Per me scrivere è un’attività estremamente dolce, felpata. Quando scrivo, ho come la sensazione di un velluto. Per me l’idea di una scrittura vellutata è come un tema familiare, al limite tra l’affettivo e il percettivo, che continua a ossessionare il mio progetto di scrivere, a guidare la mia scrittura mentre sto scrivendo, che mi permette in ogni momento di scegliere le espressioni che voglio utilizzare. Per la mia scrittura il vellutato è una sorta d’impressione normativa. Rimango perciò molto stupito quando vedo che gli altri riconoscono in me piuttosto la scrittura secca e mordace. Pensandoci bene, credo che siano gli altri ad avere ragione. Immagino che nel mio pennino ci sia una vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è vero forse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni aggressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quando operava? Ho trasformato il bisturi in pennino. Sono passato dall’efficacia della guarigione all’inefficacia del libero discorso; ho sostituito alle cicatrici sul corpo i graffiti sulla carta; ho sostituito all’incancellabile della cicatrice il segno perfettamente cancellabile della scrittura. Forse dovrei andare ancora oltre. Forse il foglio di carta è per me il corpo degli altri.
Conversazione con Claude Bonnefoy
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