell’altro senza il quale nulla vive, disfare il lavoro della morte, è in primo luogo volere il due, e i due, l’insieme dell’uno e dell’altro soggetto non raggelati in sequenze di lotta ed espulsione o altra messa a morte, ma dinamizzati all’infinito da uno scambio incessante dell’uno con l’altro soggetto diverso, che si riconosce e si ricomincia solo a partire dal confine vivente dell’altro: percorso multiplo e inesauribile dai mille incontri e trasformazioni del sé nell’altro e nel reciproco da dove la donna prende le sue forme (anche l’uomo, da parte sua; ma è un’altra storia sua).
Ho precisato: bisessuale; perciò neutra, in riferimento alla concezione classica della bisessualità, che, curva sotto il segno della paura della castrazione, col ricorso all’immagine di un essere totale (ma fatto di due metà) vuoi far sparire la differenza sentita come operazione a perdere, come segno terribile di un possibile taglio.
A questa bisessualità fusionale, che cancella, che vuole scongiurare la castrazione, (lo scrittore che ostenta: chi si scrive bisessuale, c’è da scommettere la testa, andate a vedere, che non è né l’uno né l’altro) io oppongo l’altra bisessualità, quella in cui il soggetto non rinchiuso nel falso teatro della rappresentazione fallocentrica, istituisce il suo universo erotico. Bisessualità, cioè localizzazione in sé, individualmente, della presenza, diversamente manifesta e insistente secondo ogni uno o una, dei due sessi, non-esclusione né della differenza, né di un sesso e, a partire da questo permesso che ci si dà, moltiplicazione degli effetti di iscrizione del desiderio su tutte le parti del mio corpo e dell’altro corpo.
Ora accade che attualmente, per ragioni storico-culturali, ad aprirsi e a beneficiare di questa bisessualità senza controllo, che non annulla le differenze, ma le anima, le insegue, le aggiunge, sia la donna: in certo quai modo la donna è bisessuale. L’uomo invece, non è un segreto per nessuno, è addestrato a mirare alla gloriosa monosessualità fallica. A forza di affermare il primato del fallo, e di metterlo in opera, l’ideologia fallocratica ha fatto più di una vittima: come donna la grande ombra dello scettro mi ha potuto oscurare, e mi è stato detto: adoralo, è ciò che tu non brandisci. Ma nello stesso tempo all’uomo è stato costruito questo grottesco e, pensaci bene, poco invidiabile destino, di essere ridotto ad un solo idolo dai testicoli d’argilla. E, come notano Freud e i suoi seguaci, ad avere così paura di essere una donna! Poiché se la psicanalisi si è costituita a partire dalla donna e per rimuovere (rimozione che, gli uomini lo dimostrano, non è poi così riuscita) la femminilità dalla sessualità maschile, oggi essa rende un conto poco confutabile; come tutte le scienze umane essa riproduce il maschile, di cui è uno degli effetti.
Qui incontriamo l’inevitabile uomo di roccia, così rigidamente eretto nel suo vecchio campo freudiano che, per riportarlo dove la linguistica lo concettualizzi a nuovo, Lacan lo conserva nel santuario del Fallo, al riparo dalla mancanza di castrazione! Esiste, il loro simbolico, ha potere, lo sappiamo troppo bene noi, creatrici del disordine. Ma nulla ci obbliga a depositare le nostre vite nelle loro banche della mancanza, a pensare la costituzione del soggetto in termini di dramma dalle repliche oltraggiose, a riportare continuamente a galla la religione del padre. Noi non lo desideriamo! Noi non giriamo in cerchio intorno al buco supremo, noi non abbiamo alcun motivo di donna per essere vassalle del negativo. Il femminile (i poeti lo sospettarono) afferma: … and yes, I said yes I will Yes. E sì, dice Molly portando via Ulisse al di là di ogni libro verso la nuova scrittura, ho detto sì, voglio Sì.
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